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Soldati israeliani: scopri come Gaza lascia cicatrici indelebili

- Almeno 1600 militari con PTSD, numero potenzialmente sottostimato.
- 76% del personale ha richiesto sostegno psicologico al rientro.
- 38 suicidi tra i militari israeliani dall'inizio della guerra.
- Più di 30.000 soldati hanno avuto accesso a supporto psicologico.
- Circa il 5,3% della popolazione (oltre 520.000 persone) soffrirà d'ansia.
Il territorio della Striscia di Gaza, crivellato da anni di conflitto incessante, continua a infondere cicatrici profonde non soltanto nella popolazione civile palestinese ma anche tra le fila delle forze armate israeliane coinvolte nelle azioni belliche. La difficoltà nel passare dalla brutalità del campo di battaglia – contrassegnata da quotidiane scene drammatiche e dolorose – alla serenità della vita quotidiana costituisce una prova complessa per numerosi soldati. L’interazione diretta con l’orrore della guerra incluso il lutto per la morte dei commilitoni e l’esposizione ai traumi ricorrenti – può comportare effetti infausti sulla loro salute psichica.
Dai sondaggi psicologici realizzati nell’ambito dell’esercito emerge che un notevole numero dei soldati tornati dalla Striscia accusa sintomi attribuibili al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), definito anche come nevrosi legata ai conflitti armati. Le stime indicano che siano almeno 1600 i militari ad aver sviluppato tale disturbo; cifra questa secondo diversi esperti potenzialmente sottovalutata. Infatti il 76% del personale impiegato in missioni attive ha richiesto sostegno psicologico durante il rientro dall’operatività sul campo. In relazione a questo argomento, risulta fondamentale osservare come il Ministero della Difesa abbia evidenziato che un terzo dei militari ritornati dalle operazioni di combattimento presenta difficoltà legate alla salute mentale. Inoltre, si assiste a una crescente richiesta di sostegno psicologico, specialmente in seguito a esperienze traumatiche. [La Stampa].
Nonostante la mancanza di statistiche ufficiali sui suicidi legati al conflitto in corso a Gaza, le autorità militari tendono a minimizzare il fenomeno, definendoli “incidenti isolati”. Tuttavia, i dati storici pre-7 ottobre 2023 rivelano una realtà più complessa, con 1277 suicidi tra i soldati tra il 1973 e il 2023. Questa cifra, già di per sé elevata, potrebbe essere considerevolmente maggiore. In particolare, i dati riportano 38 suicidi tra i militari israeliani dall’inizio della guerra a Gaza, evidenziando un trend preoccupante [Il Fatto Quotidiano].
Diverse testimonianze di reduci riportano storie drammatiche, come quella di Eliran Mizrahi, un riservista di 40 anni e padre di quattro figli, arruolato all’indomani degli attacchi del 7 ottobre. Dopo sei mesi di estenuante lotta contro il PTSD, si è tolto la vita al ricevimento di un nuovo ordine di richiamo. Sua madre ha dichiarato alla CNN che “Lui è uscito da Gaza, ma Gaza non è mai uscita da lui”, sottolineando il peso insopportabile del trauma.
Altri casi evidenziano reazioni diverse ma ugualmente significative al trauma. Guy Zaken, un pilota a cui era stato ordinato di colpire obiettivi con il bulldozer, è diventato vegetariano dopo il congedo, incapace di consumare carne dopo essere stato esposto quotidianamente a “carne morta di esseri umani”. C’è poi chi non riesce a reinserirsi nella società civile, perseguitato dai fantasmi della guerra e incapace di svolgere il proprio lavoro, precipitando nel disastro economico, come Avichai Levy, un veterano dell’IDF che ha accumulato debiti consistenti e si trova in una situazione di estrema difficoltà economica, lamentando la scarsa assistenza governativa. La paura di dover tornare a Gaza o di essere coinvolti nel conflitto libanese, attualmente contraddistinto da scontri violenti con formazioni militari ben addestrate come Hezbollah, amplifica notevolmente il senso di angoscia tra i reduci.
Strategie di coping e specificità culturali
L’affronto del trauma derivante dalla guerra, così come del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), comporta l’implementazione di strategie mirate al coping. Studi realizzati su militari israeliani hanno messo in luce un ventaglio eterogeneo di approcci utilizzati per far fronte allo stress e agli eventi traumatici vissuti. Si è evidenziato che più di 30.000 soldati hanno avuto accesso a supporto psicologico sin dall’inizio delle operazioni militari, evidenziando con chiarezza la dimensione della crisi psichica. [InsideOver].
Uno studio ha evidenziato come l’adozione di strategie rivolte alla risoluzione del problema siano associate a una maggiore capacità di far fronte al trauma. Tuttavia, l’adozione di strategie basate sulla soppressione delle emozioni, ampiamente diffuse in contesti traumatici, può avere effetti negativi a lungo termine.
Tipi di Strategie di Coping | Descrizione |
---|---|
Coping centrato sul problema | Strategie che mirano a risolvere direttamente il problema. |
Coping centrato sulle emozioni | Strategie che mirano a gestire le emozioni legate al problema. |
Coping orientato all’evitamento | Strategie che cercano di evitare la situazione stressante. |
La cultura israeliana ed ebraica, come descritto da alcuni esperti, si caratterizza per un forte desiderio di resilienza e di ritorno alla normalità anche di fronte a eventi estremamente traumatici. Vi è un’enfasi sull’individuazione, sul desiderio di continuare a vivere e partecipare pienamente alla vita sociale e culturale. Questa spinta alla resilienza, pur essendo un fattore protettivo, può talvolta rendere più difficile il riconoscimento e l’elaborazione del trauma. La tendenza a “voler vivere, andare al cinema, fare high tech” può in alcuni casi coincidere con la difficoltà di accettare la vulnerabilità e la necessità di un supporto psicologico profondo.
Il sistema sanitario israeliano ha cercato di adattarsi all’incremento della domanda di servizi per la salute mentale. In seguito agli eventi del 7 ottobre, il paese è stato diviso in aree di competenza per gli ospedali psichiatrici, garantendo una risposta rapida ed efficace. L’istituzione di ambulatori dedicati ai disturbi da stress post-traumatico, l’arruolamento di professionisti in pensione e l’adozione di tecnologie come la telemedicina testimoniano lo sforzo per raggiungere il maggior numero possibile di persone in difficoltà. L’esercito stesso dispone di un sistema interno per la cura del PTSD tra i soldati.
Nonostante questi sforzi, persistono delle sfide. La natura continua del conflitto e l’esposizione a nuove esperienze traumatiche rendono il percorso di guarigione complesso. La necessità di mantenere una routine, evitare l’eccessiva esposizione a notizie angoscianti e cercare supporto sono raccomandazioni fondamentali. La cultura del paese, con la sua forte identità e il desiderio di resistere, può influenzare sia positivamente che negativamente l’accesso alle cure e la percezione del trauma.
- È confortante vedere che si riconoscono le difficoltà dei soldati......
- È inaccettabile che si minimizzi il trauma dei soldati israeliani......
- Invece di concentrarsi solo sui soldati israeliani, dovremmo considerare......
Le diverse facce del trauma in Israele
Il trauma associato al conflitto si estende ben oltre i soli soldati coinvolti nelle operazioni belliche. L’attacco avvenuto il 7 ottobre ha avuto risonanze traumatiche diffuse tra tutta la popolazione israeliana. Ricerche iniziali suggeriscono che una parte rilevante dei cittadini potrà manifestare disturbi d’ansia, collegati allo stress post-traumatico; secondo quanto riportato dalla rivista medica medRxiv, è previsto che circa il 5,3%, corrispondente a più di 520.000 persone, ne sarà afflitta. Tale stima sottolinea l’ampiezza dell’emergenza sociale e richiama all’urgenza di un intervento sistematico nel campo della salute mentale.
I racconti degli ostaggi accompagnati dalle storie delle vittime di violenze sessuali… connesse agli assalti costituiscono una parte estremamente complessa da gestire nella crisi attuale; nell’affrontare tali situazioni critiche viene prioritariamente considerata la tutela delle vittime stesse affinché siano preservate dalla spietatezza dell’opinione pubblica o dall’assillo mediatico incessante; in tal modo i percorsi psicologici forniti sono diretti ed estremamente personalizzati sui bisogni individuali.
In aggiunta, va enfatizzato come il disagio emotivo non resti mai confinato in uno stato immutabile: perpetuandosi sotto forma di una condizione accentuata dal lungo perdurare del conflitto stesso – fatto dai continui bombardamenti con razzi in volo,… tragiche perdite fra i soldati, tra cui gli ostaggi – rendendo difficile il ritorno sereno alle abitazioni da parte delle famiglie coinvolte nel dramma collettivo. Malgrado le avversità, gli abitanti cercano ostinatamente di mantenere un’apparente normalità, proseguendo nelle loro consuete attività quotidiane. Questo sforzo volto a preservare una certa routine rappresenta non solo un impulso istintivo ma anche una sorta di meccanismo protettivo che si associa inevitabilmente a una prevalente tristezza collettiva.
In Israele, le complessità legate alla ricerca sulla salute mentale risultano numerose e variegate nell’ambito del suo peculiare contesto socio-politico e culturale. La priorità rimane quella di assicurare che il maggior numero possibile di individui possa accedere alle cure necessarie; ciò viene facilitato dall’integrazione delle nuove tecnologie, quali la telemedicina, nei servizi sanitari utili ad assistere i pazienti dislocati su tutto il territorio nazionale. Si pone altresì grande enfasi sul benessere psicologico dei minori; da qui l’iniziativa dell’istituzione degli asili nido e delle scuole nelle immediate vicinanze degli ospedali allo scopo di unire esigenze educative e assistenziali durante i percorsi terapeutici. È indubbio che investire nella salute mentale delle prossime generazioni risulti essenziale affinché possano ereditare un domani migliore.
Il vissuto della seconda generazione degli sopravvissuti alla Shoah offre importanti prospettive da considerare nel processo d’affrontamento del trauma collettivo subito nel passato. L’analisi delle pratiche di adattamento adottate dai genitori che hanno affrontato circostanze straordinarie rivela insegnamenti significativi per le generazioni contemporanee. Inoltre, è fondamentale sottolineare come le interazioni tra i più giovani e l’assistenza reciproca siano fattori essenziali nella costruzione della resilienza.
Riflessioni sulla guerra, il trauma e la resilienza
La guerra, per sua stessa natura, trasforma gli individui in strumenti di violenza, spesso costringendoli a compiere azioni che vanno contro le loro inibizioni morali. Questo processo di disumanizzazione, pur essendo necessario ai fini bellici, lascia cicatrici profonde nella psiche di chi ne è protagonista. Il trauma di guerra non si esaurisce con la fine dei combattimenti, ma persiste nella vita civile, manifestandosi in disturbi come il PTSD. Il numero elevato di soldati israeliani che necessitano di assistenza psicologica o che, nei casi più estremi, ricorrono al suicidio, testimonia la portata del danno psicologico inflitto dalla partecipazione al conflitto. Queste cifre, sebbene incomplete, suggeriscono che la “mattanza dei palestinesi”, come è stata definita da alcuni, ha un costo altissimo anche per coloro che l’hanno perpetrata.
Esistono in Israele movimenti di resistenza alla logica militarista, come i “refusenik”, giovani obiettori di coscienza disposti ad affrontare la detenzione militare piuttosto che partecipare all’occupazione e alla guerra. L’organizzazione Breaking the Silence, composta da ex militari, rompe il silenzio sulle atrocità commesse per evidenziare la realtà dell’occupazione. Queste forme di dissenso rappresentano un segno di “salute mentale”, un rifiuto di conformarsi alla follia della guerra.
La storia dimostra come la partecipazione a conflitti militari possa avere conseguenze durature sulla vita civile. Negli Stati Uniti, un numero significativo di veterani di guerra si trova ad affrontare difficoltà psicologiche, con tassi elevati di suicidio e coinvolgimento in attività criminali. Questo suggerisce un legame tra l’esposizione alla violenza bellica e la successiva manifestazione di comportamenti disfunzionali.
In un conflitto come quello israelo-palestinese, il trauma è un’esperienza condivisa, sebbene vissuta in modi radicalmente diversi. Se da un lato i soldati israeliani affrontano il trauma derivante dall’agire in un teatro di guerra brutalizzante, dall’altro la popolazione palestinese vive un trauma cronico legato all’occupazione, alla violenza quotidiana e alla perdita costante. Riconoscere l’unicità delle esperienze traumatiche è essenziale, nonostante appartengano a una medesima tragedia collettiva. Analogamente ai soldati in zone conflittuali, anche nei territori palestinesi si evidenziano condizioni drammatiche: particolarmente preoccupante è la situazione dei bambini nella Striscia di Gaza, dove numerosi individui mostrano severi disturbi da trauma psicologico; le statistiche rivelano percentuali inquietanti riguardo ai giovani bisognosi di aiuto professionale.
Gli insegnamenti della psicologia cognitiva chiariscono che esperienze traumatiche possono influenzare significativamente le modalità con cui pensiamo e percepiamo il nostro intorno. Per quanto concerne i militari coinvolti in scenari bellici prolungati e intensificati dall’uso della violenza quotidiana, emerge frequentemente uno stato d’ipervigilanza costante; questo porta inoltre alla manifestazione delle cosiddette distorsioni cognitive, attraverso le quali essi considerano ogni ambiente esterno quale fonte potenziale d’inquietudine e insicurezza ben oltre lo scenario diretto del conflitto armato. Si osserva infine come molte strategie adottate per affrontare tali situazioni emotive si fondino su meccanismi difensivi caratterizzati dalla negazione o dal rifiuto dell’esperienza affettiva stessa; ciò è comunemente discusso nelle prospettive comportamentali riguardanti tentativi spesso inefficaci nella gestione del disagio psichico profondo. Le strategie adottate nel breve termine possono fornire un sollievo momentaneo dall’angoscia; tuttavia esse ostacolano una vera elaborazione del trauma profondo, rischiando di conservare i sintomi legati al PTSD.
Indagare sulle esperienze dei soldati israeliani con il PTSD, insieme alle peculiarità culturali che plasmano l’approccio verso questo tipo di trauma, offre spunti importanti sulla nostra responsabilità collettiva. Il conflitto bellico rivela in modo devastante i suoi effetti sui combattenti così come sulle vittime innocenti: una verità illustrata magistralmente da Erasmo da Rotterdam. Gli orrori della guerra penetrano nelle menti delle persone coinvolte in prima persona, creando uno scollamento dalla loro vita quotidiana difficile da superare. Questo ci invita ad esplorare strade alternative basate sulla pace per risolvere contrasti futuri; promuovere discussioni costruttive e sforzi collaborativi tra nazioni diventa imprescindibile. In tal modo sarà possibile anche dare supporto ai pacifisti convinti disposti ad opporsi al ricorso alle armi: essenziale per allentare lo strascico umano generato dai conflitti sia sul piano materiale sia su quello emotivo.
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