- Modelli animali: il trauma intergenerazionale si trasferisce per generazioni.
- Neuroscienze: il trauma modifica struttura e funzione del sistema nervoso.
- Terapie bottom-up: agiscono su funzioni cerebrali evolute.
- Deep Brain Reorienting (DBR): diminuzione del 36,6% dei segni clinici del PTSD.
- DBR: si focalizza sulla tensione di orientamento.
La storia della comprensione e del trattamento dei disturbi mentali è costellata di tentativi di decifrare la complessità della mente umana. Uno degli approcci più consolidati nella ricerca di base consiste nell’utilizzare “modelli animali” per studiare i meccanismi neurobiologici sottostanti le patologie psichiatriche. Topi, ratti e altri animali vengono sottoposti a stimoli ambientali o modificazioni genetiche al fine di indurre comportamenti o alterazioni fisiologiche che si ritiene possano mimare alcuni aspetti dei disturbi umani come l’ansia, la depressione o il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). Questo approccio si basa sull’assunto che alcuni meccanismi cerebrali fondamentali siano conservati tra specie diverse, permettendo così di studiare in un sistema più semplice ciò che accade nel cervello umano.
Tuttavia, trasferire i risultati ottenuti sui modelli animali direttamente alla clinica umana presenta sfide significative. La complessità della mente umana, influenzata da fattori cognitivi, sociali ed esperienziali unici, è difficile da replicare completamente in un modello animale. Un recente articolo sottolinea che “molti progressi medici significativi sono stati ritardati a causa di informazioni fuorvianti derivate da modelli animali”, evidenziando che questi modelli non considerano variabili vitali come l’influenza dell’ambiente e i fattori psico-sociali, limitando così il loro potenziale predittivo
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Sperimentazione Animalel
. Malgrado i progressi compiuti, l’attività di ricerca non si arresta nel tentativo di chiarire i legami esistenti tra le manifestazioni comportamentali degli animali e le esperienze umane. Un obiettivo centrale risiede nell’individuazione di quei fattori che possano essere trasformati con successo in nuove modalità terapeutiche. Rendendo come riferimento il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), tale fenomeno è oggetto di approfondite analisi sin dai tempi della Prima Guerra Mondiale. Oggi si è concentrati sull’esplorazione delle tecniche per affrontare questa afflittiva condizione, la quale ha ripercussioni profondamente avverse sulla quotidianità delle persone.
L’analisi dei modelli animali ha fatto emergere significativi aspetti riguardanti il trauma e lo stress post-traumatico. Ricerche effettuate su topi hanno rivelato che un singolo gruppo esposto a un evento traumatico possa trasferire modifiche genetiche e comportamentali alle generazioni future, suggerendo così l’esistenza del trauma intergenerazionale. Questa rilevante evidenza – pur se ricavata tramite studi su organismi diversi dagli esseri umani – ha aperto nuovi orizzonti nella comprensione dei rischi legati alla vulnerabilità al trauma negli uomini. Inoltre, attraverso lo studio delle reazioni comportamentali degli animali verso stimoli sfavorevoli, sono stati esplorati concetti come il condizionamento alla paura, concepito da taluni come un elemento chiave nel meccanismo dello sviluppo del PTSD umano; quest’ultimo viene interpretato come una forma esacerbata e disfunzionale dell’apprendimento secondo Pavlov.
Uno dei dibattiti centrali nell’utilizzo dei modelli animali in psichiatria riguarda la valutazione della validità dei modelli stessi. Come possiamo essere certi che un comportamento indotto in un animale corrisponda realmente a un sintomo di un disturbo mentale umano? ricercatori si trovano di fronte alla difficoltà di misurare in modo oggettivo nei modelli animali sintomi complessi come pensieri intrusivi o cognizioni negative, che sono invece caratteristici del PTSD umano secondo DSM-5. Nonostante queste limitazioni, è possibile osservare e misurare in modo empirico altri sintomi come l’evitamento, l’iper-arousal e, in alcuni casi, inferire la presenza di stati interni correlati attraverso test comportamentali specifici come la preferenza sociale o la preferenza edonica.
La creazione di modelli animali “validi” per studiare il PTSD implica anche la considerazione di fattori di rischio che predispongono allo sviluppo della condizione. Nei ratti, ad esempio, è stata osservata una maggiore predisposizione al PTSD in presenza di una tendenza ansiosa preesistente, di eventi avversi precoci nella vita o di eventi prossimali avversi. Le ricerche indicano come la suscettibilità ai traumi possa essere influenzata non solo dall’episodio traumatico stesso, ma anche da una serie articolata di elementi genetici, esperienziali e contestuali. Esaminare queste variabili attraverso modelli animali offre possibilità significative per ritracciare gli individui maggiormente esposti ai rischi nella comunità umana e favorire l’elaborazione di programmi di prevenzione o attuazioni tempestive.
Le neuroscienze e il corpo nella psicoterapia del trauma
In anni recenti, il campo delle neuroscienze ha ampliato enormemente la nostra conoscenza riguardo a come gli eventi traumatici possano modificare sia la biologia cerebrale che quella corporea. Oggi è chiaramente accettato che il trauma trascende l’ambito psicologico per influenzare in modo significativo la struttura e il funzionamento del sistema nervoso. Esperienze caratterizzate da un forte impatto emotivo ripetute in età precoce possono perturbare lo sviluppo normale della materia grigia; ciò implica profonde conseguenze sulle interconnessioni neurali responsabili dell’elaborazione emozionale, della memoria nonché delle reazioni agli stimoli stressanti. Ricerche tramite neuroimaging hanno messo a confronto i cervelli di bambini cresciuti in contesti protetti rispetto a quelli che invece hanno vissuto situazioni traumatiche. I risultati mostrano variazioni marcate nel volume così come nella connettività delle aree cerebrali coinvolte. La connessione profonda fra mente e organismo nell’affrontare l’impatto traumatizzante ha dato origine a un’integrazione sempre più accentuata dei fattori corporei all’interno dei trattamenti psicoterapeutici moderni. La ricerca scientifica conferma che i processi mentali sono “incarnati” nel corpo, poiché sensazioni, emozioni e pensieri sono integrati attraverso la fitta rete di fibre nervose che collegano il cervello al resto dell’organismo.
La storia di un individuo, in particolare quella legata a esperienze traumatiche, si manifesta non solo nella narrazione verbale, ma anche nelle tensioni muscolari, nella postura e nelle alterazioni fisiologiche. Per questo motivo, le psicoterapie orientate al corpo (o “body-centered”) stanno acquisendo sempre maggiore rilevanza nel trattamento del trauma. Approcci terapeutici bottom-up, che agiscono su funzioni cerebrali evoluzionisticamente più antiche e coinvolgono l’esperienza somatica, sono diventati fondamentali per affrontare le conseguenze neurovegetative e somatiche del trauma.
A differenza delle terapie top-down che si concentrano principalmente sulla ristrutturazione cognitiva e verbale, i metodi bottom-up mirano a regolare il sistema nervoso e l’elaborazione somatica prima di affrontare i contenuti cognitivi ed emotivi del trauma. Questo è particolarmente importante per i pazienti con trauma complesso o dissociazione, le cui funzioni mentali superiori potrebbero essere scarsamente integrate, rendendo difficile l’accesso e l’elaborazione attraverso approcci esclusivamente verbali. La scoperta che il trauma altera la biologia del cervello ha portato a sviluppare teorie e tecniche terapeutiche che incorporano mezzi somatici e corporei.
Tuttavia, l’integrazione concreta delle scoperte neuroscientifiche nella pratica psicoterapeutica rimane ancora in fase iniziale. Gli approcci di trattamento tradizionali non sempre considerano l’importanza del corpo nella guarigione, mentre le terapie bottom-up, che sfuggono alla parola, dimostrano risultati promettenti. È interessante notare come, pur esistendo trattamenti considerati “gold-standard” per il PTSD, i tassi di abbandono e non risposta al trattamento rimangano significativi. Si stima che circa una persona su cinque abbandoni la terapia e fino alla metà dei soggetti non risponda in modo sufficiente. Questo evidenzia la necessità di sviluppare nuovi trattamenti, possibilmente guidati da una comprensione più approfondita dei meccanismi neurobiologici e che affrontino gli ostacoli alla cura in condizioni cliniche trauma-correlate.

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Il Deep Brain Reorienting (DBR): un nuovo approccio neuroscientifico
Nel panorama della ricerca e dell’innovazione nell’ambito della psicoterapia focalizzata sul trauma, spicca il Deep Brain Reorienting (DBR), un metodo terapeutico all’avanguardia fondato su una robusta base scientifica riguardante i meccanismi sottocorticali attivati dalla risposta traumatica. Creato dal dottor Frank Corrigan, questo approccio è strutturato come una terapia bottom-up con l’intento di raggiungere il cuore stesso dell’esperienza traumatica analizzando la precisa sequenza neurofisiologica attivata nel tronco encefalico in seguito a un evento lesivo e continuando a manifestarsi quando uno stimolo riporta alla memoria quel medesimo episodio.
Il fulcro neurofisiologico alla base del DBR è rappresentato dal mesencefalo e dalla porzione superiore del tronco cerebrale, zone considerate cruciali dalle ricerche per la reazione primaria verso eventi sconvolgenti o impressionanti. La premessa centrale suggerisce che l’effetto immediato causato da un trauma venga registrato in queste antiche regioni cerebrali, dove persistono memorie traumatiche estremamente radicate al di sotto della soglia ippocampale. L’accesso a queste aree potrebbe rivelarsi determinante per il trattamento profondo dei traumi.
Il centro nevralgico del DBR consiste nella sequenza OTA, concepita all’interno del mesencefalo, che integra meccanismi quali tensione di orientamento (mediati dal Collicolo Superiore – CS), shock (attraverso il Locus Coeruleus – LC) e reazioni affettive (coordinate dal Grigio Periacqueduttale – PAG). Queste strutture sottocorticali tenderebbero ad attivarsi secondo un ordine rapido e prevedibile nel contesto dell’interazione con stimoli significativi. Un aspetto di rilievo è il contributo fondamentale offerto dal CS nell’orientare il capo e il collo verso o lontano da un determinato stimolo, rilevando così una risposta neurofisiologica cruciale, antecedente alle reazioni emotive.
Le specificità del DBR lo rendono distintivo rispetto ad altre metodologie. In primo luogo, capitalizza su un’approfondita comprensione della neuroanatomia mesencefalica al fine di facilitare la consapevolezza corporea tramite una sequenza metodologica supportata da fondamenti neurobiologici. Si concentra sulla tensione di orientamento associata alla reazione iniziale allo stimolo traumatico, che può essere elicitata da rappresentazioni interiorizzate degli eventi traumatici. Focalizzarsi su questa tensione, spesso fugace e inconsapevole (coinvolgendo muscoli della fronte, intorno agli occhi o nella parte posteriore del collo), aumenta la consapevolezza e fornisce “un’àncora” per radicarsi al momento presente, permettendo un’elaborazione emotiva più regolata e mantenendo il paziente all’interno della “finestra di tolleranza” emotiva.
Un aspetto distintivo del DBR è la sua capacità di entrare nei circuiti cerebrali della sofferenza senza stare direttamene a contatto con le emozioni soverchianti. Focalizzando l’attenzione sulla sequenza OTA, si parte dalle tensioni profonde depositate nel CS, che sono implicite e precedono l’attivazione emotiva nel PAG. L’obiettivo è intervenire sui precursori dell’attivazione traumatica sciogliendo le tensioni di orientamento (pre-PAG) che bloccano le emozioni, permettendone la liberazione completa. Tale modalità terapeutica appare nettamente distinta da altri approcci come l’EMDR, i quali tendono ad esporre direttamente i pazienti a intense emozioni, attuando interazioni tra circuiti talamo-corticali e limbici che possono condurre al fenomeno della dissociazione. Attraverso la pratica del DBR si stabilisce un legame profondo alla tensione orientativa (ovvero all’attivazione dello stato corretto); ciò consente un intervento sulle tracce traumatiche sin dalle loro origini più nascoste in maniera decisamente più sicura.
La filosofia sottesa al DBR si fonda sull’assunto che ogni individuo abbia dentro di sé gli strumenti necessari per ristabilire la propria salute mentale rispetto ai traumi emotivi affrontati; pertanto, la funzione principale dell’operatore non è quella di imporre tecniche esterne quanto piuttosto quella di assistere nell’emergere spontaneo delle risorse interiori già presenti nel soggetto stesso. Le metodologie impiegate nel corso delle sedute tendono a favorire una connessione ampliata con le sensazioni corporee, facendo si che ogni individuo possa rivendicare pienamente la propria fisicità. Studi clinici recenti hanno messo in luce risultati sorprendenti riguardo all’efficacia della tecnica: analisi preliminari indicano infatti una diminuzione media pari al 36,6% dei segni clinici associabili al PTSD dopo appena otto incontri virtuali; ciò sottolinea ulteriormente l’importanza e la necessità di nuove strategie nella gestione dei disturbi legati ai traumi
[DBR Italia]
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Prospettive future e la rilevanza della neurobiologia in psicoterapia
La ricerca sul Deep Brain Reorienting (DBR) sta segnando una tappa fondamentale nel tentativo di connettere le recenti scoperte nel campo delle neuroscienze alla pratica psicoterapeutica riguardante i traumi. Nonostante sia necessario un approfondimento ulteriore per attestare solidamente tali risultati preliminari e delineare dettagliatamente i meccanismi operativi del DBR, è evidente che sottolinea l’importanza crescente della neurobiologia nella formulazione di strategie terapeutiche rivolte ai disturbi mentali.
L’evoluzione continua nelle nostre conoscenze neurologiche espande continuamente i confini teorici ed esperienziali a disposizione degli operatori sanitari. La dimensione somatica emerge prepotentemente dall’analisi neurobiologica applicata al trattamento dei traumi; non si può ignorare infatti quanto sia cruciale integrare la consapevolezza corporea all’interno della psicoterapia stessa. L’approfondita comprensione delle dinamiche cerebrali offre ai professionisti gli strumenti necessari per implementare strategie terapeutiche supportate da evidenza scientifica robusta. L’unione tra le scoperte del neuroimaging e l’approccio clinico rappresenta non soltanto un arricchimento dell’interpretazione terapeutica, bensì anche una fonte di maggiore sicurezza per i pazienti. Essi possono così percepire che il trattamento intrapreso poggia su basi scientifiche indiscutibili. La transizione da un paradigma esclusivamente psicologico a uno integrato – capace di contemplare mente, corpo e cervello – inaugura orizzonti inediti nel campo della salute mentale.
Contemporaneamente al progresso delle innovazioni terapeutiche informate dalle neuroscienze, si prolunga il confronto circa le implicazioni etiche legate all’utilizzo dei modelli animali nella ricerca sui disturbi mentali. Da una parte tali approcci hanno offerto costantemente informazioni vitali per decifrare i meccanismi neuronali; tuttavia, dall’altra emerge una serie significativa di interrogativi morali concernenti l’impatto sulla vita animale durante gli esperimenti.
Numerosi studi critici evidenziano chiaramente come vi siano profonde divergenze tra le varie specie viventi; ciò mette in risalto l’idea secondo cui i risultati ottenuti tramite ricerche effettuate su modelli zoologici risultino frequentemente poco applicabili all’ambito umano. Alcuni scienziati avvertono che “gli esperimenti sugli animali fanno parte della storia della medicina, ma la storia è il loro posto”
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Sperimentazione Animale]
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Oltre la superficie: un’immersione nel trauma e nella guarigione
Quando riflettiamo sul concetto di trauma, emergono spontaneamente immagini intense e angoscianti associate ad episodi significativi e impattanti. Tuttavia, per comprendere il trauma nella sua dimensione autentica, occorre andare oltre alla mera successione di memorie sgradite: esso rappresenta infatti un’interruzione radicale della tessitura stessa della nostra vita, generando sentimenti di disgregazione e instabilità emotiva. La psicologia cognitiva evidenzia come la memoria non costituisca un’arida registrazione dei fatti trascorsi; al contrario, essa risulta essere un meccanismo attivo costitutivo sia delle nostre esperienze passate sia delle loro rielaborazioni successive.
Nel contesto traumatico tale meccanismo subisce complicazioni notevoli: i ricordi tendono ad affermarsi stabilmente all’interno della psiche individuale—soggettività fissata—impossibilitati a inserirsi organicamente nel racconto complessivo dell’esistenza personale.
Questo fa si che tali memorie assumano le sembianze di un elemento alieno destinato continuamente a riapparire, riproponendo l’intensità emotiva provata durante l’evento originale stesso. Ciò conduce all’idea centrale dentro alla disciplina relativa alla psicoterapia legata al trauma: il PTSD è frequentemente considerato come un disturbo mnemotecnico, non tanto perché determini cosa rimane impresso nella mente, quanto piuttosto riguardo ai meccanismi tramite i quali tali elementi mnemonici vengono interpretati e conservati nell’ambito neurologico.
Ma andiamo oltre. Una nozione avanzata, che emerge anche dalle ricerche su modelli animali e dalle nuove psicoterapie come il DBR, riguarda il livello di elaborazione del trauma. Le esperienze traumatiche sembrano essere codificate a livelli molto profondi e antichi del cervello, al di sotto della consapevolezza cognitiva e della narrazione verbale. È come se il corpo, attraverso le sue risposte fisiologiche più primitive (pensiamo all’orientamento, allo shock), registrasse l’evento a un livello viscerale, ancor prima che la mente razionale possa comprenderlo o collocarlo nel tempo.
Questo ci suggerisce che per guarire dal trauma non sia sufficiente lavorare solo a livello cognitivo o emotivo, ma sia necessario accedere e “ri-orientare” queste risposte corporee primarie. Riflettiamo su questo: se il trauma si radica così profondamente nella nostra biologia, allora la guarigione richiede necessariamente un dialogo tra mente e corpo, un processo che permetta di sbloccare e reintegrare le energie e le sensazioni rimaste “intrappolate” nel sistema nervoso. L’idea di affrontare il trauma intervenendo su circuiti cerebrali tanto profondi quanto quelli esaminati dal DBR, i quali operano sulle tensioni colliculari ancor prima dell’attivazione emotiva all’interno del PAG, induce una revisione della concezione tradizionale del corpo. Non è più visto semplicemente come un mero contenitore per la mente; diventa piuttosto un attore centrale nel processo di recupero psicologico. Tale visione richiede una riflessione approfondita sui messaggi emanati dal corpo: ogni tensione e ogni sensazione inafferrabile si rivelano veicoli essenziali d’informazioni significative riguardanti la nostra realtà interiore e il cammino da percorrere nella vita.