Cancel culture: l’onda emotiva che travolge la libertà di parola

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  • Nel 2020, Donald Trump ha popolarizzato la cancel culture legandola a Black Lives Matter.
  • Nel luglio 2020, 150 intellettuali hanno firmato una lettera su Harper's Bazaar per la libertà di parola.
  • Justine Sacco nel 2013, un tweet sfortunato scatenò un linciaggio online.
  • L'effetto bandwagon spinge a conformarsi all'opinione del gruppo.
  • L'ostracismo e le critiche feroci portano ad ansia e isolamento.
  • Me Too e Black Lives Matter hanno portato alla luce crimini ignorati.

TESTO DA ELABORARE###r

La genesi e l’anatomia della cancel culture

Ci troviamo immersi in un fenomeno sociale complesso, la cosiddetta “cancel culture”, un termine divenuto ormai onnipresente nel dibattito pubblico e sui social network. Sebbene la sua origine possa essere ricondotta a pratiche di boicottaggio e ostracismo già esistenti nella storia, l’avvento delle piattaforme digitali ha amplificato e trasformato radicalmente questo fenomeno. L’espressione nasce negli Stati Uniti, diffondendosi a partire dal 2017, inizialmente legata a gruppi come “Black Twitter” che invitavano a ritirare il supporto verso individui o entità percepite come problematiche. Nel 2020, Donald Trump ha ulteriormente popolarizzato il termine associandolo alle tematiche del movimento Black Lives Matter, e da lì la sua accezione si è estesa, arrivando a includere pratiche di revisionismo storico-culturale, richieste di rimozione di monumenti, personaggi o opere d’arte giudicate non in linea con il “politicamente corretto”.

La cancel culture non si limita a un semplice boicottaggio, che consiste nel non acquistare un prodotto o non fruire di un’opera; essa mira a impedire la stessa pubblicazione o diffusione di un contenuto, rendendolo inaccessibile alla collettività. Questo meccanismo è particolarmente evidente nel mondo dello spettacolo e in quello accademico. Celebrità come Woody Allen e Kevin Spacey sono state colpite duramente, vedendo compromessa la distribuzione delle loro opere o costretti a rigirare intere scene con ingenti perdite economiche. Analogamente, numerosi accademici e giornalisti hanno perso il lavoro a causa di opinioni “scomode” o divergenti, come testimoniato dalla lettera aperta pubblicata su Harper’s Bazaar nel luglio 2020, firmata da 150 intellettuali, artisti e scrittori, tra cui J. K. Rowling e Noam Chomsky, che rivendicavano la libertà di parola. Tuttavia, questa lettera stessa è stata oggetto di critiche, con alcuni che l’hanno vista come una difesa dei privilegi da parte di chi in passato avrebbe espresso opinioni discriminatorie.

Lettera Aperta su Harper’s Bazaar:
Data: Luglio 2020
Contenuto: 150 intellettuali richiamano alla libertà di parola ma sono accusati di privilegio.

La “cultura dell’annullamento” si manifesta in svariati ambiti, dal mondo delle fiabe accusate di trasmettere messaggi non attuali, all’abbattimento di statue legate a episodi storici controversi, fino all’abolizione di classici nelle università. Anche in Italia, il dibattito è acceso, come dimostra il caso dello show di Pio e Amedeo, che ha sollevato interrogativi sull’uso del linguaggio e sulla trattazione di temi sensibili. La critica principale mossa alla cancel culture, sia da destra che da sinistra, riguarda la violazione della libertà di espressione, l’eccessiva rigidità del dibattito e la violenza intimidatoria dei metodi, con conseguenze devastanti sulla vita sociale e professionale delle vittime. Dall’altro lato, i sostenitori la vedono come uno strumento per dare voce a minoranze storicamente marginalizzate, permettendo loro di rivendicare la propria centralità nel dibattito pubblico.

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Il linciaggio online e i suoi meccanismi: una prospettiva psicologica

Il fenomeno del linciaggio online è profondamente interconnesso con la cancel culture e può essere descritto come una sorta di processo sommario operante su internet. In questo contesto virtuale, gli utenti agiscono come giudici inconsapevoli, emettendo verdetti definitivi a ritmo sostenuto e accompagnati da fervore virulento. Un caso emblematico è quello legato a Justine Sacco: nel 2013 scrisse un tweet sfortunato prima della partenza verso l’Africa che scatenò reazioni sproporzionate durante l’attesa per il suo arrivo. Quell’attimo divenne un momento collettivo di voyeurismo mediatico dove molti cercavano uno spettacolo coinvolgente, avendo così trasformato lei nel bersaglio principale dell’attenzione mondiale. Questa vicenda non solo segna uno dei primi esempi tangibili della cancel culture, ma mette anche in luce le peculiarità del linciaggio digitale rispetto al più convenzionale boicottaggio; infatti essi si caratterizzano per la loro visibilità e sfrontatezza, tipicamente diffuse attraverso i social media.

Esiste inoltre una discussione accesa circa se considerarlo o meno qualcosa di realmente innovativo: c’è chi sostiene sia semplicemente un’evoluzione dei classici metodi di boicottaggio o censura amplificati dalla tecnologia moderna, mentre altri ritengono che invece si tratti effettivamente di un fenomeno autonomo capace d’instaurare atmosfere timorose arrecando danni alla libertà espressiva individuale. L’aperta missiva pubblicata su Harper’s Magazine funge da illuminante esempio riguardo al fenomeno dell’illiberalismo crescente. I suoi propugnatori lo descrivono invece come un’iniziativa fondamentale per conferire voce a gruppi minoritari precedentemente ignorati dal discorso pubblico tradizionale, tentando così di ristrutturare le dinamiche relazionali fra diverse forze sociali. Nonostante ciò, si osserva che l’indeterminatezza intrinseca al concetto stesso accompagna delle deformazioni comunicative operate dai mezzi d’informazione che rendono questa problematica notevolmente intricata.

Diverse costanti iconografiche contraddistinguono sia la cultura del ‘canceling’ sia i linciaggi virtuali odierni. Un elemento centrale risulta essere quella che potremmo definire la ‘presunzione di colpevolezza’: qui l’accusa si trasforma in prova indiscutibile; vi è quindi poco spazio per verificare dati concreti ed emerge così un certo grado d’abstrusione negativa nel discorso critico stesso. Da un piano meramente giudicativo sulle azioni individuali si trascende rapidamente verso l’attacco all’personaleentità personale, configurandosi dunque uno spiccato argomentum ad hominem nel panorama dei social network contemporanei. Di rilevanza pari importanza sono poi elementi come lo pseudo-moralismo accompagnato da pretese intellectualiste: tali motivazioni frequentemente nascondono emozioni tossiche quali rancore o avversione piuttosto che autentici ideali volti alla riforma sociale giusta; infine emerge anche il tropo dell’ipocrisia, chiaramente ravvisabile nei giudizi ancor più brutali rispetto ai contenuti controversi attaccati nella sfera pubblica online. Infine, la mancanza di perdono: le scuse vengono quasi sempre giudicate insincere e opportunistiche, e l’associazione con la persona “cancellata” comporta il rischio di essere a propria volta ostracizzati.

Questi meccanismi si ricollegano a concetti psicologici fondamentali. L’effetto bandwagon spinge le persone a conformarsi all’opinione dominante del gruppo; la polarizzazione di gruppo porta a posizioni più estreme all’interno di una discussione online; il bias di conferma induce a ricercare informazioni che confermino le proprie convinzioni preesistenti, ignorando quelle contrarie. L’anonimato e la deindividuazione, facilitati dall’ambiente online, riducono il senso di responsabilità individuale, rendendo più facile partecipare a comportamenti offensivi. La diffusione di responsabilità, tipica delle situazioni di folla, aggrava ulteriormente questo fenomeno, diluendo il senso di colpa tra i partecipanti.

Gli effetti psicologici della cultura della cancellazione: tra paura e auto-sabotaggio

Le conseguenze psicologiche legate alla cancel culture si rivelano essere tanto profonde quanto dannose. Si determina un atmosfera opprimente, che dissuade da qualsiasi forma d’espressione autentica o dal confronto diretto tra idee. Gli individui tendono ad astenersi dall’esporre punti di vista controversi o ad avventurarsi in conversazioni genuine, temendo possibili attacchi o isolamento sociale. Tale dinamica conduce alla soffocatura della varietà intellettuale; una condizione necessaria all’espansione del pensiero individuale così come collettivo risulta gravemente compromessa.

Il fenomeno della cancellazione ha implicazioni peculiari sul piano psicologico; esso si manifesta nel rito dell’auto-sabotaggio. La paura delle conseguenze future induce le persone a limitare proattivamente il proprio diritto all’esposizione delle proprie idee ed emozioni, reprimendo silenziosamente convinzioni personali fondamentali. Questo comportamento non solo impoverisce le interazioni pubbliche, ma frena altresì l’evoluzione cognitiva degli individui; John Stuart Mill afferma chiaramente che “la soppressione di un’opinione”, indipendentemente dalla sua veridicità, «priva l’umanità dell’opportunità» fondamentale per elaborare tali argomenti ed arricchire quindi la propria comprensione della realtà stessa. Le conseguenze sulla salute mentale delle vittime di cancel culture possono essere gravi. L’ostracismo e le critiche feroci sui social network possono condurre a stati di ansia, depressione e isolamento sociale. Nei casi più estremi, la pressione mediatica e le ripercussioni professionali possono avere un impatto devastante, arrivando a influenzare anche l’ideazione suicidaria. Personaggi famosi e politici sono maggiormente esposti, ma ormai chiunque può diventare oggetto di critiche e ostracismo online.

Nota Importante: La cancel culture raramente ammette ironia e battute, svuotando l’umorismo della sua connotazione comica e trasformandolo in qualcosa di offensivo.

Il fenomeno odierno dell’online shaming, pur avendo radici storiche nelle pratiche di umiliazione pubblica, assume connotazioni specifiche nell’era digitale. Internet consente di distruggere la reputazione di una persona semplicemente condividendo un contenuto estrapolato dal contesto. La velocità del “pensiero veloce” online, la verifica superficiale dei fatti e la fruizione di notizie brevi contribuiscono a formare giudizi affrettati. Inoltre, l’interazione dietro uno schermo riduce l’empatia, appanna i neuroni specchio e permette di giudicare persone sconosciute, sfogando frustrazioni represse. I meccanismi dell’online shaming non si limitano all’obiettivo dichiarato di appianare le ingiustizie, ma spesso nascondono motivazioni più complesse e meno nobili.

Oltre la “cultura dell’oltraggio”: verso un dibattito costruttivo

Esiste una profonda ambiguità nel dibattito sulla cancel culture che rende difficile una presa di posizione immediata. Da un lato, se l’opinione soppressa è vera, l’umanità perde l’opportunità di scambiare l’errore con la verità. Se è falsa, perde una percezione più chiara della verità. Se l’opinione ricevuta e quella soppressa condividono la verità, l’opinione di minoranza è necessaria per completare il quadro. D’altro canto, appellarsi alla libertà di parola per impedire alle critiche di sortire effetto può essere un escamotage per evitare di assumersi responsabilità. Trovare un equilibrio tra il diritto alla libertà di parola e la richiesta di responsabilità per le proprie azioni è fondamentale. Il problema della cancel culture, nella sua forma più estrema, è la mancanza di gradazione: tutti i passi falsi sembrano avere la stessa severità di punizione.

Note Sull’Attualità: Nonostante le criticità, esistono problematiche sociali profonde, quali sessismo, razzismo strutturale, patriarcato, omofobia e transfobia, che necessitano di soluzioni anche extra-istituzionali e straordinarie.

La “cultura dell’oltraggio” può giocare un ruolo in questo senso, come dimostrato dai movimenti come Me Too e Black Lives Matter, che hanno portato a galla crimini e problematiche altrimenti ignorati. Tuttavia, quando questi mezzi straordinari diventano parte dei meccanismi di funzionamento ordinario della società, rischiano di perdere la loro carica sovversiva e svuotarsi della loro vera natura. Si assiste a una progressiva estremizzazione dei fenomeni, alimentata anche dalla rappresentazione distorta operata dai media, che rincorrono le notizie sensazionalistiche e creano una percezione errata dei fatti, soprattutto nel contesto italiano.

Il dibattito sulla cancel culture in Italia, spesso semplificato e limtato, non tiene conto delle specificità storico-culturali e dei codici delle subculture digitali da cui il fenomeno ha avuto origine. Si assiste a un problema di traduzione e decontestualizzazione delle informazioni, ulteriormente complicato da un modello economico informativo improntato al sensazionalismo. La “cancel culture” diventa così etichetta per iniziative potenzialmente scandalose, che generano engagement sui social e vengono percepite come tali perché collocate in un conflitto socio-culturale più ampio, un conflitto tra codici semiotici diversi, una reazione indignata a proposte di senso percepite come estranee o minacciose.

Le funzioni della cancel culture e il panorama italiano

Chiunque avvii una ricerca online sull’«eccessività della cancel culture» si imbatte in una moltitudine di scritti, articoli e commenti che giungono a un esito quasi uniforme: la folla online di auto-nominati giudici appare priva di controllo e costantemente alla ricerca di nuovi bersagli. Si sostiene che la libera espressione non esista più.

È necessario rivedere le impostazioni di visibilità relative ai contenuti precedentemente condivisi sui social network.

È prudente assumente un atteggiamento riservato e selezionare con estrema cautela le proprie parole.

Seppur ciò possa apparire eccessivo, specie negli Stati Uniti, una larghissima porzione della popolazione percepisce un notevole restringimento dello spazio di libertà di parola, e numerosi osservatori imputano tale riduzione a una “cultura della cancellazione” (nota appunto come cancel culture), vista come espressione di un rinnovato moralismo progressista.

Tale espressione viene usata per descrivere un’ampia gamma di eventi: partendo dalla risoluzione di un rapporto di lavoro nei confronti di un individuo che ha espresso liberamente opinioni non convenzionali, passando per la sospensione della distribuzione di un’opera letteraria, fino ad includere petizioni volte alla revoca delle cattedre universitarie e, ultimamente, iniziative mirate a sanzionare culturalmente la Federazione Russa.

Indipendentemente dal fatto che si tratti di azioni di “giustizieri” su Twitter, di vere e proprie “shitstorms”, o persino di intimidazioni e minacce, il numero di episodi che i media e parte dell’opinione pubblica ascrivono alla “cancel culture” è in costante crescita.

La cultura della responsabilità si impone, trasformando l’idea per cui alcune parole o atti possano portare a conseguenze sociali e professionali. Tuttavia, questa dualità tra cancel culture e culture della responsabilità crea confusione nel dibattito pubblico. Nei contesti accademici e aziendali, la tentazione di cancellare o tacitare le voci contrari alla dottrina prevalente diventa sempre più forte. L’idea che gli individui possano essere puniti per le loro opinioni può diventare un’arma a doppio taglio, limitando la libertà di esplorazione e il dialogo.

Alcuni autori, come Piacenza, sottolineano la necessità di rivalutare il dibattito sulla cancel culture, evidenziando come non si tratti di un fenomeno esclusivo di destra o di sinistra, ma piuttosto un sintomo di una società sempre più divisa.

Analisi in corso: la visione multidimensionale

La cancel culture in Italia, pur avendo preso piede con l’emergere dei movimenti sociali, si presenta con caratteristiche proprie, influenzate dalla cultura popolare e dalle dinamiche politiche locali. In questo contesto, il termine è spesso usato in modo approssimativo, mescolando casi di censura vera e propria con tensioni politiche e reazioni esagerate a critiche legittime.

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Gli eventi recenti, tra cui l’abbattimento di statue e la rimozione di opere d’arte, evidenziano la complessità della cancel culture, dove le pretese di giustizia vengono confuse con le richieste di conformità ideologica.

Nonostante il dibattito sia polarizzato, è evidente che le istituzioni e le aziende devono affrontare la pressione di un pubblico sempre più impegnato e informato, costringendole a bilanciare la libertà di espressione con la responsabilità sociale. Tuttavia, è fondamentale non cadere nella trappola dell’eccesso, dove il tentativo di proteggere le sensibilità porta alla censura di idee e opere di valore. La promozione di un confronto diretto e onesto si rivela pertanto fondamentale; essa deve favorire l’interazione tra punti di vista disparati, priva della preoccupazione per eventuali ripercussioni. La vera essenza delle difficoltà risiede nel sostenere la libertà di espressione, nel combattere contro la censura e nell’edificare una comunità in cui ogni singolo parere sia valorizzato.

Conclusioni e riflessioni finali

Alla luce di questa complessità, è importante stimolare una riflessione personale. Che ruolo giochiamo noi, come individui, in questi meccanismi? Quante volte abbiamo partecipato, magari inconsapevolmente, a un “linciaggio social”, navigando l’onda dell’indignazione collettiva? È un comportamento quasi naturale nell’ambiente digitale, in cui ancora stiamo imparando a muoversi.

Siamo un po’ come adolescenti alle prime sbornie della comunicazione online. La prossima volta che ci troviamo di fronte a una situazione simile, prima di “chiamare in causa” qualcuno pubblicamente, fermiamoci e chiediamoci: sono davvero informato su quello che sta accadendo? Forse, un messaggio privato sarebbe più appropriato. E, soprattutto, ricordiamoci di quella volta in cui noi stessi abbiamo commesso un errore, magari una sciocchezza abominevole, e qualcuno ci ha fatto ragionare con empatia, senza coprirci di vergogna in pubblico.

Ricordare la nostra stessa fallibilità e le lezioni apprese attraverso la comprensione e il perdono, non l’umiliazione, è forse la strategia più efficace contro l’intolleranza e l’ipocrisia del linciaggio online e della cancel culture. Sostanzialmente, ciò che emerge dalla psicologia cognitiva è il ruolo cruciale degli schemi mentali nel modellare la nostra percezione del mondo. Questi schemi tendono a condizionarci, facendoci filtrare informazioni attraverso il prisma delle nostre convinzioni già consolidate. Parallelamente, l’empatia, concetto cardine nella psicologia sociale contemporanea, consente all’individuo di immedesimarsi nell’altro: si tratta di un’opportunità per approfondire la comprensione delle emozioni e motivazioni altrui. Questo processo va oltre il giudizio superficiale ed incentiva interazioni caratterizzate da una maggiore umanità e produttività nel dialogo.


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