Calcio e traumi cranici: quali rischi reali per la salute del cervello?

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  • Studio Università Sydney: legame tra colpi alla testa e danni cerebrali.
  • Anche senza commozione, colpi di testa danneggiano aree cerebrali come la CTE.
  • Calciatori hanno un rischio 1.7 volte maggiore di demenza.

Il campo del calcio, ricco di passione per milioni di appassionati oltre a essere un’attività sportiva fondamentale, si trova ora ad affrontare timori crescenti relativi alle conseguenze permanenti associate ai traumi cranici, in particolar modo derivanti dai colpi effettuati con la testa. Negli ultimi anni, questo tema si è imposto al centro delle discussioni accademiche e professionali, attirando l’attenzione su un’enorme quantità di ricerche che hanno evidenziato effetti neurologici e cognitivi le cui manifestazioni possono sorgere anche dopo notevoli periodi temporali, danneggiando significativamente il benessere psico-fisico dei calciatori. L’interesse suscitato ha avuto risvolti nella comunità scientifica specializzata in psicologia cognitiva e comportamento, nonché nelle discipline mediche afferenti ai problemi legati ai traumi, poiché pone l’accento sul fatto che una pratica sportiva considerata banale potrebbe invece risultare letale per l’integrità dell’apparato neuro-cerebrale.

Di particolare preoccupazione sono i risultati ottenuti dagli studi più recenti condotti dall’Università di Sydney, i quali sono stati resi noti attraverso le pagine di Sports Medicine – Open. Questi lavori hanno rivelato chiaramente il legame esistente tra l’esposizione a ripetuti colpi alla testa e danni cerebrali potenzialmente gravi. I suddetti impatti sono frequentemente sottovalutati durante l’attività sportiva; tuttavia essi possono sommarsi nel corso del tempo fino a provocare un progressivo deterioramento delle funzioni cerebrali. Recentemente uno studio ha rivelato che persino in assenza della diagnosi formale di commozione cerebrale il gesto tecnico relativo al colpo da fermo utilizzando la testa può recare danno alle stesse aree cerebrali interessate dall’encefalopatia traumatica cronica (CTE). È ben noto che questa patologia sia correlata a significative perdite cognitive e disordini comportamentali.

Le conseguenze derivanti da tali risultati assumono rilevanza considerevole su molteplici fronti. In particolare, dal punto di vista neurologico emerge una connessione inquietante legata all’accumulo nell’organo encefalico di una proteina anomala; quest’ultima gioca un ruolo cruciale nello sviluppo delle forme più gravi di demenza. Uno studio realizzato nel 2018 ha evidenziato quanto gli sport caratterizzati da ripetuti movimenti della testa possano determinare danni irreversibili: ciò avviene tanto maggiore è l’intensità degli urti subiti e la loro frequenza. La preoccupazione attorno a questo fenomeno è aumentata grazie a indagini condotte tra il 2023 e il 2024; questi studi hanno chiaramente dimostrato che anche traumi cranici leggeri possiedono effetti negativi sulle capacità cognitive, manifestandosi dopo diverse settimane o mesi dall’episodio traumatico. Un caso emblematico che illustra questo deterioramento si trova nella figura del lottatore di MMA Nam Phan, il quale ha sperimentato un grave degrado delle proprie facoltà linguistiche nel corso degli ultimi 15 anni; questa situazione rappresenta una chiara prova dei rischi associati ai traumi ricorrenti.

Le informazioni emerse hanno alimentato vivaci discussioni attorno alla questione della sicurezza nel calcio, portando a esaminare non soltanto i traumi immediati ma anche le conseguenze durature legate agli impatti sub-commotivi. Il timore che uno degli atti tecnici cardine come il colpo di testa possa tradursi in malattie neurodegenerative ha sollecitato esperti del settore scientifico, associazioni sportive e gli stessi atleti a rivalutare le modalità d’approccio all’attività calcistica. È lampante come queste considerazioni abbiano ripercussioni significative sulla salute psicologica degli sportivi: forme d’ansia, stati depressivi e deficit mnemonici rappresentano solamente alcune delle problematiche potenziali da affrontare con assistenza clinica specifica. Pertanto risulta vitale aumentare la sensibilizzazione su tali aspetti ed implementare strategie preventive atte a tutelare gli atleti coinvolti nello sport.


Diverse federazioni e associazioni stanno già implementando o proponendo nuove norme. In Olanda, ad esempio, il gioco aereo è vietato per i bambini, mentre in Danimarca è obbligatorio l’uso di un caschetto in determinate categorie. Queste misure, seppur iniziali, riflettono una crescente consapevolezza e la volontà di salvaguardare la salute delle nuove generazioni di calciatori, evidenziando un cambiamento di paradigma nel mondo dello sport. La discussione non si limita solo a evitare le commozioni cerebrali immediate, ma si estende alla protezione a lungo termine del cervello.

Indagini scientifiche e scoperte sulla CTE

La relazione esistente tra il mondo del calcio e l’encefalopatia traumatica cronica (CTE), afflitta dai collegamenti con i colpi di testa effettuati dagli atleti sul campo sportivo, si sta rivelando sempre più centrale nella sfera della medicina sportiva. Ciò solleva preoccupanti interrogativi sulla sicurezza a lungo termine dei giocatori. Nel corso degli anni, la letteratura scientifica ha gradualmente messo in luce una correlazione allarmante fra le ripetute contusioni craniche indotte dal gioco calcistico e l’insorgenza della suddetta malattia neurodegenerativa.

Fra le intuizioni più rilevanti emerse da tali studi vi è la constatazione che i calciatori subiscono danni cerebrali persino attraverso colpi di testa privi di una formale diagnosi da commozione cerebrale, danneggiando aree cerebrali simili a quelle coinvolte nella CTE. Tale prova cominciò a delinearsi con nettezza grazie agli approfondimenti effettuati nel 2024. L’analisi suggerisce quindi come non sia esclusivamente l’intensità dell’impatto fisico a essere insidiosa; infatti, sono stati individuati anche rischi associati ai piccoli urti cranici accumulabili nel tempo frequentemente ignorati dai soggetti interessati. Particolarmente degno d’interesse appare quanto evidenziato dalle indagini svolte nell’autunno inoltrato dello stesso anno: picchiando regolarmente il pallone con la fronte, risulta possibile incorrere in lesioni al cervello anche senza attraversare episodi classificabili come commozioni; queste ultime coinvolgono tuttavia sempre le medesime porzioni corticali associate alla CTE.

Un nuovo studio evidenzia una correlazione tra lesioni alla parte frontale del cranio dovute ai colpi di testa e risultati peggiori nei test cognitivi da parte di calciatori amatoriali. Colpi di testa ripetuti causano deficit cognitivi significativi, come evidenziato da uno studio dell’Irving Medical Center.

La CTE è una condizione complessa e difficile da diagnosticare, poiché la sua conferma definitiva avviene solo tramite autopsia post-mortem. Tuttavia, i sintomi a lungo termine sono ben documentati e includono un vasto spettro di manifestazioni cognitive e comportamentali. Tra queste, si annoverano la perdita di memoria, la confusione, il declino cognitivo, cambiamenti di umore, depressione, ansia e, in casi più avanzati, lo sviluppo di demenza. La ricerca ha evidenziato che la causa sottostante di questi sintomi è l’accumulo anomalo di una proteina tau nel cervello, che compromette la normale funzione neuronale.

Un’analisi dettagliata del 2025 ha esplorato gli effetti a lungo termine dei traumi cranici lievi, rivelando come il cervello risponda a impatti apparentemente lievi. Questi studi hanno messo in luce che anche traumi di lieve entità possono avere un impatto significativo sulla struttura e sulla funzione cerebrale, contribuendo al deterioramento nel corso degli anni. Questo implica che la “regola dei 6 cambi” o altre misure volte a gestire le commozioni acute potrebbero non essere sufficienti a prevenire i danni a lungo termine associati alla CTE, poiché il problema risiede nell’accumulo di microtraumi.

Il dibattito sulla CTE e il calcio ha guadagnato ulteriore visibilità quando, nell’aprile 2024, un importante calciatore ha pubblicamente espresso le sue preoccupazioni, portando la questione all’attenzione del grande pubblico e contribuendo a sfatare il tabù che per anni ha avvolto questo argomento. Questa presa di posizione ha stimolato ulteriori studi e un aumento della consapevolezza riguardo ai potenziali rischi associati ai colpi di testa.

Cosa ne pensi?
  • ⚽️ Finalmente un articolo che mette in luce i rischi reali......
  • 🤔 Non sono del tutto d'accordo, il calcio è sempre stato......
  • 🤯 E se il problema non fosse solo il colpo di testa...?...

Implicazioni cognitive e psicologiche dei colpi di testa

I colpi di testa nel calcio non rappresentano solo un rischio fisico immediato, bensì celano un’ombra ben più lunga sull’integrità delle funzioni cognitive e sulla salute mentale dei calciatori. La ricerca moderna sta progressivamente disvelando un nesso sempre più marcato tra gli impatti ripetuti alla testa e una serie di deficit neurologici e psichici che possono emergere anni, se non decenni, dopo l’esposizione. Si è scoperto che la frequenza e l’intensità di questi impatti possono avere un ruolo significativo nel determinare il grado di danno cerebrale.

I dati mostrano che i calciatori hanno un rischio di incorrere nel morbo di Alzheimer o in altri tipi di demenza di 1,7 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. I giocatori di movimento sono quelli più colpiti, mentre i portieri sembrano rimanere a rischio normale [Gazzetta]. Dal punto di vista cognitivo, le ricerche effettuate hanno rivelato che i calciatori sottoposti a frequenti colpi alla testa presentano una serie consistente di problematiche: si riscontrano infatti alterazioni nella memoria, difficoltà nel mantenere l’attenzione, ritardi nei processi decisionali e complicazioni nell’elaborazione delle informazioni. Un’indagine condotta nel marzo 2023 ha messo in luce come persino gli effetti derivanti da **traumi cranici lievi** possano determinare conseguenze avverse sulle capacità cognitive dopo un intervallo temporale significativo; ciò suggerisce l’esistenza di meccanismi attraverso cui il cervello risponde agli impatti subiti e tali meccanismi potrebbero dar luogo a una sorta d’incremento progressivo nel deterioramento. È stato documentato inoltre che la reiterazione degli urti possa alterare tanto l’efficacia della ‘fluidità verbale’, quanto la celerità nella lavorazione neurale delle informazioni.

Un approfondimento riguardante l’utilizzo della risonanza magnetica menzionata in uno studio pubblicato nel 2014 rivela come anche i più insignificanti **traumi** possano arrecare danni al cervello stesso; si osserva una modifica nella conformazione del tessuto nervoso. Tali microlesioni rischiano quindi di accumularsi col passare del tempo contribuendo inevitabilmente a un **declino progressivo nelle funzioni cognitive**; questo deterioramento influisce non soltanto sulla resa sportiva dell’atleta ma grava significativamente sulle attività quotidiane. La recente ricerca ha sottolineato l’importanza cruciale della vigilanza nei confronti dei calciatori attraverso metodi sistematici e strategie preventive mirate alla diminuzione dell’incidenza dei colpi alla testa durante gli stadi formativi degli atleti.

Per quanto concerne gli aspetti psicologici nonché le implicazioni sulla salute mentale, tali effetti possono risultare altrettanto distruttivi. È emerso che c’è una correlazione diretta con l’aumento del rischio associabile a stati depressivi, ansia persistente, irritabilità, oltre a significativi sbalzi emotivi per coloro che hanno subito lesioni craniche in passato. Sotto questo profilo, anche eventuali compromissioni delle funzioni cognitive — come difficoltà mnemoniche o nell’articolazione verbale — possono sfociare in sensazioni profondamente negative caratterizzate da frustrazione e isolamento sociale, amplificando così il deterioramento complessivo dello stato psichico dell’individuo. A tale riguardo, citando casi esemplari, troviamo quello drammatico del combattente MMA Nam Phan; la sua abilità comunicativa si è rivelata drasticamente compromessa nel corso dei quindici anni seguenti.

Nel mese prossimo febbraio del 2024 avrà luogo la pubblicazione che analizzerà le relazioni intercorrenti fra i colpi dati con la testa nel mondo calcistico e l’insorgenza futura delle diverse varianti della demenza. Demenza. L’associazione emersa ha confermato l’idea che i traumi ripetuti rappresentino un elemento di rischio sostanziale nella genesi di malattie neurodegenerative, specialmente con l’avanzare dell’età, generando notevole allerta negli ambiti sportivi. Non basta più focalizzarsi esclusivamente sulla cura delle lesioni acute; è essenziale implementare misure preventive finalizzate a minimizzare il contatto con il pallone mediante colpi alla testa, coinvolgendo tutte le classi d’età nel processo.

Oltre la superficie: proteggere la mente nel calcio

L’aumentata consapevolezza riguardante le conseguenze neurocognitive associate ai colpi alla testa spinge verso una riflessione necessaria ed imperativa sulla trasformazione delle metodologie nel calcio. Le risultanze derivate da indagini scientifiche recenti – già avviate nel 2014 attraverso ricerche prolungate – hanno trovato nuova linfa nelle scoperte del 2024-2025; tali dati confermano senza possibilità di fraintendimento: anche traumi leggeri o episodi sub-commotivi ripetuti possono dar vita a effetti deleteri sul tessuto cerebrale. Queste alterazioni più gravi possono concretizzarsi con manifestazioni quali l’encefalopatia traumatica cronica (CTE) anche dopo un lungo intervallo temporale. Le intuizioni offerte dalla psicologia cognitiva mettono in risalto il fatto che pur essendo il cervello un organo dotato di grande resilienza è però vulnerabile; infatti, le esposizioni costanti a impatti anche non subito devastanti comportano un accumulo capace di danneggiarne la struttura complessiva e i meccanismi operativi. È vitale dunque esaminare attraverso la lente della psicologia comportamentale come la tradizione sportiva — normalmente orientata a promuovere la tolleranza al dolore mentre riduce l’importanza degli effetti collaterali — debba necessariamente progredire privilegiando in modo incontrovertibile la salvaguardia della salute psichica e neurologica degli sportivi coinvolti.

Recenti studi sul calcio e CTE
I calciatori nei massimi campionati professionistici presentano un rischio maggiore di sviluppare malattie neurodegenerative, come evidenziato da studi su un campione di 6007 giocatori tra il 1924 e il 2019.[Gazzetta] La Scozia ha già implementato norme per vietare i colpi di testa nei bambini e limitare questi colpi anche per i professionisti. Nell’ambito della medicina dedicata alla salute mentale si registra una crescente sensibilità nei confronti delle malattie neurodegenerative, portando il tema del calcio e, in particolare, dei colpi di testa al centro dell’attenzione. È necessario riconoscere che, pur essendo ben noti gli effetti benefici dello sport sull’organismo umano, non si possono ignorare i rischi reali ad esso associati. Come evidenziato dai rapporti diffusi dal Corriere della Sera, così come da AGI e Il Post, nel corso di novembre 2024 fino ad aprile 2024 stesso, la gravità del problema appare preoccupante. La questione va oltre la mera prevenzione di fratture o distorsioni fisiche; concerne invece una sfera ancora più delicata: la mente, considerata il bene supremo dell’individuo.

In base ai fondamenti della psicologia cognitiva possiamo affermare che le attività legate alla memoria, insieme all’attenzione e alle funzioni esecutive (come pianificazione e problem-solving), sono fortemente influenzate dall’integrità delle reti neurali coinvolte. Anche traumi cranici modestamente gravi hanno il potenziale per danneggiare tali sistemi interni, compromettendo quindi abilità cruciali quali l’apprendimento immediatamente applicabile nelle decisioni rapide e una continuità nell’attenzione – fattori determinanti tanto nello sport quanto negli aspetti quotidiani dell’esistenza umana. Immaginate un centrocampista che perde la capacità di anticipare il gioco o un attaccante che fatica a ricordare schemi tattici: queste sono le conseguenze dirette di un cervello compromesso.

Una nozione avanzata, invece, ci porta nel campo della neuroplasticità maladattiva. Normalmente, il cervello è capace di riorganizzarsi per compensare danni o apprendere nuove abilità (neuroplasticità adattiva). Tuttavia, in contesti di trauma cronico, come i colpi di testa ripetuti, questa plasticità può diventare “maladattiva”, innescando percorsi neurali che, anziché riparare, contribuiscono al declino. Le microlesioni non si risolvono del tutto, ma lasciano “cicatrici” che possono progressivamente impedire la normale trasmissione degli impulsi nervosi, sfociando in deficit cognitivi persistenti e, in casi estremi, in patologie come la CTE. Questa dinamica rende la protezione cerebrale una sfida complessa e non immediatamente visibile.

Invitiamo tutti – giocatori, allenatori, famiglie, federazioni e legislatori – a riflettere profondamente su queste evidenze. Non si tratta di demonizzare uno sport amato, bensì di innovarlo, rendendolo più sicuro e sostenibile per la salute umana. È tempo di unire le forze per esplorare nuove tecnologie protettive, modificare le regole quando necessario e, soprattutto, coltivare una cultura sportiva che ponga la salute dei nostri atleti al di sopra di ogni risultato agonistico. Il calcio del futuro deve essere non solo spettacolare, ma anche etico e responsabile, garantendo che ogni colpo di testa sia un’azione di gioco e non un passo verso un futuro incerto e doloroso.

Glossario:
  • CTE: Encefalopatia traumatica cronica, una malattia neurodegenerativa causata da ripetuti traumi cranici.
  • Commozione cerebrale: Lesione cerebrale causata da un colpo violento alla testa.
  • Neuroplasticità: Capacità del cervello di riorganizzarsi per adattarsi a nuove informazioni o riparare danni.
  • Trauma cranico: Lesione al cranio e/o al cervello.
  • Alzheimer: Si tratta di una patologia neurodegenerativa, la quale conduce a un’inesorabile regressione delle abilità cognitive.

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