- Nel 2022, il 49,4% dei giovani italiani soffriva d'ansia post-pandemia.
- Quasi il 40% dei Millennials si sente spesso ansioso.
- Oltre 1,1 milioni di giovani a rischio dipendenza social.
La pandemia ha segnato senza dubbio un momento cruciale nel panorama della salute mentale mondiale; si è registrato infatti un aumento marcato nei casi relativi alla depressione e all’ansia. Anche oggi questi valori faticano a tornare alle condizioni riscontrabili prima dell’emergenza sanitaria. Tra coloro maggiormente afflitti da questa crisi emotiva vi è senz’altro la generazione definita dei Millennials: giovani nati grosso modo tra gli inizi degli anni Ottanta fino alla metà degli anni Novanta. Prima già oggetto delle pressioni tipiche derivanti da lavori instabili ed effetti deleteri dell’iperconnessione continua, ora queste persone si trovano ad affrontare vulnerabilità incrementate dal lockdown forzato assieme alle ripercussioni sociali ed economiche insite nella crisi.
Le indagini più recenti mettono in luce quanto una porzione significativa non solo della generazione Millennial ma anche della Gen Z — comprendente quelli venuti
alla luce attorno agli ultimi anni Novanta — sopporti elevati livelli d’ansia[1], stress protratto ed esperienze classificabili come burnout. I dati riguardanti i giovani adulti compresi nella fascia d’età 18-24 mostrano con sempre maggiore chiarezza il riconoscimento pubblico del problema collegato alla propria salute mentale; ciò rimanda a uno stato generale assai fragile in cui emerge l’urgenza di un intervento immediato. Il legame tra lavoro e benessere psicologico è sempre più riconosciuto: una cattiva organizzazione, orari eccessivi, la necessità di essere costantemente disponibili e, soprattutto, la precarietà emergono come fattori di rischio principali per l’insorgenza di disturbi come la depressione legata all’ambito professionale.
Fonte: Rapporto Salute Mentale, Ministero del Salure, 2023.
Ma il burnout non è più una condizione limitata alle professioni ad alto stress o a coloro che lavorano un numero esorbitante di ore. Per molti Millennials, a causa del contesto socio-economico e dell’integrazione pervasiva della tecnologia nella vita quotidiana, il burnout sembra essere diventato una sorta di “temperatura di base”, uno stato emotivo e fisico di esaurimento che persiste anche quando si riesce comunque a portare avanti gli impegni. Questa stanchezza cronica, unita alla difficoltà di staccare mentalmente dal lavoro a causa dell’accessibilità costante via smartphone e piattaforme digitali, contribuisce a offuscare ulteriormente i confini tra vita professionale e privata, esacerbando il disagio. La precarietà economica, la difficoltà di fare progetti a lungo termine e la sensazione di essere “risorse” da cui estrarre massima produttività aggravano ulteriormente il quadro, spingendo i Millennials ad accettare carichi di lavoro eccessivi per timore di perdere l’impiego.
Precarietà e iperconnettività: un cocktail per il malessere
L’analisi dei materiali evidenzia come la precarietà del mercato del lavoro e la costante iperconnettività alimentata dalla tecnologia siano due fattori critici che si intrecciano, creando un terreno fertile per l’insorgenza di problemi di salute mentale nella generazione dei Millennials. Questa generazione è entrata nel mondo del lavoro in un’epoca di crisi economiche e stagnazione, maturando la percezione che avere un impiego, anche se instabile e malretribuito, sia già un privilegio. Tale percezione porta spesso ad accettare condizioni lavorative sfavorevoli, carichi eccessivi e la rinuncia a un sano equilibrio tra vita privata e professionale. La paura di non essere all’altezza o di perdere l’opportunità spinge ad una disponibilità continua, facilitata enormemente dagli strumenti digitali.
L’avvento e la diffusione capillare degli smartphone e delle piattaforme di comunicazione istantanea hanno di fatto reso il lavoro accessibile in qualsiasi momento e luogo. Se da un lato questo ha introdotto o potenziato forme di flessibilità lavorativa come lo smart working, dall’altro ha reso sempre più labile il confine tra “on” e “off duty”. La ricezione incessante di notifiche, email e messaggi legati al lavoro, a qualsiasi ora del giorno e della notte, anche durante i weekend o le vacanze, crea uno stato di allerta costante e impedisce un vero e proprio stacco mentale. Questo fenomeno, amplificato durante la pandemia dove la casa è diventata contemporaneamente ufficio e luogo di riposo, contribuisce in modo significativo al burnout. Il tentativo di regolamentare il lavoro fuori dagli orari, se mal interpretato, può addirittura ritorcersi contro, portando alcuni Millennials a lavorare di più pur di dimostrare impegno e dedizione.
Fonte: Rapporto Deloitte Global 2023.
Diviene chiaro come la tecnologia, nata con l’intento di semplificare e velocizzare, abbia paradossalmente accelerato i ritmi vitali, rendendo le giornate più dense di impegni e, di conseguenza, più ansiogene e agitate. La visione prospettica delineata dall’avanzamento tecnologico verso dispositivi sempre più immersivi come gli smart glasses presuppone una potenziale diluizione dei limiti, accrescendo il rischio della cosiddetta connessione perenne. In tale contesto, disconnettersi diverrà un’impresa che necessiterà di uno sforzo deliberato ben oltre quello attuale richiesto dal semplice accantonamento dello smartphone. Si aprono così interrogativi fondamentali riguardo alla nostra capacità cerebrale nel gestire tassi crescenti di produttività insieme a pressioni incessanti. Sebbene la ricerca possa apparire promettente per il trattamento delle dipendenze, essa mette in luce anche l’inquietante opportunità che si presentino soluzioni farmacologiche destinate a sopprimere i sintomi fisiologici dell’esaurimento invece di indagare e affrontare le radici strutturali del fenomeno burnout.
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Nuove forme di dipendenza: quando la fuga digitale diventa patologica
In concomitanza con il crescente fenomeno del burnout, così come con l’aumento dei disturbi d’ansia generalizzati durante la pandemia, si è verificata un’espansione inquietante delle nuove forme di dipendenza. Un incremento particolare riguarda le problematiche associate all’impiego incessante dei social media, oltre al coinvolgimento nel gioco online. La necessità imposta dall’isolamento fisico ha spinto molte persone verso il regno digitale in cerca di evasione dalle limitazioni comunicative tipiche delle interazioni dirette. Questa situazione ha determinato frequenti modalità d’uso sregolate rispetto ai servizi online; ciò ha facilitato nei casi più estremi la transizione da semplici abitudini quotidiane fino a manifestarsi come vere proprie dipendenze.
Le evidenze statistiche rivelano un gruppo demografico particolarmente suscettibile: gli individui sotto i 35 anni. Tra questi ultimi sono soprattutto i giovani adulti compresi nella fascia dai 18 ai 23 anni ad affrontare il maggior rischio legato alle insidie digitali; essi rappresentano infatti uno strato considerevole della popolazione incline alla dipendenza. I dati sollevano interrogativi inquietanti sulla consapevolezza diffusa riguardo agli effetti collaterali: sebbene vi siano solide prove scientifiche che stabiliscono connessioni dirette fra uso intensivo degli spazi social o dell’attività ludica online ed effetti psichici avversi quali stati ansiosi o depressivi insieme a uno scadimento generale della qualità percepita della vita stessa, risulta sorprendentemente basso il livello di cognizione sui pericoli associati per le fasce più giovani della società. Spesso, i segnali di allarme – il bisogno di utilizzare i social sempre più frequentemente, l’incapacità di smettere, l’agitazione in caso di mancato utilizzo, la riduzione del tempo dedicato ad altre attività importanti – vengono ignorati o non riconosciuti come sintomi di un problema.
Fonte: Demoskopika, 2024.
La dipendenza da social media si inserisce nel contesto più ampio dei disturbi legati all’uso della tecnologia, che includono anche l’internet gaming disorder e altre forme di dipendenza digitale. Le cause di queste dipendenze sono molteplici e complesse, spesso legate alla ricerca di gratificazione immediata (stimolata dal sistema di ricompensa della dopamina), alla mancanza di autostima, alla solitudine e all’ansia sociale. La pandemia ha indubbiamente amplificato questi fattori, offrendo nel mondo online quello che l’isolamento fisico negava. La gestione dell’attuale emergenza implica necessariamente una strategia complessiva, capace non solo di criticare l’utilizzo della tecnologia, ma anche
di potenziare la consapevolezza circa i relativi rischi. È essenziale dotare gli utenti degli strumenti necessari affinché possano usufruire in modo informato delle piattaforme digitali. Inoltre, si rende fondamentale incentivare l’adozione di metodologie atte a sviluppare modalità d’affrontamento più salubri e produttive nella gestione dello stress e nel favorire le interazioni sociali.
Riflessioni sulla resilienza e il futuro del benessere nei Millennials
Comprendere l’impatto della pandemia sulla salute mentale dei Millennials, così come l’influenza di fattori come precarietà e dipendenze digitali, ci porta a esplorare il concetto di resilienza e le strategie per rafforzarla. Dal punto di vista della psicologia cognitiva e comportamentale, lo stress e il burnout possono essere intesi come risposte a un disequilibrio tra le richieste ambientali (lavorative, sociali) e le risorse a disposizione dell’individuo per farvi fronte. Le strategie di coping, come concettualizzato da Lazarus e Folkman, rappresentano gli sforzi cognitivi e comportamentali per gestire situazioni stressanti. Queste possono essere orientate al problema (mirando a modificare la fonte dello stress) o all’emozione (volte a regolare la risposta emotiva). Nel caso dei Millennials, la loro capacità di far fronte allo stress è messa a dura prova da un ambiente che presenta sfide uniche e prolungate.
Una nozione avanzata di psicologia correlata è la “fatica decisionale” (decision fatigue), che si manifesta a seguito di ripetute decisioni, anche piccole, e che può portare a una riduzione della capacità di autoregolazione e a scelte impulsive o di evitamento. L’iperconnettività e la costante esposizione a stimoli e richieste contribuiscono notevolmente a questa fatica, rendendo persino le decisioni più semplici, come cambiare una lampadina, un compito gravoso. Questo non è segno di pigrizia, ma un sintomo tangibile di un sistema cognitivo sovraccarico.
La pandemia e le sue conseguenze hanno agito come un trauma collettivo, modificando le nostre routine, le nostre interazioni e la nostra percezione di sicurezza. Affrontare un trauma richiede processi di elaborazione e adattamento. Per i Millennials, questo significa navigare in un mondo post-pandemico che ha accentuato le fragilità preesistenti legate al lavoro e alla socialità, sfidando le loro capacità di adattamento.
La medicina correlata alla salute mentale ci indica l’importanza di un approccio olistico, che consideri non solo gli aspetti psicologici ma anche i fattori biologici e sociali. La ricerca sulla nocicettina e la dopamina, pur presentata in un contesto speculativo, sottolinea come lo stress cronico possa indurre modificazioni neurobiologiche che impattano direttamente sulla motivazione e sulla capacità di affrontare le sfide. Strategie che supportano la funzionalità cerebrale, come l’uso di neurotrofine (BDNF, NGF) o la serotonina a basso dosaggio, pur essendo in fase di studio o di applicazione in contesti specifici, aprono prospettive interessanti per il supporto farmacologico, ma non devono distogliere dall’urgenza di intervenire sui fattori ambientali e psicosociali che generano il disagio.
Riflettiamo: stiamo costruendo una società che spinge i suoi membri più giovani sull’orlo dell’esaurimento, per poi cercare soluzioni rapide o palliative? La “pillola contro il burnout”, per quanto fantascientifica possa apparire ora, solleva la questione etica e sociale del voler adattare l’essere umano a condizioni insostenibili, anziché modificare le condizioni stesse. La considerazione riguardante l’influenza della pandemia sulla salute mentale dei Millennials deve andare oltre il mero riconoscimento del disagio avvertito; essa deve invece promuovere un sostanziale rinnovamento delle politiche lavorative, riforme strategiche nell’educazione all’uso della tecnologia e potenziamenti nel sostegno alla salute psicologica. È cruciale prendere atto della fragilità di una generazione costretta ad affrontare sfide senza precedenti, immersa in un contesto mondiale che evolve con rapidità frequentemente opprimente.