Dissociazione: perché la nostra mente si ‘stacca’ dalla realtà?

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  • La dissociazione è una perdita variabile nella capacità integrativa della coscienza.
  • Il 16% dei partecipanti con disturbi affettivi ha riportato abusi sessuali.
  • L'abuso infantile è un fattore predisponente allo sviluppo di disturbi dissociativi.
  • La terapia sensomotoria mira alla riorganizzazione somatica e integrazione degli eventi traumatici.

L’idea stessa di dissociazione rappresenta un elemento cruciale all’interno degli studi psicologici e psichiatrici, poiché fornisce chiavi interpretative essenziali per esplorare le intricate dinamiche del funzionamento mentale umano. Sebbene ci sia assenza di una definizione condivisa globalmente riconosciuta alla luce delle differenze teoriche esistenti nel settore, la dissociazione viene generalmente descritta come una perdita variabile nella capacità integrativa della coscienza. Questo stato disgiunto coinvolge molteplici aspetti cognitivi tra cui pensiero, memoria, identità ed esperienza percettiva, influenzando notevolmente il funzionamento globale dell’individuo.

Nelle esperienze quotidiane emerge frequentemente il richiamo a tali eventi dissociativi: quante volte capita di trovarsi alla guida con uno stato d’animo vagante così profondo da farci dimenticare casi tangibili come la strada percorsa? O ancora imbattersi nella lettura ossessiva pagina dopo pagina senza realmente afferrare ciò che si sta leggendo? Tali episodi comuni possono sembrare innocui ma dimostrano chiaramente la sorprendente abilità cognitiva dell’essere umano nel distogliere momentaneamente l’attenzione dalla situazione presente, creando spazio ad altre riflessioni personali non legate immediatamente all’attività svolta. Nei suddetti contesti, l’individuo tende a non avvertire la realtà esterna come pericolosa; mantiene pertanto la facoltà di ristabilire pienamente le sue capacità cognitive. Tali manifestazioni appaiono sotto forma di episodi brevi che non mettono in discussione l’integrità complessiva dell’individuo. È importante tuttavia fare chiarezza riguardo alla distinzione tra queste esperienze comuni e quelle più articolate ed elusive che caratterizzano i disturbi dissociativi. Nella sfera della psicopatologia contemporanea, il termine dissociazione acquisisce connotazioni molto più vaste; esso allude tanto a una specifica categoria diagnostica quanto a un insieme variegato di sintomi rinvenibili in diverse circostanze cliniche: questi ultimi possono fungere da spie della gravità dell’intero quadro psicopatologico presente nel paziente. Come evidenziato dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), i disturbi dissociativi sono connotati da discontinuità nella normale integrazione delle principali funzioni psichiche – includendo coscienza, memoria e identità oltre alla percezione del proprio corpo e comportamenti associati – dove questa disgregazione, ovvero disintegrazione delle facoltà mentali elevate del soggetto stesso, può dar vita a esperienze spesso stupefacenti ed occasionalmente invalidanti. Le recenti ricerche hanno messo in evidenza due categorie fondamentali dei fenomeni dissociativi: quella relativa ai meccanismi di detachment, ovvero il distacco, e quella che riguarda la compartmentalization, ossia la compartimentazione. La prima categoria abbraccia manifestazioni caratterizzate dalla separazione dal Sé stesso così come dalla realtà circostante. Tra queste spiccano casi quali la depersonalizzazione, in cui si prova una sensazione assente dell’autosufficienza corporea; la derealizzazione, quando l’ambiente appare alieno o deformato; l’anestesia emotiva; il déjà vu; ed infine le esperienze autoscopiche, dove ci si percepisce al di fuori del proprio corpo. Tali manifestazioni emergono frequentemente come risposta a forti emozioni o circostanze eccezionali e possono colpire anche soggetti privi della diagnosi formale di un disturbo dissociativo.

Per quanto concerne invece i fenomeni legati alla compartimentazione, questi sono connotati dall’alterata integrazione delle funzioni psichiche, quelle abitualmente unite quali memoria, identità, schema corporeo, nonché gestione delle emozioni e attività motorie volontarie. Questa seconda categoria include sintomi più articolati frequentemente associati a eventi traumatici vissuti: fra essi troviamo le amnesie dissociative, che comportano difficoltà nel recupero della memoria riguardo a informazioni significative oppure accadimenti traumaticamente rilevanti; il ritorno frammentario o intrusivo delle memorie collegate ai traumi passati; la presenza della dissociazione somatoforma, caratterizzata da sintomi fisici realizzati senza alcun riscontro medico chiaro; infine vi sono variazioni dell’identità, inclusa l’esistenza simultanea degli stati personali distintivi tipica del disturbo dissociativo dell’identità. Contrariamente ai fenomeni legati al distacco, le esperienze di compartimentazione appaiono in grado di modificare profondamente la struttura intrinseca della personalità e vengono frequentemente interpretate come il risultato di uno sviluppo traumatico.

Trauma e dissociazione: un legame complesso

Nel campo della psicotraumatologia è emerso con chiarezza il profondo nesso esistente fra trauma e dissociazione. Una vasta gamma di osservazioni cliniche unite a rigorosi studi scientifici hanno messo in luce la relazione causale che intercorre tra esperienze traumatiche — specialmente quelle caratterizzate da una natura precoce, prolungata nel tempo o relazionate all’interpersonalità (ad esempio gli abusi o la negligenza) — e l’insorgenza di comportamenti dissociativi. In tal senso, la dissociazione va oltre una mera difesa psichica, pensata per ridurre il dolore emotivo derivante dal trauma; essa rappresenta piuttosto una vera e propria disgregazione profonda della coscienza e dell’intersoggettività. Tale distacco può costituire inizialmente uno sforzo d’adattamento indispensabile alla sopravvivenza dinanzi a eventi devastanti. Tuttavia, quando questo meccanismo persiste senza risoluzione positiva tende a diventare problematico: impedisce infatti l’integrazione delle memorie legate al trauma stesso compromettendo le capacità future dell’individuo.

Recentemente sono stati condotti studi che confermano come le esperienze di abuso nell’infanzia – specificamente i maltrattamenti fisici ed emotivi accompagnati da trascuratezza – rappresentino significativi fattori predisponenti allo sviluppo di disturbi dissociativi; i dati mostrano che coloro che hanno vissuto traumi infantili presentano probabilità elevate di sperimentare sintomi dissociativi. I pazienti con una storia di abuso sessuale, ad esempio, mostrano un decorso clinico più grave e una maggiore predisposizione a sviluppare disturbi affettivi complessi. Come dimostra la ricerca pubblicata nel 2023, l’abuso sessuale precoce è associato a una morbidità clinica più alta, con ritorni più frequenti e gravi di episodi affettivi, suggerendo un intervento tempestivo e mirato in questi casi.

Un recente studio ha dimostrato che circa il 16% dei partecipanti con disturbi affettivi ha riportato abusi sessuali, evidenziando l’importanza di interventi precoci e specifici per migliorare gli esiti clinici.
[AISTED NEWS]

Un’ipotesi largamente accettata nel campo è che la dissociazione si attivi come parte di un sistema di difesa biologico arcaico, deputato alla protezione da minacce percepite. Di fronte a un pericolo che non può essere affrontato con le risposte di lotta o fuga, il corpo può attivare una risposta estrema di freezing (congelamento) o faint (svenimento/distacco). Quest’ultima, in particolare, implica una brusca riduzione del tono muscolare e una disconnessione tra centri cerebrali superiori e inferiori, simulando la morte e rendendo possibile un distacco dall’esperienza traumatica. Se questa attivazione del sistema di difesa diventa cronica, come spesso accade in seguito a traumi ripetuti o prolungati, si trasforma da risposta adattativa a risposta disadattativa. Impedisce l’esercizio della metacognizione e delle funzioni superiori della coscienza, non permettendo la completa integrazione della memoria traumatica, che rimane invece “iscritta” nel corpo in modo non elaborato.

La dissociazione traumatica si distingue dalle esperienze dissociative non traumatiche, come quelle quotidiane precedentemente descritte, proprio per la sua eziologia legata a eventi traumatici e per le sue conseguenze strutturali sulla personalità. In situazioni caratterizzate da un elevato grado di stress, è comune sperimentare forme lievi di dissociazione; tuttavia, ciò che si definisce come dissociazione traumatica conduce a un’autentica lacerazione del Sé. Questa condizione si manifesta attraverso sintomi evidenti di compartimentazione che minano l’integrità identitaria e complicano il processo emotivo. Numerosi sono i modelli teorici sviluppati per analizzare i gradi differenti della dissociazione strutturale nella personalità umana: alcuni propongono un approccio basilare nel quale si distingue fra un aspetto apparentemente sano e uno emotivo; altri abbracciano complessità maggiori includendo molteplici sfaccettature sia sul versante emozionale che su quello “normale” del sé. La forma clinicamente severa della dissociazione strutturale è quella riconducibile al fenomeno noto come Disturbo Dissociativo dell’Identità.

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I meccanismi neurologici e psicologici della dissociazione

L’analisi dei meccanismi neurologici e psicologici alla base della dissociazione riveste un’importanza cruciale per poter gestire con efficienza tali disturbi. Pur essendo l’esperienza dissociativa tradizionalmente esaminata sotto il profilo della psicopatologia, recenti ricerche nel campo delle neuroscienze offrono indicazioni significative riguardo ai processi cerebrali che ne sono implicati. Emerge una correlazione tra il disturbo dissociativo dell’identità e anomalie nei meccanismi preposti alla regolamentazione emotiva e alla memoria autobiografica. La forma di dissociazione frequentemente associata a eventi traumatici appare legata a alterazioni sia nella connettività sia nell’attivazione di diverse zone del cervello.

Le indagini tramite neuroimaging funzionale hanno rivelato disparità nel funzionamento dell’amigdala – area deputata all’elaborazione emotiva e alle reazioni fobiche –, così come differenti livelli di attività nella corteccia prefrontale – crucialmente implicata nella gestione dei sentimenti, nelle strategie decisionali e nei controlli cognitivi – nonché nelle regioni limbiche e paralimbiche. Soggetti che hanno vissuto eventi traumatici e presentano sintomi dissociativi mostrano frequentemente una marcata riduzione nella reattività dell’amigdala agli stimoli correlati al trauma; contemporaneamente si registra un aumento nell’attività della corteccia prefrontale mediale e della corteccia cingolata anteriore dorsale. Questo specifico profilo attivazionale sembra indicare un tentativo volto a regolare o inibire reazioni emotive particolarmente intense associate all’esperienza traumatica stessa. Nonostante ciò, tale regolazione si traduce spesso in una grave disconnessione dall’esperienza emotiva, sia mentale che fisica; ciò conduce alla manifestazione dei sintomi dissociativi come la depersonalizzazione e la derealizzazione.

Per quanto concerne invece i fenomeni legati alla compartimentazione delle esperienze personali, questi risultano associati a peculiarità nelle funzioni dei circuiti cerebrali deputati all’integrazione delle informazioni sensoriali ed emozionali ricevute dall’ambiente circostante. La gestione della memoria rispetto a episodi traumatici appare carente: si osserva infatti che tale memoria non viene elaborata né integrata adeguatamente con altre fasi del percorso esistenziale del soggetto stesso. Il risultato è l’insorgere repentino di ricordi disparati tra loro nel tempo sotto forma dei famigerati flashback o il verificarsi occasionalmente di amnesie selettive riferite a determinati periodi temporali. Studi sui pazienti con DDI hanno mostrato differenze nell’attivazione cerebrale tra i diversi stati di personalità o “altri”. Queste differenze possono riguardare non solo l’attività neuronale, ma anche le risposte fisiologiche come battito cardiaco, pressione sanguigna e persino allergie.

Il concetto di dissociazione strutturale della personalità proposto da Van der Hart, Nijenhuis e Steele offre un modello concettuale utile per comprendere la frammentazione del Sé in seguito a traumi complessi. Questo modello postula una divisione della personalità in una o più parti apparentemente normali (ANP), orientate alla vita quotidiana e al funzionamento sociale, e una o più parti emotive (EP), che contengono le memorie e le emozioni legate al trauma. Queste parti possono avere diversi gradi di consapevolezza l’una dell’altra e le transizioni tra loro possono essere accompagnate da amnesia. Questa struttura divisa riflette un tentativo del sistema psichico di gestire un’esperienza schiacciante compartimentalizzando le risposte e le memorie che altrimenti travolgerebbero la capacità dell’individuo di funzionare.

La comprensione e il trattamento della dissociazione: una sfida per la psicologia moderna

La comprensione e il trattamento della dissociazione rappresentano una sfida significativa nel campo della psicologia, che richiede approcci terapeutici integrati e attenti sia agli aspetti psicologici che a quelli somatici del trauma. Le rappresentazioni mediatiche dei disturbi dissociativi, come nel caso del disturbo dissociativo dell’identità, sono state spesso distorte, contribuendo a creare miti e fraintendimenti sulla realtà vissuta dalle persone che ne soffrono. Articoli recenti cercano di fare chiarezza, distinguendo la realtà clinica dai cliché cinematografici e sottolineando la gravità e la complessità di queste condizioni.

La terapia, in particolare con pazienti che presentano dissociazione traumatica, richiede un lavoro attento alla costruzione di una relazione terapeutica sicura all’interno della finestra di tolleranza del paziente. Non basta focalizzarsi sugli aspetti cognitivi ed emotivi legati al trauma; è cruciale includere il corpo nel processo terapeutico, poiché la memoria traumatica è spesso “iscritta” a livello sensomotorio. Metodologie come la terapia sensomotoria, insieme all’EMDR – entrambe rimodulate per trattare la dissociazione – mirano a esplorare le sensationi corporee, i movimenti fisici e i singoli pezzi di ricordo traumatico che i pazienti riescono a tollerare durante il percorso terapeutico. Il fine ultimo consiste nella promozione della riorganizzazione somatica e nell’integrazione incrementale degli eventi traumatici vissuti.

In aggiunta agli approcci terapeutici tradizionali in ambito psicologico, si rivolge uno sguardo attento verso l’impatto dei fattori biologici e ambientali nella salute mentale. Alcuni studi contemporanei analizzano argomenti su cui non ci si aspetterebbe un collegamento diretto con problemi psichiatrici; tra questi emerge l’effetto della nutrizione: si suggerisce infatti che adottando una dieta chetogenica possano verificarsi ripercussioni positive sul tono dell’umore, riuscendo persino a migliorare la condizione della dissociazione mentale. Questi sviluppi indicano chiaramente un’interazione intrincata tra dinamiche fisiche del corpo umano e alterazioni dello stato mentale, rendendo accessibili nuove strade da percorrere sia dal punto di vista scientifico che clinico.

La comprensione della dissociazione prosegue altresì nel contesto sociale così come nelle sue implicazioni generazionali. Un esperimento sociale recente ha cercato di comprendere la dissociazione nella Generazione Z attraverso l’uso della tecnologia, evidenziando come le esperienze digitali possano influenzare il senso di sé e la relazione con la realtà. Questi studi sottolineano la necessità di un uso consapevole della tecnologia e del suo impatto sul benessere psicologico delle nuove generazioni.

Infine, il concetto di dissociazione si estende anche al linguaggio politico e sociale, sebbene in un’eccezione figurata. Si parla di “dissociazione di idee” nel governo per indicare una mancanza di coesione o contraddizioni interne, o di “dissociazione” dalla mafia per descrivere un percorso di distacco e pentimento da parte di membri di organizzazioni criminali. Sebbene questi usi siano metaforici e non si riferiscano direttamente alla dissociazione psicopatologica, riflettono l’idea centrale di una disconnessione, di una rottura o di una separazione da un’entità o da un insieme di idee.

Nozione base: La dissociazione è un meccanismo con cui la nostra mente cerca di gestire esperienze difficili o sopraffacenti, creando una specie di distacco emotivo o cognitivo da ciò che sta accadendo. È un po’ come se, di fronte a qualcosa di troppo intenso, una parte di noi si “staccasse” per proteggere il resto, un po’ come quando guidiamo in automatico senza accorgerci del tempo che passa o dei chilometri percorsi. Questo ci mostra come la mente possa operare su più livelli, a volte anche al di fuori della nostra piena consapevolezza.

Nozione avanzata: La dissociazione, soprattutto quella legata a traumi complessi, non è semplicemente un distacco superficiale, ma può implicare una vera e propria frammentazione del senso del Sé. La mente, per gestire la minaccia percepita e l’impossibilità di integrare l’esperienza traumatica, può dividersi in parti distinte, ciascuna con le proprie memorie, emozioni e persino modi di percepire il mondo. Questo fenomeno, studiato con strumenti di neuroimaging, rivela come il cervello possa alterare la sua connettività e attività per attuare questa disconnessione, mostrando pattern diversi nell’amigdala, nella corteccia prefrontale e nelle aree limbiche a seconda del tipo di dissociazione esperita. Si tratta di un’esemplificazione particolarmente intrigante e articolata del potere con cui il cervello si adatta (anche se a volte in modi poco funzionali) a situazioni estremamente sfidanti. Tale osservazione stimola una profonda riflessione riguardo alla resilienza, alla concomitante vulnerabilità dell’intelletto umano, nonché sul valore imprescindibile di strategie terapeutiche capaci di abbracciare l’interazione complessa tra le dimensioni mentale, cerebrale e corporea.


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