- Il professor Addeo ha tentato il suicidio il 2 giugno 2025 a causa dell'«accanimento mediatico».
- Addeo si è scusato per le frasi «infelici, inadeguate, inaccettabili» rivolte alla figlia di Giorgia Meloni.
- La lettera su Harper's Magazine ha criticato l’ostracismo ed è stata firmata da 150 intellettuali.
Le implicazioni del giudizio altrui: l’episodio di Addeo e gli effetti psicologici derivanti dall’esposizione mediatica negativa
L’increscioso episodio riguardante Stefano Addeo, insegnante di lingua tedesca a Marigliano che ha tentato il suicidio lo scorso 2 giugno 2025, ha messo a nudo le insidie che si celano nell’era digitale. L’impatto letale delle dinamiche legate alla gogna mediatica e alla cosiddetta ‘cancel culture’ rischia infatti seriamente di minare le condizioni psichiche degli individui. Il drammatico evento si è manifestato dopo intense settimane contrassegnate da aspre polemiche scatenate da un post pubblicato su Facebook dal docente stesso. In quella comunicazione – successivamente cancellata – Addeo aveva emesso frasi sconvolgenti dirette verso la figlia della premier Giorgia Meloni, auspicando per lei una sorte simile a quella toccata alla quattordicenne Martina Carbonaro assassinata brutalmente dall’ex fidanzato diciannovenne ad Afragola. Le dichiarazioni del professore hanno provocato subito una violenta reazione tra i cittadini dei social media e nella stampa tradizionale creando così un clima generale avverso nei suoi confronti.
Immediatamente soccorso dai carabinieri insieme al personale medico del 118 grazie all’alert a fornita dalla dirigente scolastica dell’istituto presso il quale lavorava – ella era stata contattata direttamente da lui nel corso della sua disperazione – Stefano Addeo è stato trasportato d’urgenza all’ospedale situato a Nola. Il dramma delle sue condizioni è stato arginato dall’efficace pronto intervento; tuttavia, egli ha ingurgitato una miscela letale di psicofarmaci con il preciso proposito di togliersi la vita. Le prime parole rilasciate dal professore direttamente dal suo letto d’ospedale riempiono lo spazio con un appello disperato contro la pressione esercitata su di lui: «Non ho retto tutto l’accanimento mediatico che c’è stato nei miei confronti», ha affermato, continuando a dire: «Ho commesso un errore, ma non dovevo essere crocifisso in questo modo; mi hanno linciato. Ho chiesto scusa; non ce l’ho fatta».
Quest’episodio tragico evidenzia in maniera incisiva come le ripercussioni derivanti da un errore – anche se grave e meritevole di condanna come quello fatto da Addeo nel suo post – possano sfociare in una sanzione collettiva e implacabile, oltrepassando i confini dei normali ambiti legali o disciplinari. Il docente sessantacinquenne aveva già cercato disperatamente di attenuare il clamore generato dalle sue affermazioni attraverso una lettera aperta pubblicata su un quotidiano rinomato, indirizzata addirittura alla premier stessa per porgere nuovamente le proprie scuse in maniera sincera e pubblica. Nella missiva indirizzata a Giorgia Meloni, dove manifestava il desiderio di un incontro diretto per comunicare personalmente le proprie scuse, Addeo si caricava di «ogni responsabilità», sebbene rivelasse anche che «mai nelle [sue] intenzioni vi era l’idea di augurare la morte a una bambina». La sua affermazione veniva qualificata da lui stesso come «infelice, inadeguata, inaccettabile», rivelandosi priva di qualsiasi corrispondenza con il suo essere sia «uomo che educatore». Nonostante questo gesto di contrizione fosse stato accolto a Palazzo Chigi con una certa apertura al dialogo antecedente all’emergere della drammatica vicenda legata al tentato suicidio, ciò non ha tuttavia arrestato l’ondata di disapprovazione generale.
Contemporaneamente alla reazione dell’opinione pubblica e dei media, il Ministero dell’Istruzione ha subito avviato un’indagine interna per valutare possibili sanzioni disciplinari nei confronti del docente già nei giorni successivi all’evento. Il Ministro Giuseppe Valditara aveva messo in evidenza l’importanza del rispetto e della dignità nella professione educativa, annunciando provvedimenti per coloro che non risultassero «degni di far parte della nostra scuola». All’interno dello scenario scaturito da tale controversia si è altresì levata la voce del direttore dell’Ufficio scolastico regionale della Campania, Ettore Acerra; quest’ultimo ha descritto l’accaduto come «sconcertante», sottolineando i rischi derivanti da un «uso inqualificabile dei social che possa portare a degli episodi che non dovrebbero essere assolutamente accettabili». Queste azioni istituzionali si collocano nell’alveo delle procedure formali, ma l’esperienza vissuta da Addeo prima del gesto estremo sembra essere stata dominata prevalentemente dall’«accanimento mediatico» e dal «linciaggio» percepito, elementi che trascendono la sfera giuridica o lavorativa per toccare profondamente quella umana e psicologica.
La gogna mediatica rappresenta un fenomeno sempre più preoccupante che colpisce con crescente frequenza individui, zone e intere comunità. Si alimenta un clima di odio e intolleranza che può avere conseguenze devastanti sulla vita delle persone. L’umiliazione pubblica può portare a depressione, ansia, disturbi del sonno, ideazione suicidaria e persino al suicidio stesso.
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La “cancel culture” tra ostracismo e rilettura del passato: impatti sociali e professionali
Il caso del professor Addeo si inserisce prepotentemente nel dibattito, ormai globale e acceso da diversi anni, sulla “cancel culture”. Questo fenomeno, le cui origini vengono spesso ricondotte agli Stati Uniti e in particolare alla comunità online “Black Twitter” intorno al 2017, consiste in una pratica di boicottaggio, ostracismo e censura nei confronti di individui, opere o fatti storici considerati offensivi o non allineati con i dettami del politicamente corretto. Sebbene il termine “cancel” per indicare la censura fosse presente anche prima, è nel decennio 2010-2020 che ha assunto il significato profondo legato alla volontà di estromettere dal dibattito pubblico o dalla sfera professionale coloro che hanno espresso opinioni sgradite o agito in modo percepito come inaccettabile. La spinta iniziale di movimenti come #MeToo e Black Lives Matter, che miravano a dare voce a minoranze storicamente discriminate e a denunciare ingiustizie razziali o di genere, ha contribuito alla diffusione di questa pratica come strumento di pressione sociale.
Tuttavia, il confine tra la legittima richiesta di responsabilità e l’eccessivo ostracismo è labile e oggetto di continue controversie. La “cancel culture” si manifesta in modi diversi: dall’ostracismo sui social network, al boicottaggio di prodotti culturali, fino alla richiesta di licenziamento o allontanamento di professionisti. Numerosi sono gli esempi citati nell’ambito dello spettacolo e del mondo accademico: dal regista Woody Allen, bersaglio di richieste di boicottaggio per il suo film e la sua autobiografia basate su accuse datate e mai verificate, all’attore Kevin Spacey, le cui scene in un film furono rigirate dopo le accuse di molestie, con gravi perdite economiche per la produzione. Ancora più significativa per il contesto del caso Addeo è la sua manifestazione nel mondo accademico, con diverse vicende che hanno visto coinvolti professori e ricercatori.
Si pensi al caso della virologa Julie Overbaugh, gravemente danneggiata nella sua carriera nel 2022 per un video risalente al 2009, in cui appariva in blackface, considerato un gesto razzista nonostante la sua dedizione nella lotta all’HIV in Africa. Oppure la docente di biologia evolutiva di Harvard, Carole Hooven, che nel 2021 rassegnò le dimissioni dopo essere stata accusata di transfobia per aver difeso l’esistenza di due sessi biologici e criticato l’uso di terminologie neutre nell’insegnamento scientifico, affermando che la sua salute mentale stava peggiorando rapidamente e sentiva di non poter più svolgere il suo lavoro.
Questi episodi mostrano come le opinioni percepite come “politicamente scorrette” possano innescare reazioni che culminano nell’esclusione professionale e sociale, spesso alimentate da un «linciaggio mediatico», concetto che ritroviamo nelle parole dello stesso Addeo. La “cancel culture” si distingue dal boicottaggio tradizionale perché non si limita a non supportare un’opera o una persona, ma mira a impedirne la stessa esistenza o diffusione, rendendola non fruibile. Questo approccio ha sollevato preoccupazioni significative riguardo alla libertà di espressione. Nel luglio 2020, una lettera aperta pubblicata su Harper’s Magazine, firmata da 150 intellettuali, scrittori e accademici, inclusi nomi di spicco come J. K. Rowling e Salman Rushdie, ha criticato la tendenza all’ostracismo e alla censura nel dibattito pubblico, sostenendo che la risposta alle idee sbagliate dovrebbe essere la discussione e la confutazione, non il silenzio. La lettera ammoniva contro il pericolo di un «conformismo ideologico» che indebolisce il dibattito aperto, fondamentale per una società libera.
Oltre all’ambito personale e professionale, la “cancel culture” incide anche sul rapporto con il passato. Azioni come l’abbattimento di statue e monumenti, visti come simboli di un passato razzista o colonialista (come nel caso delle statue di Cristoforo Colombo o dei padri fondatori degli Stati Uniti possessori di schiavi, abbattute a decine tra il 2018 e il 2021), o la messa in discussione di autori classici nei curriculum scolastici, mirano a una rilettura o, per i critici, a una vera e propria censura della storia. Esempi includono la rimozione dell’Odissea di Omero da un curriculum scolastico nel Massachusetts nel 2020, o la revisione di opere Disney o di autori per bambini come Roald Dahl e Dr. Il noto autore Seuss ha intrapreso il processo di rimozione dei contenuti considerati insensibili o stereotipati. Tale movimento induce a riflessioni circa l’applicazione di un paradigma retrogrado; esso implica una valutazione delle figure storiche basata sugli attuali criteri etici, trascurando la complessità delle realtà in cui quelle stesse figure operavano. Pur motivata dall’intento nobile di promuovere inclusività e giustizia sociale, questa iniziativa suscita domande relative all’oggettività storica; si può realmente apprendere dai fallimenti del passato se quest’ultimo viene costantemente depurato degli elementi sgraditi?
Salute mentale nell’era digitale: ansia, depressione e il rischio estremo
Il vivace confronto riguardante la ‘cancel culture’, insieme alla sua attuazione tramite pratiche quali l’ostracismo e il “linciaggio mediatico”, si intreccia in modo indissolubile con le crescenti inquietudini relative agli effetti deleteri dei social network sulla psiche degli individui. Situazioni simili al caso Addeo e ad altri eventi caratterizzati da severa condanna pubblica nei confronti di figure famose o meno evidenziano chiaramente come affrontare critiche agguerrite accompagnate da isolamento virtuale possa portare a gravi ripercussioni sul benessere emotivo delle persone coinvolte. Gli studi condotti nella disciplina della psicologia hanno ampiamente confermato i legami esistenti tra un uso smodato delle piattaforme social e il manifestarsi di disturbi mentali. Sebbene sia vero che tali reti possano fornire sostegno affettivo e incoraggiare lo sviluppo comunitario – com’è emerso in alcune analisi – dall’altro canto, un utilizzo asimmetrico risulta profondamente associato all’insorgere d’ansie, stati depressivi, stress cronico e insonnia.
Di particolare importanza appare poi la problematica del cyberbullismo; questa tipologia d’aggressione è realizzata mediante strumenti digitali e ha il potenziale per generare effetti profondamente traumatici sui soggetti colpiti. Stati di ansia e depressione sono tra le conseguenze più comuni, ma è accertato che nei casi più gravi il cyberbullismo possa essere un fattore scatenante per il suicidio. La gogna mediatica, che sia circoscritta ai social o amplificata dai mezzi di informazione tradizionali, può essere vista come una forma su vasta scala di cyberbullismo o “linciaggio” digitale. L’individuo oggetto di pubblica condanna si trova esposto a un flusso incessante di commenti negativi, offese e minacce, spesso da parte di un numero elevatissimo di persone, molte delle quali sconosciute. Questa esposizione costante e schiacciante può generare un trauma psicologico profondo, alimentando sentimenti di vergogna, isolamento e disperazione.
Le parole di Stefano Addeo, «Non ho retto… mi hanno linciato», danno voce all’effetto annichilente di questa forma di pressione sociale. Non si tratta solo della sanzione formale o delle conseguenze lavorative, ma del peso insostenibile dello sguardo giudicante di centinaia, migliaia, forse milioni di persone, percepite come un tribunale implacabile. In un’epoca in cui l’identità è sempre più legata alla rappresentazione digitale e al riconoscimento sociale online, l’esclusione e la condanna virtuale equivalgono a una forma di annullamento dell’individuo, una “cancellazione” che può avere ripercussioni tangibili e drammatiche sulla sua stabilità psicologica. La perdita di reputazione, l’isolamento sociale percepito e la sensazione di essere intrappolati in una situazione senza via d’uscita possono minare profondamente l’autostima e il senso di valore personale, portando a un rapido deterioramento della salute mentale, come accadde, secondo quanto da lei stessa riportato, alla docente Carole Hooven.
Il legame tra gogna mediatica, “cancel culture” e pensieri suicidi non è un’ipotesi astratta, ma una realtà che si manifesta in episodi concreti come quello di Marigliano. La rapidità e l’estensione con cui un messaggio o un comportamento vengono diffusi e giudicati in rete creano un ambiente potenzialmente tossico, in cui la reazione emotiva (rabbia, odio) diviene la forza trainante dietro il “linciaggio”. Ne conseguono critiche severe alla “cancel culture”, che viene accusata di promuovere un’intolleranza e un’incapacità di perdono, un approccio vendicativo e pauroso. Questa mancanza di misericordia, come è stata definita da alcuni critici del fenomeno, ostacola non solo la libertà di espressione, ma rischia di annullare la possibilità di redenzione e di crescita personale dopo un errore. La polarizzazione del dibattito online, l’assenza di contestualizzazione e la tendenza a giudicare unicamente sulla base di frammenti informativi contribuiscono a creare un clima in cui la pressione psicologica può diventare intollerabile, spingendo individui vulnerabili verso l’abisso.
Riflessioni sulla vulnerabilità umana nell’agorà digitale
La vicenda del professor Addeo e il suo atto estremo solleva interrogativi inquietanti su quanto effettivamente sia capace una società digitale, caratterizzata da rapidità nel formulare giudizi e dal desiderio irrefrenabile del pubblico ludibrio, nell’accogliere ed elaborare l’errore umano. Secondo le nozioni fondamentali della psicologia cognitiva, è evidente che le modalità interpretative degli eventi esterni incidono notevolmente sul nostro stato emotivo così come sulle nostre azioni. Una reazione complessiva caratterizzata dalla condanna collettiva può spingere un individuo verso meccanismi cognitivi distorti; questo porta alla sensazione schiacciante dell’annientamento totale insieme all’assenza delle vie per una possibile rieducazione o recupero personale. Così facendo si intensifica non solo lo stigma ma anche un profondo senso d’impossibilità rispetto alla legittimità stessa dell’errore commesso. Il risultato diviene simile a uno specchio distorto dove non riusciamo più a vedere noi stessi: si presenta invece una visione esagerata della disapprovazione pubblica.
Dalla prospettiva della psicologia comportamentale emerge chiaramente che quella che chiamiamo “gogna mediatica” costituisce un’espressione violenta e intensa del rinforzo negativo associato alle punizioni sociali. L’ostracismo, l’attacco verbale diffuso, la “cancellazione” dal tessuto sociale percepito come rilevante sono potenti deterrenti, ma quando applicati con tale intensità e pervasività, possono superare la capacità di coping dell’individuo, portando a risposte di fuga estreme. Il trauma causato da un’esposizione pubblica così violenta e improvvisa può attivare nel cervello, in particolare nell’amigdala che gestisce le risposte alla minaccia, reazioni di stress intensissime, in alcuni casi equiparabili a quelle di un trauma fisico. La sensazione di essere sotto attacco costante, senza vie di fuga dallo spazio digitale che pervade ogni aspetto della vita, può indurre uno stato di allarme permanente, prosciugando le risorse psicologiche e portando a una profonda disconnessione dal senso di sé e dalla realtà.
Consideriamo, inoltre, una nozione più avanzata legata alla salute mentale e al comportamento sociale: la teoria della gestione del terrore (Terror Management Theory). Questa prospettiva suggerisce che gran parte del comportamento umano è motivato da un timore latente della propria mortalità. Le culture e le visioni del mondo offrono un senso di significato e immortalità simbolica. Quando un individuo agisce in modo da violare le norme sociali o morali condivise, come è accaduto con il post di Addeo, può innescare in chi osserva una reazione di difesa che rafforza la propria visione del mondo e le proprie norme. La condanna feroce e la “cancellazione” dell’individuo “deviante” servono, in un certo senso, a riaffermare la “giustezza” del proprio sistema di valori e a rassicurare sulla stabilità dell’ordine sociale, riducendo l’ansia legata all’incertezza e al potenziale disordine rappresentato dall’errore altrui. L’estrema aggressività della reazione pubblica potrebbe, in questo senso, derivare anche da un bisogno collettivo inconscio di esorcizzare la possibilità dell’errore e la fragilità intrinseca alla condizione umana.
Questo episodio ci obbliga a riflettere non solo sulla responsabilità delle parole che pronunciamo o scriviamo, specialmente online, ma anche sulla nostra responsabilità come parte della collettività digitale. Il “linciaggio mediatico”, sebbene non armato di strumenti fisici, può infliggere ferite ben più profonde all’anima, in un’epoca in cui l’identità è così intrinsecamente legata alla percezione esterna, specialmente quella veicolata dalla rete. Abbiamo l’inquietante potere di diventare, anche involontariamente partecipi di una tempesta emotiva che può travolgere e annientare un individuo. Forse, riconoscere la complessità dell’errore umano, comprendere che dietro uno sbaglio può esserci una persona con la sua storia, le sue fragilità, e che la possibilità di pentimento e redenzione dovrebbe sempre esistere, è il primo passo per costruire uno spazio pubblico, anche quello virtuale, che sia meno spietato e più compassionevole. È una sfida complessa, fatta di consapevolezza individuale e di un impegno collettivo a moderare l’impulso alla condanna sommaria, ricordando che le parole, anche su uno schermo, possono salvare o distruggere.