Gaza: trauma e crisi nell’esercito israeliano, l’analisi dei dati

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  • Oltre 10.000 soldati israeliani mostrano segni di reazioni psicologiche negative.
  • 3.769 casi di PTSD già superati nell'esercito israeliano.
  • 100.000 soldati feriti o disabili previsti nei prossimi 2,5 anni.
  • 21 suicidi tra i militari israeliani nel corso di quest'anno.
  • Oltre 12.000 combattenti hanno interrotto la carriera nell'esercito.
  • Oltre 100.000 riservisti hanno smesso di presentarsi al servizio.

L’inizio delle operazioni militari a Gaza nell’ottobre 2023 ha avuto conseguenze gravose non soltanto per la popolazione civile palestinese, ma anche per la salute mentale dei soldati dell’esercito israeliano coinvolti nel conflitto. Secondo quanto riportato dal quotidiano ebraico Yedioth Ahronoth, più di 10.000 membri delle forze armate israeliane mostrano segni di reazioni psicologiche negative, inclusi sintomi legati al disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Attualmente il Ministero degli Affari Militari di Israele è impegnato a supportare questi soldati, con un numero ufficiale di casi di PTSD che ha già superato le 3.769 unità.

Ad aggravare ulteriormente il quadro si trova una previsione preoccupante: si stima infatti che nei prossimi due anni e mezzo il totale dei soldati feriti o disabili in Israele possa raggiungere i 100.000 individui; tra costoro, è previsto che almeno la metà presenterà problematiche legate alla sfera psicologica. Questa proiezione inquietante sottolinea l’urgenza vitale di adeguate risorse e supporti per affrontare la imminente crisi della salute mentale tra i militari coinvolti nel conflitto.

Aumento dei Suicidi e Dimissioni tra i Soldati

L’aumento allarmante delle problematiche psichiche, connesso alla guerra scoppiata a Gaza, sta producendo effetti devastanti anche sul personale militare israeliano: per esempio, solo nel mese di luglio l’esercito ha ufficialmente confermato la scomparsa prematura di 16 soldati coinvolti nelle operazioni belliche nell’area gazaense. Al contempo, diversi organi d’informazione israeliani stanno monitorando una crescita notevole dei tassi di suicidio fra le truppe sin dall’avvio delle ostilità. In particolare, Israel Hayom segnala ben 21 suicidi commessi dai propri membri militari nel corso del corrente anno; parallelamente, Haaretz documenta che ben 42 soldati hanno scelto questa tragica via dalla dichiarazione dell’inizio del conflitto.

In aggiunta a questi dati preoccupanti emerge una realtà ancor più grave: circa oltre 12.000 combattenti attivi e riservisti, travolti dalle difficoltà psicologiche generate dal contesto bellico attuale, hanno deciso – volontariamente o meno – di interrompere la propria carriera nell’esercito; questo accade spesso accompagnandosi a una totale incapacità o mancanza di volontà da parte loro di svolgere qualsiasi attività lavorativa al di fuori dell’ambito militare. Ciò rende evidenti gli effetti profondi e dolorosi che il conflitto esercita sulla loro abilità nei normali rapporti sociali quotidiani.

Cosa ne pensi?
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  • Ma ci si dimentica delle sofferenze della popolazione palestinese......
  • Interessante analisi! 🤔 Ma cosa ne pensano i soldati di leva......

Rifiuto del Servizio Militare e Obiezioni di Coscienza

La guerra a Gaza ha anche innescato un’ondata di rifiuto del servizio militare tra i riservisti israeliani. Sebbene i numeri esatti siano difficili da ottenere, si stima che oltre 100.000 riservisti abbiano smesso di presentarsi al servizio, con tassi di partecipazione che in alcune unità sono scesi al 50% o inferiori. Questo fenomeno è alimentato da una combinazione di fattori, tra cui la demoralizzazione, la stanchezza e la crescente consapevolezza delle implicazioni etiche del conflitto.

Alcuni riservisti si rifiutano per motivi ideologici, opponendosi alla guerra e alle sue conseguenze sulla popolazione palestinese. Altri, definiti “obiettori grigi”, sono semplicemente stanchi e disillusi dalla prolungata durata del conflitto. Tuttavia, tutti questi individui contribuiscono a mettere in discussione la legittimità della guerra e a esercitare pressione sul governo israeliano per trovare una soluzione pacifica.

Crisi di Fiducia e Disillusione

Le ripercussioni del conflitto a Gaza hanno profondamente intaccato la credibilità delle autorità politiche e militari in Israele. Un numero crescente di cittadini israeliani esprime sentimenti di sfruttamento ed abbandono da parte dello Stato, che non riesce né a proteggere i suoi abitanti né ad affrontare il drammatico problema degli ostaggi. La sensazione generale è quella che le priorità governative siano distorte, con gli interessi politici del governo sopra quelli vitali per il benessere collettivo. Questa erosione della fiducia è ulteriormente accentuata dal fenomeno dell’emigrazione: molti cercano passaporti stranieri come mezzo per trasferirsi in nazioni giudicate più sicure ed equilibrate. Tale tendenza mette in luce una crisi radicale all’interno del tessuto sociale israeliano, accompagnata dall’urgenza impellente per una revisione significativa delle strategie attuate dai vertici decisionali.

Salute Mentale sotto Assedio: Un Imperativo Etico e Sociale

Il contesto delineato presenta una realtà preoccupante riguardo alle ripercussioni sia sociologiche sia psicologiche derivanti dal conflitto israelo-palestinese. Osserviamo con attenzione l’incremento dei disturbi mentali nei militari coinvolti: episodi di suicidio, il crescente numero di rifiuti al servizio militare, nonché la perdita di fiducia nella leadership, rappresentano chiaramente sintomi evidenti dello stato d’assedio vissuto da questa popolazione. È essenziale affrontare con urgenza questa emergenza sanitaria mentale; ciò costituisce non soltanto una necessità morale ma anche sociale, capace di incanalare l’azione sia del governo israeliano che delle istituzioni internazionali assieme alla società civile tutta. È cruciale canalizzare investimenti verso risorse destinate a fornire sostegno ai membri delle forze armate e alle loro famiglie; così come si deve sostenere attivamente qualsiasi iniziativa finalizzata alla comunicazione e alla riconciliazione tra gli antagonisti nel conflitto affinché si possano intraprendere percorsi costruttivi verso una soluzione giusta in grado di assicurare dignità e sicurezza comune.
Ciò richiede pure una momentanea pausa: meditiamo insieme sulle nozioni fondamentali offerte dalla psicologia cognitiva – essa rivela chiaramente quanto ciascun nostro pensiero giochi un ruolo fondamentale nel modellamento delle emozioni o nelle azioni compiute. All’interno dell’ambito bellico emerge chiaramente come questo fenomeno divenga amplificato dagli eventi traumatici cui soggetti come questi combattenti devono far fronte quotidianamente; esperienze capaci perfino di insidiare radicalmente gli stessi paradigmi interpretativi dei singoli individui coinvolti. I traumi possono generare disturbi come il PTSD, caratterizzati da ricordi intrusivi, incubi ricorrenti, stati di ipervigilanza e una marcata difficoltà nella gestione delle emozioni.
Inoltre, esiste una dimensione ulteriore da considerare: secondo quanto afferma la psicologia comportamentale, le azioni degli individui risultano fortemente influenzate dalle loro conseguenze dirette. Un militare coinvolto in atti contrari ai propri principi etici – sebbene sotto pressione – tende ad avvertire sensazioni intense di colpa accompagnate da vergogna profonda. Ciò spesso sfocia in atteggiamenti evitanti o isolamento dalla comunità circostante; in situazioni estreme, questo percorso può culminare nel tragico gesto del suicidio.

Adottando una visione più ampia sul tema del trauma, ci si rende conto che esso trascende l’ambito dell’individuo fino ad abbracciare aspetti sociali e politici della collettività stessa. L’episodio bellico in Gaza rappresenta quindi non soltanto uno stravolgimento per i soldati effettivi, ma segna profondamente l’intera popolazione israeliana; il panorama segnato da violenza incessante, devastazione totale e ingenti perdite umane genera uno stato collettivo permeato dalla paura cronica oltreché dall’ira verso tutto ciò che avviene intorno. L’analisi richiede pertanto strategie integrate capaci di affrontarne tutti gli aspetti: siano essi personali oppure relativi all’impatto sociale o geopolitico del trauma stesso affinché possa essere affrontata con successo la complessità delle ripercussioni psichiche indotte dalla guerra.


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