Bullismo: ecco come cambia il cervello delle vittime (e dei bulli)

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  • Uno studio UNICEF (2024) rivela che 1 studente su 3 ha subito aggressioni fisiche.
  • In Italia, il bullismo coinvolge il 19,8% dei giovani (11-17 anni).
  • Il bullismo altera l'ippocampo, essenziale per la memoria e l'apprendimento.

Il bullismo costituisce un fenomeno dilagante nella società attuale che colpisce soprattutto giovani e adolescenti; esso non si limita a provocare ferite emotive o psicologiche, bensì genera anche delle ripercussioni neuropsicologiche significative. Durante l’adolescenza, una fase delicata segnata da una notevole plasticità neurale, il cervello appare particolarmente vulnerabile agli impulsi negativi provenienti dall’esterno. Ricerche scientifiche hanno evidenziato come reiterati episodi di violenza possano ledere lo sviluppo cerebrale stesso; ciò conduce ad alterazioni nelle funzionalità cognitive che possono manifestarsi in difficoltà psico-fisiche durature fino all’età adulta. Malgrado i tentativi attraverso iniziative educative e programmi volti alla sensibilizzazione in istituti scolastici e associazioni giovanili, nel tentativo di contrastare questa realtà critica continua a persistere.

In aggiunta a ciò, uno studio recentissimo realizzato dall’UNICEF nel 2024 mette in luce come circa 1 studente su 3 abbia subito aggressioni fisiche nell’arco dell’ultimo anno su scala globale. In aggiunta a ciò, un’indagine condotta dall’ISTAT nel 2023 ha rivelato come in Italia il fenomeno del bullismo coinvolga il 19,8% dei giovani compresi fra gli undici e diciassette anni. Questo dato presenta un incremento significativo fino al 22,5%, osservabile particolarmente nella fascia preadolescenziale di età (compresa tra 11 e 13 anni). [UNICEF Italia]. È opportuno notare che mentre molti studi hanno esaminato le ripercussioni emotive e psicologiche subite dalle vittime del bullismo, è stata poco approfondita una dimensione altrettanto significativa: i danni a livello cerebrale derivanti dall’aggressività del bullo durante lo stadio evolutivo del cervello. La maturazione dei meccanismi neurobiologici non cessa nel corso dell’infanzia; essa continua anche durante l’adolescenza e oltre in direzione della giovane età adulta. Diverse indagini indicano un’alterazione nello sviluppo neuronale tra quei bambini e adolescenti colpiti da atti intimidatori sistematici; tale situazione ha conseguenze negative sulle loro capacità cognitive così come sulle interazioni sociali.

Una serie d’analisi condotte nel 2018 ha messo in evidenza la presenza di elevati livelli di cortisolo, noto anche come ormone dello stress, tra i giovani assoggettati al fenomeno del bullismo. L’accumulo esagerato della sostanza può influenzare negativamente facoltà intellettive quali quella mnemonica e aumentare il rischio potenziale d’insorgenza problematica sul piano mentale. Le persone che subiscono mobbing tendono a riportare risultati inferiori ai test riguardanti la memoria verbale; ciò avvalora l’ipotesi secondo cui concentrazioni elevate d’ormone potrebbero provocare danno neuronale nell’ippocampo – regione fondamentale per le funzioni mnemoniche.

Il bullismo può anche ridurre la plasticità neuronale, ostacolando l’apprendimento e la memoria a lungo termine. Le vittime mostrano altresì una minore concentrazione e attenzione, associate ad anomalie nel corpo calloso. La violenza psicologica, caratterizzata da offese, esclusione e maldicenze, può indurre un “dolore sociale“, un’emozione negativa scaturita da esperienze di rifiuto e umiliazione.

Ricerche crescenti dimostrano che il dolore sociale attiva gli stessi circuiti neurali coinvolti nel dolore fisico, inclusa la corteccia dorsale cingolata anteriore. L’attivazione di quest’area è stata associata a sintomi internalizzanti come depressione, ansia, paura e isolamento, che sono più diffusi e intensi nei soggetti con un passato da vittime di bullismo.

Queste evidenze suggeriscono che l’esposizione ripetuta ad azioni violente, sia fisiche che psicologiche, durante la fase di maturazione psicofisica, può avere effetti duraturi sulle funzioni cerebrali. L’intervallo di età che va dagli 11 ai 14 anni appare come un momento decisivo, caratterizzato da un incremento del rischio di problemi legati all’ansia, alla depressione, alla dissociazione, nonché all’abuso di sostanze.

Ricerche pubblicate su JAMA Psychiatry evidenziano che una prolungata esposizione al bullismo può influenzare negativamente la funzionalità dell’amigdala e dell’ippocampo, due aree cerebrali essenziali per la gestione delle emozioni e dei processi mnemonici.

Alterazioni cerebrali osservabili con neuroimaging

L’indagine sulle modifiche nella configurazione cerebrale delle persone soggette al bullismo ha dato origine a numerosi studi tramite neuroimaging. Questi lavori scientifici hanno messo in luce cambiamenti tangibili in precise regioni del cervello. Analisi longitudinali evidenziano come le esperienze vissute durante l’adolescenza da vittime di atti vessatori possano provocare cambiamenti strutturali visibili, le cui ripercussioni possono protrarsi per anni e apparire correlate a un accresciuto rischio d’insorgenza dei disturbi mentali nell’età adulta.

Particolarmente rilevanti risultano gli studi condotti attraverso scansioni ad alta risoluzione della massa encefalica con risonanza magnetica (MRI), i quali indicano una diminuzione significativa del volume nelle zone cerebrali colpite dalle esperienze avverse da bullismo prolungato. Le regioni più compromesse comprendono il nucleo caudato e il putamen; insieme delineano quella porzione chiamata striato dorsale. Tali strutture cerebrali giocano ruoli chiave nella percezione della ricompensa, nella motivazione intrinseca, nel processo d’apprendimento associativo e nell’attenzione nonché nell’integrazione emotiva. È possibile che un declino del volume in tali aree spieghi la netta correlazione riscontrata tra vittimizzazione da bullismo e lo sviluppo elevato dell’ansia durante le fasi adolescenziali e nei primi anni della vita adulta.

Un’indagine recente realizzata presso l’Università di Dublino ha analizzato come il fenomeno del bullismo influisca su ben 49 diverse aree del cervello, coinvolgendo un campione significativo composto da 2.094 giovani. I risultati ottenuti hanno rivelato cambiamenti rilevanti associati a episodi vissuti di intimidazione, inclusa una considerazione particolare per l’ippocampo, noto per la sua funzione essenziale nel processo mnemonico e nell’apprendimento stesso. Questo studio mette in luce come vicende reiterate legate al bullismo possano condurre a un incremento del volume nelle sottoregiuni corticali, suggerendo così una spiccata vulnerabilità allo stress nonché difficoltà future nella gestione delle emozioni. [Focus.it].

“Essere vittime di bullismo ha avuto un impatto sul volume di specifiche aree cerebrali, portando a difficoltà future nel ‘tenere le redini’ e nella regolazione delle emozioni”.

Non solo riduzione di volume, ma anche alterazioni nella connettività neuronale e nel volume di altre aree cerebrali sono state riscontrate. Nelle vittime di bullismo, la corteccia prefrontale, il “centro di controllo” responsabile delle funzioni esecutive come l’autocontrollo e la gestione degli impulsi, può subire una riduzione della connettività neuronale. Questo compromette la capacità di prendere decisioni, pianificare e gestire conflitti. Inoltre, l’esperienza di bullismo è stata associata a una riduzione di volume dell’ippocampo, struttura cruciale per la memoria e l’apprendimento. Questa riduzione potrebbe comportare alterazioni nella regolazione ormonale, in particolare nella gestione dello stress, e rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo della depressione.


Un recente studio incentrato sulle differenze di genere ha mostrato che le ragazze, più frequentemente vittime di bullismo psicologico, mostrano un aumento di volume nelle aree implicate nella gestione delle emozioni, mentre nei ragazzi, vittime più frequenti di bullismo fisico, si osservano cambiamenti nelle aree cerebrali associate alla consapevolezza spaziale.

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I bulli e i meccanismi di ricompensa nel cervello

L’increscioso fenomeno del bullismo si manifesta non solo nelle sue vittime, ma coinvolge in misura significativa anche gli aggressori stessi. Recentemente, alcune indagini nel settore neuroscientifico hanno iniziato a focalizzarsi sull’impatto del meccanismo cerebrale della ricompensa in relazione ai comportamenti violenti o predatori. La proposta che attacchi verso individui percepiti come deboli possano scaturire da distorsioni operative all’interno di tale sistema complesso – fondamentale per la nostra esperienza ludica ed emozionale – introduce nuovi interrogativi sulla natura delle interazioni sociali caratterizzate dal bullismo.

La dimensione biologica dell’aggressione è stata esplorata per lungo tempo attraverso lo studio delle aree cerebrali pertinenti: i nuclei ventromediali dell’ipotalamo e l’amigdala, assieme ai circuiti limbici, rivestono un ruolo cruciale in tale contesto. Tuttavia, la connessione fra questi elementi neurologici e il circuito collegato alla sensazione gratificante legata ad attitudini aggressive era piuttosto nebulosa.

La ricerca su modelli animali come criceti o topini ha portato alla luce risultati notevoli; infatti, durante esperimenti sui maschi adulti dei roditori messi nella stessa gabbia con esemplari più giovani e inferiormente sviluppati dal punto di vista sociale, emergevano risposte aggressive significative da parte degli adulti stessi. Successivamente, questi topi “bulli” sono stati testati per vedere se avrebbero scelto di affrontare nuovamente la situazione che aveva scatenato la risposta aggressiva. Tutti i topi aggressivi hanno mostrato una preferenza per rifrontare il soggetto più giovane, suggerendo che l’atto di prevaricazione aveva lasciato un “ricordo piacevole”, inducendoli a ripetere l’esperienza.

Ulteriori indagini si sono concentrate sull’identificazione dei circuiti neuronali responsabili di questa sensazione gratificante. Inibendo selettivamente alcune sinapsi, i ricercatori hanno individuato queste strutture in connessioni specifiche tra il prosencefalo basale e l’habenula laterale, che nei topi controlla il comportamento aggressivo.

Un’età critica e la via della guarigione

Studi recenti mettono in evidenza come l’adolescenza rappresenti un momento di notevole fragilità rispetto agli effetti deleteri del bullismo. Questo periodo critico è caratterizzato da una significativa riorganizzazione del sistema nervoso centrale; tale processo rende i giovani particolarmente vulnerabili alle pressioni esterne associate allo stress. La corteccia prefrontale – ultima area cerebrale a raggiungere piena maturazione intorno ai 25 anni – risulta incapace di filtrare adeguatamente gli eventi negativi né tantomeno gestire lo stress con la robustezza tipica dell’età adulta. Pertanto, le reazioni neurologiche degli adolescenti risultano intensificate dall’azione ormonale legata a traumi passati – ad esempio quella indotta dal cortisolo –, esacerbando gli effetti nocivi legati al fenomeno del bullismo.

D’altra parte, diversi studi longitudinali attestano che le conseguenze neurologiche generate dal bullismo possono continuare a manifestarsi anche nell’età adulta, producendo segni indelebili che impattano negativamente sulla salute psicologica e sui rapporti interpersonali; resta comunque da chiarire se tali alterazioni possano essere in qualche misura ripristinate attraverso interventi scientifici o terapeutici. Innegabilmente, la neuroplasticità, definita come l’innata abilità del cervello di ristrutturarsi sia nella forma che nelle funzioni in reazione alle esperienze vissute, si propone quale fonte di ottimismo. Nonostante il periodo adolescenziale comporti un’indubbia vulnerabilità del cervello stesso, questa plasticità suggerisce anche un’innata possibilità d’adattamento e recupero.

Risulta fondamentale l’attuazione immediata ed efficace di interventi volti ad assistere coloro che hanno subito atti di bullismo; ciò è essenziale per incoraggiare lo sviluppo della resilienza. Alla luce delle alterazioni cerebrali scaturite dal bullismo stesso, appare necessario predisporre programmi dedicati a offrire supporto psicologico oltre alla riabilitazione mirata a consentire il ritorno al regolare processo evolutivo dell’individuo. Tali iniziative dovrebbero essere diversificate e cucite su misura secondo le necessità individuali dei soggetti interessati.

Fra i metodi promettenti spiccano quelli ancorati alla pratica della mindfulness. Quest’ultima viene concepita come l’esercizio volto a focalizzare l’attenzione sul qui e ora senza pregiudizi; sta acquisendo sempre maggiore importanza come strumento efficace nella gestione dello stress emotivo e nella regolazione affettiva, oltre al rafforzamento della plasticità neurologica. Diversi studi suggeriscono che programmi basati sulla mindfulness possono avere effetti positivi nel contrastare gli effetti negativi del bullismo, sia nelle vittime (aiutando a gestire ansia, depressione e migliorare l’autostima) sia potenzialmente nel promuovere una maggiore consapevolezza e regolazione emotiva nei bulli.

Titolo: Bullismo e neuroplasticità
Autore: Armitage R.
Pubblicato su: BMJ Paediatr Open
Anno: 2021

La mindfulness, attraverso esercizi mirati alla consapevolezza del respiro, del corpo, dei pensieri e delle emozioni, insegna a osservare le proprie reazioni interne senza esserne sopraffatti. Questo può essere particolarmente utile per i giovani che hanno subito traumi, aiutandoli a sviluppare una maggiore capacità di autoregolazione emotiva e una postura più resiliente di fronte alle difficoltà.

Studi neuroscientifici supportano l’efficacia della mindfulness, mostrando come essa possa aumentare l’attivazione delle cortecce prefrontali dorsomediale e dorsolaterale, aree fondamentali per la pianificazione e la regolazione emotiva, e ridurre la reattività dell’amigdala, coinvolta nelle risposte di paura e stress. Nonostante il fatto che la mindfulness non possa fungere da sostituto all’indispensabile assistenza fornita da uno psicoterapeuta esperto quando si presentano disturbi comportamentali o traumi complessi, essa può rivelarsi un’arma potente se integrata in un adeguato programma terapeutico. Per i giovani vittimizzati dal bullismo, questo approccio permette non solo lo sviluppo della consapevolezza personale ma anche una migliore regolazione emotiva. In tal modo essi possono intraprendere percorsi verso la cura personale sfruttando appieno la plasticità cerebrale durante gli anni cruciali della crescita. È riconosciuto l’importante valore dell’inclusione delle famiglie nel processo terapeutico così come quello dei programmi individualizzati accanto a iniziative collettive; entrambi gli aspetti risultano fondamentali per affrontare esaustivamente gli effetti devastanti del bullismo.

Le scoperte neuroscientifiche mettono in luce quanto profondamente il fenomeno del bullismo possa influenzare gli individui; tuttavia quella stessa scienza apre a nuove strade grazie alla neuroplasticità. La sensibilizzazione riguardo a metodologie come la mindfulness, ad esempio, presenta opportunità tangibili per favorire tanto il recupero quanto lo sviluppo della resilienza nelle vittime. Contro il bullismo va combattuta una battaglia multi-sfaccettata: oltre a strategie sociali ed educative efficaci, è necessario considerare anche i fattori biologici e psicologici sottesi al fenomeno stesso — obiettivo primario è sostenere le vittime nel proprio cammino verso una piena ristabilizzazione mentre simultaneamente si analizzano quelle radici nell’aggressività proprie dei carnefici.

Comprendere il substrato neurologico del bullismo

Il fenomeno del bullismo si rivela ben più complesso rispetto a essere semplicemente un problema sociale o emotivo; esso influisce profondamente sulla morfologia e sulle funzioni cerebrali, in particolare nei periodi critici dello sviluppo infantile. Esplorare gli aspetti neurologici legati a tale esperienza consente una comprensione approfondita dell’assenza temporale degli effetti negativi connessi al comportamento bullo e agevola l’individuazione delle possibili strade verso la guarigione.

Una concezione centrale nelle scienze cognitive è quella riguardante la memoria traumatica. L’impatto del bullismo cronico durante le prime fasi della vita induce nella mente meccanismi diversi per archiviare queste esperienze traumatiche rispetto ai normali eventi quotidiani. In tale contesto specifico si osservano cambiamenti notevoli: aree cerebrali associabili alle emozioni – quale l’amigdala – possono attivarsi con intensità maggiore, mentre strutture responsabili della narrazione oggettiva – ad esempio l’ippocampo – possono subire distorsioni significative. Ne consegue dunque che i ricordi legati a questi traumi sono solitamente disgiunti tra loro: caratterizzati da elementi puramente sensoriali (impressionanti immagini visive e acustiche) ma carenti nella linearità temporale propria dei veri racconti esperienziali.

Tali ricordi possono essere facilmente innescati da stimoli che ricordano l’esperienza traumatica, portando a risposte emotive intense e disadattive. La riduzione del volume dell’ippocampo e l’alterazione dell’amigdala, osservate nelle vittime di bullismo, sono coerenti con questa comprensione della memoria traumatica.

Un concetto più avanzato, derivante dalla psicologia comportamentale integrata con le neuroscienze, è quello della sensibilizzazione al trauma e dell’impatto sulla regolazione allostatica. Lo stress cronico e imprevedibile causato dal bullismo può “sensibilizzare” i sistemi di risposta allo stress del cervello, come l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA).

L’eccessiva e prolungata esposizione al cortisolo, come riscontrato nelle vittime, non solo danneggia l’ippocampo e compromette la memoria, ma può anche alterare la capacità del corpo e del cervello di mantenere la stabilità (allostasi) di fronte alle sfide. Questo porta a una sorta di “usura” fisiologica (“carico allostatico”) che aumenta la vulnerabilità a una vasta gamma di problemi di salute fisica e mentale a lungo termine, ben oltre i sintomi immediati di ansia e depressione. La difficoltà nella regolazione ormonale e nella gestione dello stress osservata nelle vittime di bullismo rientra pienamente in questo quadro.

Riflettendo su questi aspetti neurologici e psicologici, emerge con chiarezza che il bullismo non è un evento transitorio da minimizzare, ma un’esperienza potentemente modellante che può lasciare un’impronta duratura sul cervello e sulla vita di un individuo. La comprensione scientifica di questi meccanismi ci spinge a considerare il bullismo come un problema di salute pubblica di primaria importanza e a investire non solo nella prevenzione, ma anche in interventi precoci e mirati che capitalizzino sulla neuroplasticità per promuovere la guarigione e costruire resilienza.

Glossario:
  • Neuroplasticità: Capacità del cervello di modificare la propria struttura e funzione in risposta all’esperienza.
  • Corteccia prefrontale: Area del cervello coinvolta nella pianificazione, decisione e controllo emotivo.
  • Cortisol: Ormone dello stress prodotto dal corpo in risposta a situazioni di pericolo o stress emotivo.
  • Bullismo: Aggressione ripetuta e intenzionale, di tipo fisico o psicologico, che crea un danno alla vittima.



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