11 Settembre e Flashbulb Memories: come il trauma ha riscritto i nostri ricordi

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  • L'11 settembre ha generato flashbulb memories, ricordi vividi legati a emozioni intense.
  • Il 40% delle persone ha mostrato ricordi diversi a un anno dall'evento.
  • Oltre il 60% dei bambini esposti ai media ha manifestato ansia.

L’11 settembre 2001 non è una semplice data nel calendario, ma un sigillo inciso a fuoco nella memoria collettiva dell’Occidente. Ventiquattro anni dopo, la domanda “Dov’eri quel giorno?” continua a risuonare con una persistenza sorprendente, travalicando confini geografici e generazionali. Non importa dove ci si trovasse, in quale città o in quale fase della vita: chi era abbastanza grande da formare ricordi, conserva un’immagine vivida di quel pomeriggio in cui le Torri Gemelle di New York si sbriciolarono sotto l’urto di due aerei. Per molti Millennials italiani, quel ricordo è legato a un’interruzione brusca e traumatica della programmazione televisiva per l’infanzia, un frammento immortalato persino nei testi di canzoni popolari, a testimonianza dell’impatto profondo sull’immaginario sociale. Questo fenomeno di memorizzazione eccezionalmente vivida e dettagliata di eventi pubblici traumatici è noto come flashbulb memory, o “ricordo fotografico”. Secondo gli studiosi del comportamento umano, la nascita di tali ricordi è legata a un’intensa emozione e a una significativa sorpresa, elementi chiave per fissare nella memoria non tanto l’evento specifico quanto piuttosto il contesto preciso in cui si è ricevuta l’informazione. Recenti ricerche hanno dimostrato che le flashbulb memories, sebbene caratterizzate da particolari dettagli vividi, sono vulnerabili agli errori e possono subire alterazioni con il passare del tempo. [State of Mind].

È un meccanismo che non si limita all’11 settembre: casi simili furono studiati già nel 1977 dai psicologi Roger Brown e James Kulik, che indagarono eventi come gli assassinii di John F. Kennedy e Martin Luther King. Essi ipotizzarono l’esistenza di un “meccanismo speciale di memoria biologica”, in grado di registrare permanentemente i dettagli circostanziali quando attivato da un evento che supera una soglia critica di sorpresa e salienza emotiva. Questo rende il ricordo quasi indelebile e incredibilmente intenso per il singolo individuo. La fiducia nella chiarezza di questi ricordi è spesso inattaccabile, anche di fronte a evidenze di imprecisione nel tempo.

Tuttavia, la scienza della memoria ha evidenziato come questa “fotografia” non sia affatto infallibile. Studi approfonditi, condotti subito dopo l’11 settembre e ripresi negli anni successivi, hanno rivelato una verità inaspettata: circa il 40% delle persone intervistate ha mostrato ricordi significativamente diversi un anno dopo rispetto a quanto dichiarato inizialmente. Dettagli come il luogo esatto in cui ci si trovava o l’attività che si svolgeva al momento dell’attacco potevano cambiare drasticamente. Le alterazioni non sono state isolate, ma sono progredite nel tempo, con gli individui che tendevano ad attenersi alla versione “falsa” del ricordo istantaneo a dieci anni di distanza. La memoria umana, lungi dall’essere un archivio statico come un computer, è un processo dinamico e fallibile, costantemente rimodellato da fattori come i media, le conversazioni sociali e gli stati emotivi personali. Questo processo di “sistemazione” in narrazioni più coerenti, sebbene inaccurate, è un meccanismo di difesa che permette di affrontare l’immensa portata di un trauma collettivo.

Michael Regan, un ex vigile del fuoco di New York, ha narrato di aver rimosso completamente la sua presenza al World Trade Center nei momenti cruciali successivi agli attacchi, un “blocco mentale” che ha interpretato come un modo per far fronte all’orrore e alla perdita di amici e colleghi. Come ha sottolineato un docente di psicologia di New York, di fronte all’imperativo “Non dimenticare mai”, la domanda sorge spontanea: “Non dimenticare mai cosa?”. Forse, la risposta è semplicemente “Non dimenticare mai che è successo”, ma i dettagli più minuti, i particolari effimeri, sono destinati a svanire o a essere riscritti dalla narrazione collettiva. L’estrema fiducia con cui vengono mantenuti questi ricordi, anche se alterati, suggerisce che la loro funzione va oltre la semplice accuratezza: servono a rafforzare l’identità individuale e l’appartenenza a una comunità segnata da un evento storico e traumatico.

Titolo: Flashbulb Memories: i ricordi come fotografie Autore: Non specificato Publisher: Ambasciator Anno: 2022

L’impatto psicologico a lungo termine e il ruolo dei media

L’impronta lasciata dall’11 settembre 2001 sulla psiche collettiva e individuale si estende ben oltre il momento dell’evento, manifestandosi in profonde e durature conseguenze sulla salute mentale. Questi traumi, siano essi diretti o indiretti, hanno rivelato la vulnerabilità dell’essere umano di fronte a disastri su larga scala, con particolare attenzione ai bambini, la categoria più fragile. La parola “trauma”, dal greco “ferita”, ben descrive lo stravolgimento della routine quotidiana e della percezione del mondo che un evento di tale portata può causare. L’attacco alle Torri Gemelle si colloca in una triste genealogia di disastri moderni, accanto allo tsunami del 2004, alla pandemia di Covid-19 e ai conflitti attuali, accomunati dall’impatto negativo su un vastissimo numero di persone. L’avvento e la pervasività delle nuove tecnologie comunicative hanno amplificato enormemente la portata del trauma, rendendo l’esperienza del dolore non più esclusivo appannaggio dei diretti interessati, ma estendendola a chi vi assiste passivamente, seppur da una “sicura” distanza. L’esposizione indiretta, soprattutto nel caso dei minori, rappresenta un fenomeno estremamente preoccupante, poiché questi ultimi non possiedono le competenze cognitive ed emotive necessarie per decifrare immagini e informazioni violente. Studi realizzati a seguito degli eventi dell’11 settembre hanno messo in luce come molti ragazzi abbiano sofferto di reazioni acute allo stress e Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), pur non avendo vissuto l’esperienza personalmente, ma semplicemente assorbendo il contenuto attraverso la mediazione dei mass media. Inoltre, ricerche recenti indicano che oltre il 60% dei fanciulli esposti a contenuti traumatici sui canali informativi ha evidenziato manifestazioni associate all’ansia. [AGI].

Neoplastic and Constructivist Art Representing Trauma and Media Impact

La rapida diffusione di informazioni riguardanti disastri nazionali e internazionali, se non opportunamente veicolata da istituzioni come le scuole e sostenuta dai caregiver, può generare un significativo disagio emotivo e psicologico. La capacità di resilienza, sebbene non innata, può essere sviluppata attraverso relazioni stabili e di supporto, fondamentali per la protezione e la crescita dei più piccoli in contesti di stress.

Le conseguenze a lungo termine possono includere scarso rendimento scolastico, depressione, ansia e disturbi del comportamento. I bambini al di sotto dei 6 anni possono sviluppare un senso di colpa e problemi di sonno, mentre quelli tra i 10 e gli 11 anni possono manifestare comportamenti regressivi e sintomi fisici come mal di testa o dolori addominali. Gli adolescenti, dotati di maggiore capacità di astrazione, possono ritirarsi socialmente, minimizzare le preoccupazioni o, nei casi più estremi, sviluppare rabbia e desiderio di vendetta. Il PTSD è una delle manifestazioni più gravi e prolungate del trauma, con prevalenze stimate tra il 8% e il 75% nei giovani esposti a eventi bellici. La “coronafobia” legata alla pandemia di Covid-19 ha offerto un ulteriore esempio di come eventi globali possano esacerbare ansia e comportamenti di evitamento, evidenziando la persistenza dei rischi per la salute mentale in contesti analoghi, soprattutto nei bambini con disturbi preesistenti come l’ASD e l’ADHD.

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Il trauma come lente di analisi sociale

L’evento dell’11 settembre 2001, e i disastri in generale, ci costringono a una riflessione più ampia sul concetto di trauma e sulle sue ramificazioni sociali. Il significato di “trauma” si evolve, superando la limitata concezione di ferita fisica per abbracciare una dimensione psicologica profonda, capace di modellare non solo la vita individuale ma anche le dinamiche collettive. Le statistiche ci parlano di una realtà allarmante: nel 1995, quasi un quarto degli adolescenti intervistati negli Stati Uniti era stato coinvolto in un disastro naturale. Nel 2019, la cifra dei bambini che vivevano in zone di conflitto era in costante aumento, raggiungendo quasi due terzi della popolazione infantile mondiale. Circa 426 milioni di bambini vivevano a meno di 50 km da aree di combattimento effettivo IMDb. Queste cifre evidenziano una realtà in cui l’esposizione al trauma è una condizione diffusa, non un’eccezione, e la migrazione forzata si configura come un indicatore estremo di tale esposizione. I disastri naturali e i conflitti armati, sebbene con modalità diverse, generano sofferenza, distruzione e morte, influenzando lo sviluppo psicosociale dei bambini e le loro aspettative future. La guerra, con la sua inesorabile crudezza, spezza i legami familiari, priva i bambini dell’istruzione e della possibilità di costruire una vita sociale stabile, esponendoli a rischi immediati come morte, ferite, disabilità, ma anche a conseguenze a lungo termine come il PTSD, la depressione e l’ansia. Nei bambini, la perdita di un genitore, improvvisa e violenta, innesca sintomi di tristezza, ansia, problemi di concentrazione e scarso controllo degli impulsi, riassunti nel concetto di “bambini vulnerabili con nuove morbilità”. Se trascurati, questi sintomi possono persistere e amplificarsi nell’età adulta. All’interno di questo quadro complesso, l’importanza di figure professionali quali il pediatra si rivela essenziale per l’attuazione di strategie mirate alla prevenzione e all’assistenza, contribuendo così a garantire salute e resilienza. La data dell’11 settembre si inserisce nel novero degli eventi traumatici che hanno evidenziato in modo chiaro come il trauma non rappresenti un episodio singolo, bensì un mezzo attraverso il quale è possibile esaminare le fragilità e i punti forti dell’intera società.

La memoria, il tempo e la costruzione del sé

È affascinante osservare come la nostra mente, nel tentativo di dare senso a eventi che scuotono il tessuto della realtà, non si limiti a registrare i fatti, ma li rielabori, li adatti, li trasformi. La “flashbulb memory” dell’11 settembre è un esempio eclatante di questa danza complessa tra l’evento oggettivo e la sua rappresentazione soggettiva. Non si tratta semplicemente di un ricordo distorto, ma di un processo attivo in cui la nostra identità, le nostre emozioni e il nostro bisogno di coerenza giocano un ruolo fondamentale. Questo ci spinge a riflettere sul fatto che la memoria non è un magazzino statico, ma un’attività creativa continua, che ci permette di integrare esperienze dolorose nel nostro racconto personale, anche a costo di modificarne i dettagli.

La psicologia cognitiva e comportamentale ci insegna che la nostra percezione del mondo è costantemente filtrata e interpretata da schemi mentali preesistenti. Di fronte a un trauma collettivo, questi schemi vengono messi a dura prova, e la memoria, per proteggerci, può operare una sorta di “rimozione” o “riscrittura” automatica. Ciò che percepiamo come un ricordo vivido e inalterabile potrebbe in realtà essere una narrazione che abbiamo costruito per noi stessi, per allineare l’evento alla nostra comprensione del mondo e al nostro senso di appartenenza a una comunità. La fiducia incrollabile che riponiamo in questi “falsi ricordi” rivela una profonda necessità umana: quella di diamo un senso e un posto agli eventi straordinari, anche se questo significa deviare dalla pura e semplice accuratezza fattuale.

Glossario:
  • Flashbulb memory: Un tipo di memoria che riguarda dettagli vividi e precisi riguardanti eventi emotivamente significativi.
  • PTSD: Disturbo Post-Traumatico da Stress, un disturbo mentale che si sviluppa dopo un evento traumatico.
  • Resilienza: La capacità di recupero e adattamento di fronte a stress e difficoltà.

In un’epoca dominata dalla velocità dell’informazione e dalla pervasività dei social media, la comprensione di questi meccanismi diventa ancor più cruciale. La “convergenza mnemonica”, ovvero la tendenza dei ricordi a uniformarsi all’interno di un gruppo sociale, è amplificata dalla condivisione costante di narrazioni, spesso mediate e talvolta distorte. Questo solleva interrogativi importanti sulla formazione dei ricordi collettivi e sulla fragilità della verità in un contesto in cui la disinformazione può plasmare non solo le opinioni, ma la memoria stessa. La riflessione che ne scaturisce è profonda: fino a che punto ciò che “ricordiamo” è realmente accaduto, e quanto invece è stato modellato dalla nostra psiche, dalla società e dal costante flusso mediatico? E, soprattutto, cosa significa “non dimenticare mai” quando la memoria stessa è un terreno così fertile per la rielaborazione e la costruzione del sé e del collettivo?


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