Ptsd nei militari italiani: la verità dietro le statistiche ufficiali

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  • La "sindrome del vietnam" ha colpito centinaia di migliaia di reduci.
  • Solo 32 casi di ptsd documentati in Italia tra 2007 e 2012.
  • Tra il 10% e il 30% dei veterani sviluppa ptsd dopo missioni in zone conflittuali.

I traumi
invisibili del servizio militare: una realtà complessa e sottovalutata

Il servizio militare, con la sua intrinseca esposizione a situazioni estreme e potenzialmente mortali, rappresenta un terreno
fertile per lo sviluppo di disturbi psicologici complessi, tra cui spicca il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Questa
patologia, ben nota per la sua incidenza tra i veterani di guerra, manifesta i suoi effetti devastanti non immediatamente,
ma spesso a distanza di tempo dagli eventi scatenanti, rendendo la diagnosi precoce e il trattamento tempestivo cruciali e,
al contempo, difficoltosi. La “sindrome del Vietnam”, emersa negli Stati Uniti a seguito del conflitto, è stata una delle
prime manifestazioni su larga scala della pervasività del PTSD tra i militari, interessando centinaia di migliaia di reduci.
Anche a distanza di decenni, come dimostrato dalla persistenza del disturbo tra i veterani del Vietnam, la resilienza di
questa condizione psicologica impone
una riflessione profonda e sollecita la ricerca di
interventi sempre più efficaci per
gli ex soldati impegnati nei teatri operativi contemporanei, come l’Iraq e l’Afghanistan.
Il contesto militare, infatti,
aggiunge ulteriori livelli di complessità alla gestione del trauma. Oltre alla minaccia diretta
all’integrità fisica, i militari
possono essere esposti a dilemmi etici, al senso di colpa del sopravvissuto e alla difficoltà di reinserirsi nella vita civile.
Questi fattori contribuiscono a rendere il quadro clinico del PTSD nei veterani particolarmente articolato, richiedendo
approcci terapeutici mirati e una profonda comprensione delle specificità del contesto in cui si è verificato il trauma.
Nonostante la crescente consapevolezza a livello internazionale, la sensibilità nei confronti del PTSD e delle altre
patologie mentali correlate al servizio militare non è uniformemente diffusa. L’Italia, ad esempio, pur avendo partecipato
a numerose missioni internazionali, ha mostrato per molto tempo una minore attenzione rispetto ad altri paesi
nell’affrontare apertamente e in modo strutturato il problema, come evidenziato da discussioni e proposte volte a
riconoscere formalmente la figura del “veterano” e a istituire servizi di supporto dedicati. Il rallentamento nel riconoscere
e affrontare la questione ha comportato conseguenze rilevanti. Le statistiche governative italiane riguardanti il PTSD nei
militari hanno storicamente mostrato cifre apparentemente modeste se confrontate con quelle di altri eserciti europei o
statunitensi; ad esempio, solo 32 casi sono stati documentati fra il 2007 e il 2012 secondo i report del governo risalenti al
2013. Questa significativa discrepanza solleva importanti domande circa l’effettiva efficienza nelle pratiche di
rilevamento e diagnosi.
Ricerche più recenti evidenziano che una percentuale compresa tra il 10% e il 30% dei veterani
provenienti da zone conflittuali sviluppa disturbo post-traumatico da stress (PTSD), cifra chiaramente molto superiore
rispetto alle stime ufficialmente riconosciute in Italia.[1] Ricerche autonome effettuate su gruppi di
militari italiani appena rientrati da missioni internazionali hanno messo in luce una prevalenza del PTSD notevolmente
elevata
, rivelando così la presenza di una problematica latente. Questa è connessa, fra le altre cose, alla riluttanza dei
soldati nel comunicare i propri disagi psicologici a causa della paura che ciò possa compromettere le loro carriere o la loro
idoneità all’esercizio del servizio armato. La persistenza di questa barriera culturale, insieme alla sensazione diffusa di un
eventuale giudizio sfavorevole da parte dei superiori, si configura come un importante impedimento alla richiesta
d’assistenza. Tali dinamiche continuano a rinforzare il silenzio che avvolge i traumi invisibili vissuti dai militari.

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La sfida della diagnosi e le peculiarità dei traumi nel contesto militare

Il riconoscimento del disturbo da stress post-traumatico si fonda su criteri clinici definitivi, i quali prendono in
considerazione diversi fattori: l’esposizione a eventi traumatici realizzati, manifestazioni come sintomi intrusivi (ad
esempio flashback o incubi), comportamenti d’evitamento rispetto ai segni legati al trauma stesso; insieme a questa catena
ci sono anche alterazioni negativamente implicative per umore e processi cognitivi più ampi. Occorre altresì notare come
siano evidenti le complicanze derivanti dall’applicazione pratica delle linee guida diagnostiche nel contesto militare.

Le esperienze traumatizzanti vissute dai membri delle forze armate possono risultare variegate ed articolate anziché limitarsi
ad accadimenti isolati. Esse spaziano dall’esposizione continua a minacce dirette alla tragica perdita dei compagni sul
campo; vi è inoltre una partecipazione ad attività violente le cui ripercussioni coinvolgono talvolta anche civili innocenti,
così come complessità nella rielaborazione d’esperienze estremamente gravi che di frequente eccedono la capacità
normale della mente umana
. In questo scenario risulta essenziale disporre di metodologie diagnostiche accorte ed
adattabili all’ambiente operativo, atte ad affinarsi sulle peculiarità vissute dai soldati nel corso della loro carriera. Il tema
dei traumi militari è intrinsecamente connesso al senso di colpa del sopravvissuto, una condizione che emerge quando
individui riescono a scampare da eventi catastrofici nei quali altri hanno subito gravi danni o hanno addirittura perso la
vita. Tale emozione si somma al pesante fardello del trauma esperito, generando una realtà psicologica particolarmente
debilitante
, contrassegnata da sentimenti di autovalutazione negativa, ostilità interna e isolamento dagli altri. Oltre a ciò, i
membri delle forze armate si trovano spesso coinvolti in complessi conflitti etici e morali, soprattutto allorquando le
distinzioni fra attori bellici e civili risultano indistinte.

Queste circostanze provocano uno stress psicologico intenso che necessita di interventi mirati per essere gestito efficacemente. L’atteggiamento assunto dalle istituzioni militari e sanitarie
nella identificazione ed elaborazione di tali traumi è determinante per garantire un adeguato supporto. La tendenza alla
minimizzazione o negazione del problema—una pratica riscontrata anche nel contesto italiano secondo vari racconti—
può produrre un effetto disincentivante sulla ricerca d’aiuto, aggravando ulteriormente il disturbo vissuto dai soggetti
interessati.

La ritrosia a riconoscere apertamente il PTSD nei militari italiani, in parte attribuita da alcune analisi alla
volontà di non ammettere che le missioni all’estero siano in effetti “zone di guerra” in contrasto con l’articolo 11 della
Costituzione che ripudia la guerra, evidenzia una barriera istituzionale significativa. Questa situazione si contrappone a
modelli come quello olandese, dove la creazione di un istituto dedicato ai veterani nel 2000 ha rappresentato un passo
importante nel riconoscimento e nel supporto delle loro esigenze, comprese quelle legate alla salute mentale.

Il Ministero
della Difesa italiano ha recentemente avviato un comitato per monitorare e gestire i disturbi mentali tra il personale
militare. Tuttavia, mancano ancora dati epidemiologici chiari sulla reale incidenza del PTSD nel nostro Paese[2].


Trattamenti e strategie di coping per il PTSD militare

Negli anni recenti si è assistito fortunatamente allo sviluppo di svariate strategie terapeutiche efficaci per affrontare il
PTSD nella pratica clinica; queste risultano particolarmente pertinenti anche nell’ambito militare. Fra gli approcci
psicoterapeutici più raccomandati vi sono senza dubbio la Terapia Cognitivo-Comportamentale Focalizzata sul
Trauma (TF-CBT)
, nonché l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).
Il metodo della TF-CBT
facilita nei pazienti un processo di riconoscimento e modifica dei pensieri disfunzionali strettamente legati all’esperienza
traumatica; dall’altro lato, l’EMDR è concentrata sull’elaborazione dei ricordi dolorosi mediante una stimolazione
bilaterale mirata. Ambedue queste modalità terapeutiche perseguono come obiettivo primario quello di diminuire sintomi
intrusivi oltre a difficoltà nella gestione emotiva o cognitiva collegata al PTSD stesso. Ciò permette quindi ai veterani non
solo di rielaborare adeguatamente ciò che hanno vissuto ma altresì di tornare a condurre una vita quotidiana con un
migliore funzionamento quotidiano.
In aggiunta agli approcci classici già citati, vi è una crescente attenzione verso metodi
innovativi integrativi. Recentissimi studi evidenziano infatti come gli interventi basati su tecniche di Mindfulness – ad
esempio la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) – possono offrire significativo supporto ai veterani affetti da
disturbi psichiatrici correlati ai traumi subiti. L’integrazione di pratiche che combinano la consapevolezza con interventi
terapeutici cognitivi si rivela particolarmente benefica per i militari nel loro percorso verso una migliore gestione
dell’ansia, della depressione e dei disturbi del sonno spesso collegati al PTSD. Si osserva un’aria di rinnovato interesse
anche nell’esplorazione dell’impiego delle sostanze psicoattive come l’MDMA in ambito terapeutico; queste vengono
impiegate sotto strettissima supervisione al fine di supportare processi psicoterapici mirati al superamento del PTSD. Pur
trovandosi ancora nella fase iniziale della ricerca ed esigendo pertanto un approccio caratterizzato da cautela e rigore
scientifico
, questi sviluppi sembrano promettere nuove opportunità nella cura dei casi più ostinati alle normali
metodologie terapeutiche.
Oltre ai trattamenti clinici già consolidati, assumono una notevole importanza iniziative
focalizzate sulla salute mentale dentro le Forze Armate stesse. Tra queste si annoverano programmi preventivi rivolti
all’acquisizione delle competenze necessarie per affrontare situazioni stressanti ed emozionalmente cariche durante
operazioni rischiose. La finalità non consiste nell’estirpare totalmente lo stress – pilastro fondamentale delle missioni
militari – bensì nell’offrire agli individui strumenti efficaci per apprendere a gestire le proprie reazioni emotive, affinché
possano funzionare proattivamente senza cedere alla repressione o sprofondare nel dominio delle emozioni negative. Uno
dei temi fondamentali concerne il supporto fra individui con esperienze analoghe (Peer Support). Qui, professionisti
capaci ed empatici sono pronti ad offrire ascolto, comprensione e orientamento, prestando assistenza a quei colleghi che
si trovano in momentanea difficoltà. Tale forma di sostegno gioca un ruolo significativo nel facilitare l’abbattimento delle
resistenze culturali legate all’espressione della necessità di aiuto, specialmente in contesti dove la manifestazione della
propria vulnerabilità è frequentemente erroneamente associata alla debolezza.

Affrontare le barriere culturali e promuovere un cambiamento di mentalità

Malgrado gli avanzamenti conseguiti nella conoscenza riguardo al PTSD e alle relative terapie disponibili, persistono le
barriere culturali e uno stigma intrinsecamente legato ai disturbi mentali che si configurano come ostacoli significativi,
ostacolando quei membri delle forze armate in cerca d’aiuto. La cultura militare mette sotto pressione il concetto della
forza individuale, della resilienza estrema e dell’autosufficienza; ciò complica notevolmente la possibilità per gli individui
coinvolti nel servizio armato di ammettere eventuali difficoltà psichiche o di chiedere supporto.
Le preoccupazioni circa
possibili giudizi negativi da parte dei superiori o eventuale compromissione della propria carriera possono indurre gli
operatori militari a nascondere i propri sintomi, patendo in modo silenzioso; tale comportamento provoca ritardi
nell’accesso alle necessarie cure terapeutiche e aumenta esponenzialmente il rischio d’insorgenza di complicanze gravi
quali anche tentativi di suicidio. Sebbene l’Italia riscontri un numero minore rispetto ad altre nazioni sul tema dei suicidi
tra le proprie fila militari,
dobbiamo comunque riconoscere questa tragica realtà dolorosa.

Ciò evidenzia quanto sia urgente dover affrontare seriamente questo fenomeno sociale nei ranghi delle Forze Armate.
È imperativo dunque promuovere un vero sforzo verso un cambiamento culturale sostanziale.
A tal fine diventa essenziale operare dentro ogni ambito istituzionale del settore militare ma anche nell’odierna società
civilizzata. Il compito delle Forze Armate consiste nell’assumere un ruolo attivo nella creazione di uno spazio dove la
salute mentale venga riconosciuta come parte integrante del benessere complessivo dei membri stessi, così come della
loro prontezza operativa. In tale contesto, il fatto stesso di cercare aiuto deve essere interpretato come un atto d’orgoglio
anziché una manifestazione d’impotenza
. È essenziale che gli ufficiali superiori ei il personale dirigenziale ricevano
adeguata formazione riguardo alla salute psicologica e agli indicatori precoci dei problemi emotivi nei loro sottoposti;
questo approccio consente l’individuazione tempestiva delle difficoltà critiche dovute alle condizioni psico-fisiche.
Inoltre,
progetti autonomi messi in campo da organizzazioni sindacali o associazioni potrebbero rivelarsi fondamentali,
permettendo l’accesso ad assistenza psicologica esterna alle tradizionali strutture istituzionali; ciò si presenta dunque
come opzione privata per quei soldati riluttanti all’idea d’approcciarsi direttamente alle risorse fornite dai canali
ufficiali. Tali interventi, che poggiano su principi quali la collaborazione reciproca fra colleghi, sono capaci non solo
d’integrazione rispetto all’assistenza formalizzata, ma anche nella costruzione di una solida rete protettiva a favore dei
membri delle Forze Armate meno fortunati o in stato critico. Il sinergismo tra le Istituzioni Militari, gli specialisti della
salute mentale e le associazioni civili rappresenta un fattore chiave nel promuovere un’infrastruttura di sostegno globale
e omogenea, atta a far fronte alle necessità specifiche dei soldati in servizio attivo nonché degli ex combattenti affetti da
PTSD e da altre condizioni patologiche connesse al loro operato.

L’importanza di un approccio olistico alla salute mentale militare

La comprensione del disturbo da stress post-traumatico trascende la semplice enumerazione dei sintomi e
l’implementazione delle metodologie terapeutiche convenzionali. Essa implica un’immersione nella intricata rete
dell’esperienza umana
, in risposta a episodi capaci di mettere in crisi la nostra integrità psichica. Nella sfera della
psicologia cognitiva noto come traumi incisivi possano modificare le strutture cognitive fondamentali; esse fungono da
filtri attraverso i quali osserviamo e interpretiamo gli eventi del nostro ambiente.
Ad esempio, un soldato coinvolto in
scontri cruenti potrebbe giungere alla conclusione radicata che il mondo esterno rappresenta una costante minaccia: tale
visione incide su ogni dimensione della sua esistenza anche quando si trova lontano dalle situazioni critiche. Questo
processo di ristrutturazione mentale conseguente al trauma funge da meccanismo difensivo cerebrale, cercando
disperatamente una logica nell’inspiegabile; tuttavia, questo stesso adattamento può generare sofferenza continuativa. A
livelli ulteriormente sofisticati, le teorie comportamentali mettono in evidenza come i meccanismi associati agli eventi
traumatici possano perpetuare attivamente la presenza del PTSD nel tempo. L’evitamento, ad esempio, che inizialmente
può sembrare una strategia utile per ridurre l’ansia, diventa un rinforzo negativo potente: evitando situazioni che
ricordano il trauma, l’ansia si riduce temporaneamente, rafforzando così il comportamento di evitamento nel lungo
termine e impedendo la rielaborazione del trauma.
Questo circolo vizioso comportamentale è spesso al centro del
mantenimento del disturbo. Riflettere su questi aspetti ci invita a considerare la salute mentale militare non come un
problema da “curare” nel senso tradizionale del termine, ma come una dimensione da coltivare e proteggere fin dalla
selezione e durante tutta la carriera di un militare. Non si tratta solo di intervenire dopo che il danno è fatto, ma di
equipaggiare nostri soldati con una “corazza psicologica” attraverso la formazione, il supporto continuo e la creazione
di un ambiente che normalizzi la vulnerabilità la richiesta di aiuto. Così potremo onorare veramente il servizio
garantendo che, una volta deposta l’uniforme, possano ritornare non solo integri fisicamente, ma anche psicologicamente
resilienti e in grado di ricostruire una vita piena e significativa.

Titolo: Cuore di Soldato Autore: Rachele Magro Editore: Psiconline Anno: 2012

Titolo: Oltre le Stelle Autore: Rachele Magro Editore: Psiconline Anno: 2014

[1] Ministero della Difesa

[2] Analisi Difesa


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