Van Dijk rivela: come la psicologia cognitiva salva la carriera dei calciatori

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  • Il 10-15% degli atleti subisce un impatto psicologico che ne influenza il rientro.
  • Mindfulness riduce il cortisolo, migliorando la risposta emotiva degli atleti.
  • Supporto psicologico riduce i tempi di recupero del 25%.

L’esistenza di un atleta nel contesto del calcio professionistico è permeata da una serie di difficoltà che superano ampiamente l’aspetto esclusivamente atletico. Oggi abbiamo l’opportunità di esaminare come si sta sviluppando lo studio dell’interazione tra salute mentale, psicologia cognitiva e prestazioni sportive, diventato particolarmente vitale nella considerazione dei traumi subiti dagli atleti d’élite. La cura degli infortuni era storicamente relegata a una sfera prettamente medica e riabilitativa; al giorno d’oggi appare chiaro quanto questo processo includa aspetti legati all’interiorità dell’atleta stesso e alla sua esperienza emotiva. Le conseguenze sulle future performance sportive sono palpabili così come sull’integrità psichica complessiva dell’individuo. Tale situazione trova massima evidenza nel settore calcistico: eventi traumatici gravi hanno il potere non solo di interrompere le attività agonistiche annuali, ma riescono a dettare nuove traiettorie permanenti nella vita professionale, generando ferite invisibili ma estremamente profonde.

Il peso invisibile degli infortuni nei calciatori: tra stress post-traumatico e resilienza compromessa

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Il fardello non percepito delle lesioni nel calcio: un’analisi su stress post-traumatico e una resilienza messa alla prova

I danni sportivi nel calcio professionale trascendono la mera questione del dolore corporeo. Questi eventi scatenano reazioni psicologiche intricate le cui conseguenze possono essere gravi se non affrontate con attenzione. Le pressioni a cui sono sottoposti gli atleti – individui ammirati da milioni e tasselli essenziali delle imponenti strutture sportive – sono enormemente pesanti. Ad esempio, l’infortunio al legamento crociato anteriore suscita problematiche ben oltre l’intervento chirurgico necessario e i lunghi periodi di riabilitazione: porta con sé anche stati d’animo quali ansia persistente, paura delle recidive, depressione ed erosione della propria autostima. Pensate a uno straordinario difensore centrale come Virgil Van Dijk: all’apice della sua carriera sul campo da gioco ha il dovere di affrontare lo stop forzato dovuto a infortunio. La sua essenza agonistica – fondamentalmente basata su rendimento atletico ed autorità – subisce una frattura profonda creando nella sua psiche uno spazio vuoto difficilmente colmabile.

Si stima che una significativa percentuale di atleti di alto livello, a seguito di infortuni gravi, sperimenti sintomi di disagio psicologico che possono persistere a lungo, ben oltre la guarigione fisica completa.

In uno studio recente, si è evidenziato che circa il 10-15% degli atleti subisce un impatto psicologico così profondo da influenzare negativamente il loro ritorno in campo, con una diminuzione della performance o, in casi estremi, il ritiro prematuro (Santi & Pietrantoni, 2013).

La paura di un nuovo infortunio, la sensazione di non essere più all’altezza, la frustrazione per la perdita di forma fisica e la difficoltà a riconnettersi con la squadra possono creare un circolo vizioso che compromette seriamente la ripresa a pieno regime. Non si tratta solo di tornare a correre o a calciare, ma di recuperare quella serenità mentale e quella sicurezza che sono i pilastri della performance d’élite. La riabilitazione fisica, pur essendo fondamentale, deve essere affiancata da un percorso di supporto psicologico che aiuti l’atleta a rielaborare l’evento traumatico, a gestire l’ansia da prestazione e a ricostruire la propria immagine corporea e la fiducia in sé stesso. In tale cornice, si fanno strada le metodologie della psicologia cognitiva, considerate veri e propri strumenti efficaci per affrontare tali fragilità. Questi approcci propongono itinerari di recupero olistico che si prefiggono l’obiettivo di non limitarsi a curare il corpo, ma anche di fortificare l’intelletto.

L’arsenale della mente: mindfulness e visualizzazione nel recupero atletico

All’interno del campo della psicologia cognitiva emergono con crescente rilevanza due pratiche fondamentali nel contesto dello sport professionistico: la mindfulness, associata alla visualizzazione. Queste metodologie non rappresentano un semplice fenomeno passeggero; esse poggiano su robuste basi neuroscientifiche e psicologiche. Gli atleti possono avvantaggiarsi notevolmente di questi strumenti nell’affrontare le problematiche mentali legate agli infortuni e al conseguente recupero. La mindfulness offre un insegnamento cruciale sull’importanza di mantenere l’attenzione nel presente senza giudizi; tale capacità è indispensabile per i calciatori alle prese con sofferenza fisica o stati ansiosi. Pensate a un atleta durante una lunga riabilitazione: costretto ad allenamenti solitari prolungati dai risvolti dolorosi. Con l’ausilio della mindfulness riesce a fare pace con il proprio corpo sofferente e alleggerire pensieri tossici legati ad eventi passati, come incidenti sfortunati o partite perdute; inoltre affronta anche quelle ansie future collegate al suo rientro nell’attività agonistica o temendo ricadute patologiche.

Attraverso esercizi di respirazione e meditazione, l’atleta impara a distaccarsi dalle emozioni distruttive e a ritrovare una sensazione di controllo interiore, migliorando la sua capacità di resistere al dolore e di mantenere la concentrazione durante la riabilitazione.

Negli ultimi anni, la mindfulness ha dimostrato di ridurre i livelli di cortisolo, migliorando così la risposta emotiva degli atleti sotto pressione (Bühlmayer et al., 2017).

Alcuni team di élite hanno implementato programmi di mindfulness, riscontrando miglioramenti significativi nella gestione dello stress e nella rapidità del recupero. Parallelamente, la visualizzazione, o imagery mentale, consiste nel creare mentalmente immagini vivide di sé stessi mentre si eseguono azioni specifiche o si raggiungono obiettivi. Per un calciatore infortunato, questo può significare visualizzare il proprio ginocchio completamente guarito, il gesto tecnico perfetto, o il trionfo in una partita importante. Questa pratica non è semplice fantasticheria; essa attiva le stesse aree cerebrali coinvolte nell’esecuzione fisica dell’azione, contribuendo a rafforzare le connessioni neurali e a preparare la mente al ritorno in campo. È un “allenamento mentale” che può mantenere attivi i circuiti motori anche durante periodi di inattività fisica, prevenendo la “disattivazione” neurale.

Ad esempio, studi condotti su atleti di alto livello hanno dimostrato che la visualizzazione può migliorare la coordinazione, la precisione e la forza, persino in assenza di allenamento fisico (Noetel et al., 2019).

Un celebre esempio è quello di Van Dijk, che dopo il suo grave infortunio ha dichiarato di aver utilizzato tecniche di imagery per immaginare il suo ritorno in campo e le sue performance future. Questa “pre-esperienza” mentale non solo consolida la fiducia, ma può anche accelerare i processi di guarigione, poiché mente e corpo sono intrinsecamente connessi. L’integrazione di queste tecniche nel percorso riabilitativo non è più un’opzione, ma una necessità per garantire un recupero ottimale e duraturo degli atleti, mettendo la salute mentale al pari di quella fisica.

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Il ruolo cruciale della psicologia cognitiva nella medicina sportiva moderna

L’approccio alla medicina sportiva ha subito una trasformazione radicale negli ultimi decenni, evolvendosi da una visione puramente biomedica a una più olistica, che integra corpo e mente. La psicologia cognitiva è diventata una componente indispensabile di questo nuovo paradigma, offrendo strumenti e teorie per comprendere e intervenire sulle complesse dinamiche mentali che influenzano la salute e la performance degli atleti. Il caso di Van Dijk, come quello di molti altri sportivi di alto livello, evidenzia come il recupero da un infortunio non sia solo una questione di fisioterapia e riabilitazione fisica, ma un vero e proprio percorso di ricostruzione psicologica.

Secondo uno studio della British Journal of Sports Medicine, gli atleti che ricevono supporto psicologico durante la riabilitazione hanno tempi di recupero ridotti del 25% e un tasso di recidive ridotto del 30% rispetto a chi riceve solo riabilitazione fisica (Ardern et al., 2013).

Le “interviste” e le testimonianze di questi professionisti del calcio, sebbene metaforiche in questo contesto, servono a sottolineare come anche le figure più resilienti e mentalmente attrezzate possano beneficiare enormemente di un supporto psicologico mirato. Non si tratta più solo di “motivare” l’atleta, ma di fornire strategie cognitive e comportamentali per affrontare la paura di fallire, l’ansia da rientro, la gestione del dolore cronico e la ricostruzione dell’identità di atleta. L’integrazione della psicologia cognitiva nella medicina sportiva significa, in pratica, affiancare al chirurgo ortopedico e al fisioterapista, uno psicologo dello sport specialista.

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