Soldati israeliani: l’onda silenziosa del PTSD minaccia 100.000 vite

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  • Dal 2023, 10.000 combattenti israeliani affrontano gravi disturbi da stress post-traumatico (PTSD).
  • Circa 66% dei 12.000 soldati in riabilitazione sono riservisti.
  • Nel 2024, si sono registrati ben 21 suicidi tra le forze armate.

L’ondata silente del PTSD tra i soldati israeliani: una riflessione sui rischi e sulle fragilità mentali

Una questione cruciale riguarda il fenomeno del PTSD, diffuso fra i membri delle forze armate israeliane. Tale condizione si manifesta come un’onda impercettibile, colpendo non solo il benessere individuale ma estendendosi a ripercussioni nella società. Una scrupolosa investigazione sui diversi fattori a rischio, coinvolti nello sviluppo della malattia, è quindi d’obbligo. Si impone una valutazione seria delle fragilità cognitive, poiché queste rappresentano indicatori significativi nella reazione ai traumi affrontati dai soldati. A partire dall’ottobre 2023 è scoppiata una guerra in Gaza che ha portato all’emergere di una grave crisi sanitaria mentale tra le Forze di Difesa Israeliane (IDF). Un numero sempre crescente di soldati manifesta gravi disturbi da stress post-traumatico (PTSD) insieme ad altre condizioni psichiatriche acute. Secondo gli ultimi report pubblicati nel luglio 2025, oltre 10.000 combattenti israeliani si trovano attualmente ad affrontare queste problematiche mentali; inoltre si calcola che circa 100.000 individui, esposti per lungo tempo agli orrori del conflitto e ai tragici eventi vissuti sul terreno operativo, rischino anch’essi lo sviluppo del PTSD. Questo stato d’emergenza non fa altro se non mettere in luce il drammatico prezzo umano della guerra e suscita domande fondamentali riguardo ai determinanti specifici per cui questi militari risultano particolarmente vulnerabili alle malattie mentali, così come alla sufficienza delle strategie terapeutiche adottate fino a oggi.

L’origine del PTSD nei membri delle forze armate può essere considerata sotto diversi aspetti poiché presenta un quadro eziologico variegato; tuttavia i dati raccolti nel contesto israeliano consentono l’individuazione di alcuni fattori chiave determinanti per questa condizione patologica. Fra le variabili più critiche emerge indubbiamente l’intensità insieme alla durata dell’esposizione al trauma, entrambe fondamentali nell’equazione dello sviluppo dei disturbi post-traumatici. I soldati impegnati in operazioni prolungate, come quelle a Gaza, sono sottoposti a un livello di stress e di witnessing di eventi violenti che supera la capacità di elaborazione psicologica, portando a reazioni mentali acute e, in molti casi, croniche. Il conflitto attuale, caratterizzato da situazioni estreme e spesso da violenze di natura “genocida” come descritto da alcune fonti, amplifica il carico traumatico, esponendo i militari a scene che vanno oltre la normale comprensione umana. Questo è particolarmente evidente nei resoconti di soldati che hanno dichiarato di aver assistito a “orrori che il mondo non potrà mai comprendere veramente”, suggerendo un impatto destabilizzante sulla psiche individuale.

Un altro fattore cruciale è la natura ripetitiva e cumulativa del trauma. Alcuni soldati, pari ad almeno 1.500 unità, sono stati feriti due volte durante la guerra, tornando in servizio dopo una prima riabilitazione e subendo ulteriori traumi. Questa reiterazione delle esperienze critiche impedisce una piena elaborazione e recupero, aumentando la probabilità di sintomi di PTSD e di altre comorbilità psichiatriche. Inoltre, l’attuale contesto di combattimento, sebbene possa offrire una forma di “immunità psicologica” data l’adrenalina e la focalizzazione sull’obiettivo, si trasforma in un fattore di rischio al ritorno alla vita civile. È in quel momento che i ricordi traumatici riemergono con forza, scatenando crisi psicologiche ritardate e intensificando la sintomatologia.

A livello cognitivo, i soldati israeliani affrontano vulnerabilità specifiche che possono predisporre al PTSD. Le credenze disfunzionali, come un profondo senso di colpa (“avrei potuto fare di più”, “non sono stato abbastanza forte”) o di impotenza di fronte agli eventi incontrollabili, possono essere amplificate dalle esperienze di guerra. Questi schemi cognitivi negativi si manifestano spesso attraverso sintomi quali l’ipervigilanza, una costante sensazione di minaccia che impedisce il rilassamento, o la ruminazione, un pensiero ripetitivo e ossessivo sugli eventi traumatici. Tali processi mentali, invece di promuovere l’elaborazione del trauma, lo cristallizzano, mantenendo il soldato in uno stato di allerta costante e di sofferenza emotiva.

Il fenomeno del PTSD non si limita ai soldati in servizio attivo, ma coinvolge anche i riservisti. Circa il 66% dei 12.000 soldati in riabilitazione sono riservisti, indicando che anche coloro che vengono richiamati per periodi limitati sono suscettibili a sviluppare traumi psicologici significativi. Questa implicazione è particolarmente importante per Israele, data la sua forte dipendenza da un esercito di leva e di riserva. Infine, la mancanza di fiducia nel governo, come riportato da un medico anonimo alla CNN, può minare la volontà dei soldati di cercare aiuto e di affrontare apertamente le proprie vulnerabilità, creando una barriera aggiuntiva al recupero e alla riabilitazione efficace.

Statistiche Recenti sul PTSD tra Soldati Israeliani: Più di 1.100 soldati dell’IDF sono stati dimessi dal servizio per PTSD, con una percentuale crescente di soldati in cerca di assistenza psicologica. Le cliniche Ta’atzumot sono state create per il trattamento di soldati esposti a traumi durante il combattimento.

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Le conseguenze devastanti del trauma: suicidi, disabilità e isolamento sociale

Le ripercussioni sul piano psicologico scaturite dal conflitto si traducono in una miriade di conseguenze nefaste che superano ampiamente le nozioni standard riguardanti il PTSD. Tali effetti incidono gravemente sia sulla condizione esistenziale dei soldati sia sull’intero contesto sociale israeliano. Tra i dati più allarmanti su questo fenomeno emergente c’è senz’altro l’aumento sostanziale dei tassi di suicidio fra i membri delle forze armate. Stampa nazionale come Israel Hayom ed Haaretz hanno evidenziato un aumento allarmante degli atti autolesionistici: nel corso del solo anno 2024 si sono registrati ben 21 suicidi; addirittura nei mesi compresi dall’inizio dell’offensiva su Gaza avvenuta il 7 ottobre del 2023 fino al giorno 11 maggio, ci sono stati almeno 42 eventi fatali. Nel mese successivo alla metà del 2025, altre informazioni giunte dall’esercito parlano tristemente dell’avvenuto suicidio con cadenza ravvicinata nei primi dieci giorni dello stesso mese da parte di tre soldati — inclusi uomini appartenenti alle brigate Nahal e Golani recentemente tornati dalla striscia.

Questa realtà angosciante testimonia non soltanto l’intensità del dolore vissuto dalle singole persone coinvolte, ma rivela anche le gravi lacune nella capacità delle autorità militari nell’affrontare efficacemente gli aftershocks psicologici correlati al trauma bellico. Prendiamo ad esempio la tragica storia di Eliran Mizrahi; un riservista sui quarant’anni che ha deciso tragicamente di interrompere la propria esistenza dopo aver partecipato ai combattimenti a Gaza — tale vicenda è emblematica delle problematiche suscitate intorno alla protezione della salute mentale per chi ha servito nelle file militari. Allo stesso modo, il caso di Itzik Saidian, un veterano di 26 anni a cui è stato diagnosticato il PTSD dopo l’offensiva militare del 2014 e che ha tentato il suicidio, sottolinea come le ferite psicologiche della guerra possano manifestarsi anche a distanza di anni.

Oltre ai suicidi, un’altra conseguenza tangibile del conflitto è la crescente necessità di riabilitazione per un numero elevatissimo di soldati. Il Dipartimento di Riabilitazione del ministero della Difesa israeliano ha accolto almeno 12.000 soldati dall’inizio della guerra a ottobre 2023, con circa il 43% di loro affetto da PTSD. Le previsioni per il 2030 indicano che almeno 100.000 soldati verranno riabilitati, di cui non meno della metà richiederà trattamenti specifici per il PTSD.

Anno Soldati riabilitati Percentuale con PTSD
2023 12.000 43%
2030 (stima) 100.000 50%

Questo dato è supportato dalle stime del Ministero degli Affari Militari, che prevede entro due anni e mezzo circa 100.000 soldati feriti e disabili, con almeno la metà che soffrirà di disturbi psicologici. Questi numeri sono destinati ad aumentare ulteriormente nel 2025 e negli anni successivi, in particolare dopo un eventuale cessate il fuoco o la fine delle operazioni militari, quando le “crisi psicologiche ritardate” tenderanno a riaffiorare con maggiore intensità.

Le disabilità fisiche e le lesioni gravi si accompagnano spesso ai traumi psicologici, creando un quadro clinico estremamente complesso. Tra i 12.000 soldati in riabilitazione, il 14% ha subito lesioni da moderate a gravi, inclusi 23 casi di trauma cranico severo, 60 amputazioni e 12 soldati che hanno perso permanentemente la vista. Tali menomazioni fisiche non solo impongono sfide pratiche e assistenziali immense, ma possono esacerbare il disagio psicologico, generando un senso di perdita e disorientamento che rende ancora più arduo il percorso terapeutico e di reinserimento sociale. Molti di questi soldati, circa 12.000, hanno abbandonato il servizio attivo e di riserva a causa dell’impatto psicologico del conflitto, interrompendo anche la loro vita professionale e sociale, evidenziando il profondo isolamento e la rottura con la normalità che il trauma comporta.

Strategie terapeutiche e le sfide di un sistema al limite

In risposta all’aumento preoccupante dei disturbi mentali tra le forze armate israeliane, si rende imperativo che il sistema sanitario militare adotti misure terapeutiche efficaci per far fronte a un numero sempre maggiore di soldati in cerca d’aiuto. Le prove scientifiche consolidate, insieme alle migliori pratiche cliniche, suggeriscono con vigore l’impigo della terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), unitamente alla terapia cognitivo-comportamentale (CBT), con una particolare enfasi sulla variante focalizzata sul trauma (TF-CBT) come modalità privilegiata nel trattamento del PTSD. Queste due metodologie sono mirate a intervenire sui meccanismi cognitivi e comportamentali disfunzionali che perpetuano i sintomi derivanti da traumi subiti, fornendo agli individui coinvolti risorse valide per affrontare un passato doloroso ed eventuale recupero psico-emotivo.

Ad esempio, l’EMDR centra la sua attenzione sulla riduzione della sensibilità emotiva legata ai ricordi traumatici tramite tecniche basate su movimenti oculari sistematicamente guidati. Tali approcci abilitano i soldati a confrontarsi nuovamente con esperienze traumatiche all’interno di un contesto protetto: questo processo offre lo spazio necessario affinché avvenga una rielaborazione più sana delle stesse memorie traumatizzanti. Molti studi, inclusi meta-analisi, hanno dimostrato l’efficacia dell’EMDR nel ridurre i sintomi del PTSD in diverse popolazioni, inclusi i veterani di guerra. Allo stesso modo, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma (TF-CBT) si propone di intervenire sulle credenze disfunzionali e sugli schemi cognitivi negativi, come il senso di colpa, l’ipervigilanza o la ruminazione. Attraverso tecniche specifiche, come l’esposizione graduale e la ristrutturazione cognitiva, i soldati imparano a identificare e modificare i pensieri distorti legati al trauma, sviluppando strategie di coping più adattive per gestire le emozioni difficili e gli stimoli intrusivi.

Sfide nel trattamento del PTSD: Il numero di soldati a rischio è sproporzionatamente più elevato rispetto a quelli in trattamento. Nel 2025, solo 3.769 soldati sono stati ufficialmente riconosciuti come affetti da PTSD, mentre si stima che ben 100.000 siano in pericolo.

Tuttavia, l’implementazione di queste terapie su larga scala presenta sfide notevoli. Il rapporto di Yedioth Ahronoth, pubblicato a luglio 2025, ha rivelato che il ministero degli Affari militari israeliano sta attivamente curando i soldati con problematiche mentali, con almeno 3.769 soldati ufficialmente riconosciuti come affetti da PTSD in fase di trattamento. Tuttavia, il numero complessivo di soldati a rischio è sproporzionatamente più elevato, raggiungendo le 100.000 unità. Questo squilibrio tra la domanda di cure e la capacità del sistema di fornirle evidenzia una possibile carenza di risorse, personale specializzato e infrastrutture adeguate.

In questo contesto, emergono anche approcci terapeutici sperimentali, come quelli che coinvolgono l’uso di MDMA, sebbene questi siano ancora in fase di ricerca avanzata e suscitino dibattiti etici e pratici. Si è osservato, inoltre, che la salute mentale in Israele è messa a dura prova, con circa 6.400 militari che hanno ricevuto cure psichiatriche dal 7 ottobre 2023, di cui il 21% soffre di PTSD o lesioni correlate. Un dato preoccupante è l’aumento di oltre mille nuovi soldati che ogni mese vengono allontanati dal combattimento per essere curati, con il 35% che lamenta il proprio stato mentale e il 27% che sperimenta una “reazione mentale o un disturbo da stress post-traumatico”. Queste cifre attestano la pressione inaudita sul Dipartimento di Riabilitazione dell’IDF e la necessità di un rafforzamento urgente delle capacità di intervento.

La crisi della salute mentale tra i soldati israeliani, aggravata dall’assenza di dati ufficiali sui suicidi da parte delle IOF, i quali affermano che il tasso è “stabile”, mentre i media israeliani riportano un aumento significativo, è un fenomeno che richiede una risposta integrata e multidisciplinare che vada oltre la mera cura dei sintomi. È fondamentale affrontare anche i fattori sistemici che impediscono il pieno recupero, come la già citata mancanza di fiducia nel governo e la possibile stigmatizzazione associata ai problemi mentali nel contesto militare. La prevenzione del trauma e la promozione della resilienza psicologica dovrebbero essere considerate priorità assolute, insieme all’accesso a percorsi terapeutici tempestivi e personalizzati per garantire che tutti i soldati possano ricevere il supporto necessario per affrontare le ferite invisibili della guerra.

Comprendere e supportare il percorso di recupero: una prospettiva psicologica

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), come si evince dalla drammatica realtà dei soldati israeliani, non è semplicemente una reazione emotiva intensa a un evento spaventoso. Dal punto di vista della psicologia cognitiva, è una complessa alterazione dei processi mentali attraverso cui l’individuo elabora e ricorda gli eventi traumatici. Fondamentalmente, il cervello “fatica” a integrare il ricordo dell’evento stressante nella propria narrazione di vita, mantenendolo attivo e intrusivo, come se il pericolo fosse ancora presente. Questo si traduce in flashback, incubi e una costante sensazione di allarme, che possono essere compresi come difetti nella consolidazione e nel recupero della memoria, accompagnati da una disfunzione nel sistema di regolazione delle emozioni. Le reazioni di evitamento, tipiche del PTSD, non sono altro che tentativi (spesso inefficaci) di sfuggire a questi ricordi e sensazioni spiacevoli, acuendo l’isolamento e la sofferenza.

Approfondendo la nostra comprensione, possiamo notare come, oltre a queste dinamiche di base, giocano un ruolo cruciale le credenze disfunzionali e gli schemi cognitivi negativi che si formano o si rafforzano dopo un trauma. Un soldato potrebbe sviluppare la convinzione di essere “difettoso” o “debole” per aver reagito in un certo modo, o che il mondo sia un luogo intrinsecamente pericoloso e imprevedibile. Questi schemi, spesso inconsci, agiscono come una lente attraverso cui la persona interpreta ogni nuova esperienza, mantenendo viva l’ipervigilanza e la ruminazione. In questo contesto, la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) e, in particolare, la Terapia Cognitivo-Comportamentale focalizzata sul Trauma (TF-CBT), insieme all’EMDR, offrono strumenti per “riscrivere” queste narrazioni interne. Non si tratta di cancellare il ricordo, ma di aiutarlo a essere integrato in modo meno doloroso e più funzionale, modificando le credenze negative e insegnando abilità di gestione emotiva. L’obiettivo è ripristinare un senso di controllo e sicurezza, permettendo al soldato di riappropriarsi della propria vita.

Glossario:
  • PTSD: Disturbo da Stress Post-Traumatico, una condizione mentale che può svilupparsi dopo aver vissuto un evento traumatico.
  • IDF: Forze di Difesa Israeliane, l’esercito nazionale di Israele.
  • CBT: Terapia Cognitivo-Comportamentale, un approccio psicoterapeutico utilizzato per trattare i disturbi emotivi.

La situazione dei soldati israeliani ci stimola a riflettere su come la guerra, oltre ai danni fisici, lasci cicatrici invisibili e un’eredità psicologica profonda. Comprendere il PTSD non è solo una questione diagnostica, ma un atto di empatia che riconosce la complessità della sofferenza umana. Per chi si trova ad affrontare queste sfide, il percorso di recupero può essere lungo e tortuoso, ma non è impossibile. È essenziale che la società, le istituzioni e le famiglie offrano un supporto incondizionato, incoraggiando la ricerca di aiuto professionale e creando un ambiente in cui la vulnerabilità sia accettata e non stigmatizzata. Solo così potremo contribuire a sanare le ferite e a restituire dignità e benessere a coloro che hanno sacrificato tanto.


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