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Trauma migratorio: ecco perché la salute mentale dei migranti è un’emergenza

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  • Oltre l'80% dei richiedenti asilo ha subito traumi prima della migrazione.
  • Il 31% dei migranti sbarcati a Lampedusa soffre di PTSD.
  • Il 60% ha subito traumi nel paese d'origine, l'89% durante la migrazione.

Nel vasto e complesso scenario dell’immigrazione in Italia, emerge con prepotenza la questione della salute mentale dei migranti, spesso segnata da esperienze traumatiche di inaudita violenza e sofferenza. L’atto stesso del migrare, specialmente quando forzato da guerre, persecuzioni o situazioni di estrema povertà, si configura come un percorso irto di pericoli, sia nel paese d’origine che durante il viaggio e persino dopo l’arrivo nella terra d’approdo. Queste esperienze possono lasciare cicatrici profonde e durature sulla psiche, manifestandosi in una gamma di disturbi che vanno dall’ansia alla depressione, fino al Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) e al più complesso Disturbo Post-Traumatico Complesso.

Numerosi studi condotti in Italia e a livello internazionale mettono in luce l’alta incidenza di queste patologie tra i migranti e i richiedenti asilo. Si stima che una percentuale significativa di richiedenti asilo, in alcune indagini anche superiore all’80%, abbia vissuto almeno un evento traumatico prima della migrazione [Fonte]. Le violenze subite, le torture, l’essere testimoni di morte o crudeltà, la detenzione e i rischi affrontati durante il viaggio via terra o via mare sono solo alcune delle esperienze che possono minare l’integrità psicofisica. Un’analisi su richiedenti asilo sbarcati a Lampedusa tra il 2014 e il 2015 ha mostrato come il PTSD e la depressione fossero tra le diagnosi più frequenti, con circa il 31% dei casi diagnosticati con PTSD e il 20% con depressione. Eventi traumatici sono stati riportati dal 60% dei soggetti nel paese d’origine e addirittura dall’89% durante la migrazione [Crepet et al., 2017].

Questi eventi non solo causano sofferenza acuta, ma possono avere ripercussioni a lungo termine, compromettendo la salute fisica e mentale complessiva. L’esposizione a traumi continuativi, come quelli spesso vissuti dai migranti forzati, può innescare meccanismi di difesa primitivi e dissociativi, portando alla frammentazione del sé e alla difficoltà nell’elaborare le esperienze vissute. Questa disintegrazione può manifestarsi con alterazioni dell’identità, problemi relazionali, sintomi cognitivi, disturbi della memoria (inclusi flashback che sono vere e proprie riviviscenze del trauma), disregolazione emotiva, difficoltà di concentrazione e del sonno. La cronicizzazione di tali sintomi accresce il rischio di sviluppare ulteriori patologie, come fobie specifiche, disturbi della condotta e un aumento dell’incidenza di malattie autoimmuni e infezioni croniche.

È fondamentale sottolineare che il trauma migratorio non si esaurisce con l’arrivo nel paese ospitante. Le problematiche derivanti dalla vita dopo l’immigrazione si manifestano attraverso diversi aspetti critici come la precarietà abitativa, il lavoro instabile o assente, il muro linguistico-culturale, l’isolamento sociale, oltre a forme diffuse di discriminazione. Questi elementi fungono da stressor aggiuntivi che possono esacerbare condizioni psichiche già fragili oppure dar vita a nuovi stati d’ansia o depressione. Si tratta quindi di questioni che trascendono l’ambiente immediato: esse toccano profondamente il potenziale umano per affrontare le difficoltà quotidiane ed integrarsi nel tessuto sociale locale; diventa perciò imperativo fornire un supporto psicologico non solo esperto ma soprattutto facilmente raggiungibile.

L’impatto negativo del trauma tende ad estendersi oltre gli individui colpiti direttamente dal fenomeno migratorio; esso ha ripercussioni sulle generazioni successive—figli e nipoti—che ne ereditano le conseguenze sul piano emotivo-mentale. Pertanto emerge con forza l’esigenza non limitata alla semplice accoglienza durante le emergenze; è fondamentale sviluppare piani solidi per un’assistenza sostenuta nel tempo capace di affrontare in modo compenetrato le intricatezze associate ai traumi migratori e alle diverse modalità in cui si presentano.

Le sfide dell’integrazione e gli ostacoli all’accesso alle cure

Nonostante la crescente consapevolezza dell’importanza del supporto psicologico per i migranti, l’accesso a cure adeguate in Italia si scontra con una serie di ostacoli complessi e radicati. Il sistema di accoglienza, pur avendo subito trasformazioni, presenta spesso criticità che si ripercuotono sulla possibilità di fornire un supporto efficace e tempestivo. La gestione del sistema di accoglienza è stata oggetto di dibattito e analisi, come evidenziato da diversi report nel corso degli anni.

Una delle barriere primarie è rappresentata dalla lingua. La comunicazione tra l’operatore sanitario o psicologo e il migrante è spesso resa difficile dalla mancanza di una lingua comune, rendendo indispensabile la presenza di mediatori linguistico-culturali qualificati. La mediazione non è solo un supporto linguistico, ma un ponte tra culture e mondi interiori differenti, fondamentale per comprendere le narrazioni del trauma e per costruire una relazione di fiducia.

Un altro ostacolo significativo è la comprensione delle procedure burocratiche e sanitarie. I migranti, spesso disorientati e provati dalle esperienze vissute, possono incontrare enormi difficoltà nel navigare il sistema sanitario italiano, dalle modalità di registrazione con un medico di base all’accesso a servizi specialistici [Nigrizia]. La condizione precaria dei permessi di soggiorno unita alle lunghe attese nelle procedure per richiedere protezione internazionale genera uno stato crescente di stress e incertezza; tale situazione incide pesantemente sul benessere psichico dei soggetti coinvolti, limitando la loro propensione a cercare assistenza.

Dal punto di vista culturale, le percezioni relative al benessere mentale così come le questioni afferenti alla salute psicologica mostrano significative divergenze. In particolari contesti culturali, il disagio psichico è spesso soggetto a stigma sociale; questo fenomeno viene interpretato come segnale di debolezza o manifestato attraverso sintomi fisici invece che tramite un’espressione verbale diretta. Tale quadro porta molti migranti a omettere i propri disturbi mentali; spesso ricorrono infatti a strategie personali per affrontare il trauma improntate sul silenzio o sull’oblio piuttosto che sulla condivisione attiva oppure sull’analisi terapeutica delle proprie esperienze. È fondamentale quindi che gli operatori sanitari insieme ai professionisti della salute mentale sviluppino una competenza transculturale, necessaria per cogliere ed onorare le variegate prospettive e approcci al coping presenti nei diversi gruppi culturali.

Inoltre occorre prendere in considerazione anche il livello formativo degli operatori stessi. Lavorare con persone che hanno vissuto traumi estremi richiede una formazione specifica e la capacità di gestire il rischio di traumatizzazione vicaria, ovvero il disagio emotivo e psicologico che può colpire chi è esposto ripetutamente alle storie di sofferenza altrui. È necessario dunque investire nella formazione di équipe multidisciplinari (psichiatri, psicologi, mediatori, assistenti sociali) che sappiano affrontare in modo integrato le complesse esigenze dei migranti.

Infine, la stessa struttura del sistema di accoglienza e la sua involuzione possono precarizzare ulteriormente la situazione dei migranti, rendendo più difficile l’accesso a servizi essenziali, inclusi quelli per la salute mentale. La mancanza di stabilità, alloggi dignitosi e opportunità lavorative mina alla base qualsiasi percorso di integrazione e recupero psicologico.

Negli ultimi anni, tuttavia, sono emerse iniziative volte a migliorare il benessere mentale di migranti e rifugiati in Italia. L’UNICEF ha implementato programmi pilota multisettoriali, e realtà come Medici Senza Frontiere e centri specializzati come il SAMIFO di Roma offrono supporto medico e psicologico, tentando di colmare le lacune del sistema [WHO, 2022]. Il SAMIFO si configura come un sistema d’azione multidimensionale, capace di fondere l’assistenza medica pubblica con i servizi provenienti dal settore privato sociale. Questa sinergia offre una risposta complessiva e articolata alle sfide multifaccettate presentate da una comunità fragile e bisognosa di attenzioni specifiche.

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Approcci terapeutici innovativi e l’importanza della protezione speciale

Nel contesto del fenomeno complesso del trauma migratorio è imperativo sviluppare strategie terapeutiche che siano adattabili e integrate in modo armonioso. È evidente che non vi è un singolo modello applicabile universalmente; ciascun soggetto possiede una propria narrazione personale intrisa di esperienze traumatiche diverse. Tra le tecniche maggiormente riconosciute nella cura dei traumi complessi emerge senza dubbio la Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET).

Questo metodo rappresenta un intervento breve focalizzato sulla creazione di racconti espliciti riguardanti gli episodi traumatici vissuti dal paziente. Mediante l’elaborazione sistematica della sua biografia attraverso tale narrazione strutturata, il soggetto ha l’opportunità non solo d’introspezione ma anche d’integrazione delle emozioni soffocate legate all’esperienza traumatica stessa; ciò consente una significativa diminuzione dei sintomi disfunzionali, oltre al ripristino del senso identitario perduto. Grazie a questa pratica innovativa risulta possibile ricompattare i diversi elementi frammentati della memoria traumatica – talvolta afflitta da confusione – permettendo così agli eventi vissuti d’essere adeguatamente collocati nei giusti riferimenti temporali ed eziologici. La ricostruzione della propria storia personale permette un rafforzamento dell’identità, accompagnato da un’accresciuta consapevolezza riguardo alle violazioni dei diritti umani sperimentate.

In questo contesto risulta cruciale che ogni intervento terapeutico venga inizialmente supportato da un periodo dedicato alla stabilizzazione. Tale periodo ha come obiettivo primario quello di attenuare i segni clinici più acuti presenti nel paziente, migliorando al contempo le sue abilità auto-regolatorie ed instaurando un legame fiduciario con lo specialista. Soltanto dopo aver creato le condizioni necessarie per stabilizzare il soggetto è possibile avviarsi verso l’elaborazione approfondita delle esperienze traumatiche passate senza incorrere nel rischio elevato di ulteriori traumi psicologici.

Il team coinvolto in questo processo deve caratterizzarsi per la sua multidisciplinarietà e interculturalità. È imperativo disporre della figura del mediatore linguistico-culturale affinché si possa realizzare un dialogo realmente produttivo ed affrontare le difficoltà derivanti non soltanto dalla lingua ma anche dalle diversità culturali che influiscono sull’interpretazione delle manifestazioni cliniche vissute dai pazienti. Inoltre, è essenziale fornire agli operatori gli strumenti formativi adeguati relativi alla salute mentale nei contesti migratori così come alla gestione degli esiti traumatici collegati ai peculiari modelli espressivi del disagio psicologico in diverse culture.

La necessità di un approccio olistico è evidenziata anche dalla correlazione tra trauma migratorio e altre problematiche, come le malattie fisiche (spesso non curate), la malnutrizione e lo stress cronico. Questi fattori contribuiscono a quello che è stato definito l’effetto “migrante esausto”, aumentando la suscettibilità a diverse patologie. Il supporto riabilitativo, esteso e integrato, è fondamentale per affrontare le conseguenze fisiche e psicologiche del trauma e per favorire un reinserimento sociale e lavorativo positivo.

Parallelamente, è cruciale riconoscere l’importanza della “protezione speciale” come strumento per garantire il diritto a un’esistenza dignitosa e tutelare la salute mentale dei migranti. Questa forma di protezione, prevista dalla legge italiana, si applica a coloro che, pur non rientrando pienamente nella definizione di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, rischierebbero persecuzioni, torture, trattamenti inumani o una violazione del diritto alla vita privata e familiare in caso di rimpatrio. Una corretta valutazione dei rischi, infatti, dovrebbe prendere in esame non soltanto le minacce immediate ma anche le ripercussioni a lungo termine degli eventi traumatici subiti sui profili psichici degli individui coinvolti, nonché sulla loro abilità d’integrazione sociale. Le manifestazioni psicologiche risultanti dalla violenza esercitata possono seriamente compromettere le opportunità per queste persone di edificare un’esistenza autonoma e gratificante nel contesto italiano.

In tal senso, risulta imprescindibile che le commissioni territoriali insieme ai tribunali analizzino attentamente il trauma subito dal richiedente al fine di comprendere quanto esso possa influenzare la narrativa fluida relativa agli avvenimenti subiti (aspetto cruciale nelle pratiche relative all’asilo), oltre alla sua complessiva propensione all’integrazione e all’autosufficienza. È essenziale riconoscere la vulnerabilità psichica come un fenomeno degno della necessaria tutela; ciò rappresenta una misura chiave per salvaguardare i diritti umani ed evitare future forme d’intollerabile sofferenza.

Verso un futuro di accoglienza consapevole e supporto mirato

Il percorso per un’integrazione autentica e un recupero psicologico efficace per i migranti è una sfida che richiede un impegno congiunto a diversi livelli: politico, istituzionale, sanitario e sociale. È necessario superare l’idea che l’accoglienza si limiti alla fornitura di beni di prima necessità e di un tetto sopra la testa, e abbracciare una visione più ampia che includa il supporto alla salute mentale come un elemento fondamentale del percorso di integrazione.

Investire in servizi di supporto psicologico accessibili e culturalmente competenti non è solo un imperativo etico, ma anche un beneficio per l’intera società. Un migrante che riesce a elaborare i propri traumi, a integrarsi socialmente e a trovare un posto nella comunità è una risorsa preziosa, capace di contribuire al benessere collettivo [State of Mind]. Tuttavia, trascurare il trattamento della sofferenza mentale può condurre all’isolamento, alla marginalizzazione e, in situazioni più critiche, a un peggioramento significativo della patologia stessa. Tale evenienza può dar luogo a esiti drammatici; eventi simili sono stati tristemente riportati dalla cronaca contemporanea.

L’integrazione tra enti sia pubblici sia privati costituisce una pratica esemplificativa da perseguire; ne è prova il caso del SAMIFO. Grazie a queste collaborazioni si rendono disponibili risorse diversificate unite alle competenze individuali di vari soggetti coinvolti nel processo sociale. Questo tipo di approccio si estende ben oltre il mero intervento medico specializzato, includendo anche dimensioni sociali, legali e interculturali legate al cammino migratorio degli individui. È cruciale tenere una documentazione dettagliata delle operazioni condotte dai suddetti centri per indirizzare strategicamente le politiche pubbliche ed effettuare una distribuzione ottimale delle risorse disponibili.

In aggiunta a ciò, è imperativo facilitare la crescita della consapevolezza nonché dell’istruzione dedicata agli operatori impegnati nell’assistenza ai migranti giornalmente. Dalle figure operanti nei centri d’accoglienza fino ai mediatori culturali – passando per i medici generici sino agli assistenti sociali – tutti questi professionisti devono possedere gli strumenti necessari per individuare tempestivamente segni di disagio psicologico; devono altresì essere capaci nel dirigere tali individui verso opportunità terapeutiche idonee. Formulare domande elementari accompagnate da una disponibilità al dialogo ed esprimere rispetto rappresentano azioni significative nell’edificazione della fiducia necessaria per stimolare le persone a cercare supporto.

In Italia, la ricerca scientifica riguardante il trauma causato dalla migrazione rimane purtroppo scarsamente sviluppata se confrontata con quella condotta in altri contesti nazionali; risulta pertanto essenziale incentivarne il progresso. Comprendere approfonditamente le vulnerabilità peculiari oltre ai meccanismi resilienziali dei migranti appare cruciale per ideare strategie d’intervento sempre più specifiche ed efficaci.

Ultimando questa riflessione, diventa imperativo avviare una discussione pubblica capace di abbattere pregiudizi infondati accompagnati da ansie irrazionali; ciò implica un riconoscimento della dignità insieme alle sofferenze sperimentate da quanti si trovano costretti a fuggire da realtà insostenibili. Un’accoglienza consapevole va ben oltre le mere dinamiche gestionali; essa comporta un processo intrinsecamente umano caratterizzato dall’empatia, dalla comprensione profonda dell’altro nonché dall’assunzione effettiva di impegni reali finalizzati a garantire il bene sociale degli individui desiderosi di integrare in Italia i propri percorsi esistenziali.

La mente come cantiere vivente: riflessioni sulla resilienza e la ricostruzione

Conclusa questa esplorazione sul trauma migratorio, possiamo espandere il nostro campo visivo per indagare più a fondo l’essenza della mente umana in relazione a esperienze estremamente significative. Secondo gli insegnamenti della psicologia cognitiva, si può vedere la mente come una rete complessa per l’elaborazione delle informazioni; essa ha il potere non solo d’apprendere ma anche d’immagazzinare conoscenze e d’adattarsi ai mutamenti circostanti. In tale contesto, il trauma rappresenta una forte perturbazione, che influisce negativamente sui processi cognitivi ordinari ed imprime segni indelebili nella nostra memoria. Qui si introduce uno dei principi chiave: la plasticità neuronale. Questo fenomeno affascinante consente al cervello di cambiare forma e strutturarsi diversamente in seguito alle varie esperienze vissute da ciascun individuo. Tale plasticità costituisce il fondamento della resilienza, intesa come quell’abilità che permette agli individui non solo d’affrontare le sfide ma anche d’emergere da esse con maggiore forza o quantomeno recuperando un certo grado d’equilibrio.

Dai principi della psicologia comportamentale ci arriva invece l’insegnamento secondo cui situazioni traumatiche possono influenzare fortemente le reazioni emotive così come quelle comportamentali degli individui; portando spesso alla manifestazione dei sentimenti quali paura intensa, evitamento costante e ipervigilanza nei confronti dell’ambiente circostante. Si tratta di risposte di sopravvivenza che, pur utili nel momento del pericolo, possono diventare disfunzionali in un contesto di sicurezza, intrappolando l’individuo in un ciclo di sofferenza. Eppure, è nel cuore della psicologia comportamentale e cognitiva, con approcci come la Terapia dell’Esposizione Narrativa di cui abbiamo discusso, che troviamo strumenti per “riprogrammare” queste risposte, per riconnettere il passato traumatico al presente in modo che non paralizzi il futuro. L’esposizione graduale e controllata alle memorie traumatiche, mediata dalla parola e dalla relazione terapeutica, permette di “spegnere” l’allarme costante e di integrare l’esperienza dolorosa in una storia di vita più ampia e coerente.

Pensiamo alla mente come a un cantiere sempre aperto. Il trauma è un evento distruttivo, un crollo che può lasciare macerie e fondamenti instabili. Ma come un cantiere, la mente ha in sé la capacità di ricostruire. Non si tratta di dimenticare, né di cancellare il dolore, ma di ricostruire sulle fondamenta danneggiate, erigendo nuove strutture di significato, nuove connessioni tra le parti frammentate del sé. È un processo lento e faticoso, che richiede cura, pazienza e il giusto supporto esterno. La presenza di operatori competenti, di mediatori interculturali, di un sistema di accoglienza umano e dignitoso, non è solo assistenza, è co-costruzione di un futuro possibile.

Consideriamo un concetto più avanzato dalla psicologia del trauma: la dissociazione strutturale della personalità. Questa teoria postula che, di fronte a traumi estremi e ripetuti, la personalità possa non svilupparsi in modo unitario, ma rimanere “strutturalmente dissociata” in diverse parti (come la “parte apparentemente normale” che cerca di vivere la vita quotidiana e le “parti emotive” che contengono le memorie traumatiche e gli affetti ad essi correlati). L’integrazione di queste parti diventa l’obiettivo principale della terapia. Non si tratta di un disturbo nel senso classico del termine, ma di un adattamento complesso a situazioni estreme. Riconoscere questo aspetto è cruciale per evitare misdiagnosi e per fornire un trattamento che miri alla riunificazione e all’integrazione del sé diviso dall’orrore.

Quindi, mentre osserviamo le storie dei migranti, con il loro carico di traumi e sofferenze, dovremmo anche riconoscere la loro immensa capacità di resilienza. Sono architetti involontari del proprio paesaggio interiore, chiamati a ricostruire ponti dove il trauma ha eretto muri, a ritrovare un centro di gravità dove il dolore ha disperso i frammenti. La nostra parte, come società, è quella di fornire gli strumenti, l’ambiente, la presenza umana e la consapevolezza necessaria perché questo cantiere interiore possa procedere, giorno dopo giorno, verso la costruzione di una nuova, seppur segnata, integrità. È un invito a guardare oltre la superficie, a cogliere la complessità della mente umana e a contribuire, per quanto possiamo, a far emergere quello che Italo Calvino, con la sua sottile lucidità, definiva il “non-inferno” in mezzo all’inferno che siamo chiamati ad abitare e, se possibile, a trasformare.

Glossario:
  • PTSD: Disturbo Post-Traumatico da Stress, una condizione psicologica che può svilupparsi dopo aver vissuto o assistito a un evento traumatico.
  • NET: si tratta della Terapia dell’Esposizione Narrativa, la quale funge da intervento terapeutico volto a supportare la rielaborazione dei traumi mediante la narrativa.
  • Competenza transculturale: rappresenta l’abilità di interpretare e onorare le varietà culturali, essenziale per affrontare le esigenze delle comunità migratorie.
  • Sindrome del migrante esausto: definita come una condizione psicologica connotata da una spossatezza persistente e da complessità nell’adattamento, frequentemente osservata nei migranti dopo aver intrapreso viaggi prolungati.

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