Impatto ambientale del fast fashion, cosa puoi fare per ridurlo

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  • Circa l'80% delle persone esposte a contenuti violenti segnala sintomi di ansia o depressione.
  • Il 25% degli adulti riferisce ansia legata all'esposizione mediatica a contenuti violenti.
  • Il 35% delle persone riporta stress emotivo permanente per l'esposizione continua a immagini violente.

Nel vortice incessante delle informazioni digitali, l’esposizione a notizie di violenza è diventata una presenza quasi costante nelle vite quotidiane. Dalle tensioni internazionali, come quelle riportate relative al conflitto tra la Striscia di Gaza e Israele (con accenni a tre giorni di “pesanti violenze”, come citato in un contesto di cessate il fuoco nel 2022), alle dinamiche sociali complesse, come la violenza digitale tra adolescenti o l’impatto della musica trap sul linguaggio giovanile (temi emersi circa 5-6 mesi fa), senza dimenticare le tragiche vicende di cronaca nera (come le “presunte violenze sessuali sui minori” menzionate quasi due anni fa), il flusso mediatico porta nelle nostre case e sui nostri schermi scenari di sofferenza. Questo panorama, sebbene necessario per la consapevolezza, solleva interrogativi cruciali sul suo profondo impatto psicologico sugli individui esposti, toccando corde emotive e cognitive talvolta mute e inaspettate.

La natura invasiva delle notizie, specialmente quando arricchita da immagini esplicite, agisce come un potente catalizzatore. Il tema in questione si riferisce a un effetto indubbiamente negativo sulla salute mentale, in grado di suscitare stati d’ansia, stress e paura nel soggetto. Le analisi condotte indicano chiaramente che una prolungata esposizione ai media con contenuti violenti può comportare risultati psicologici avversi: ben l’80% delle persone sottoposte a tali stimoli segnala la comparsa di sintomi associabili ad ansia o depressione come risultato immediato della loro costante fruizione di narrazioni tragiche. [State of Mind]

Questo meccanismo, evidenziato quasi due anni fa in relazione alle immagini violente sugli schermi, trova eco nei riscontri dell’impatto della pandemia di COVID-19 sulla salute mentale, un evento di crisi globale che, a distanza di oltre 52 mesi, ha dimostrato quanto la dimensione psicologica sia vulnerabile di fronte a minacce percepite. L’assiduità nella riproposizione degli stimoli e la loro pervasività all’interno delle diverse piattaforme informative sono fattori che creano una certa tensione latente; tale condizione emotiva può infiltrarsi anche nell’animo di coloro che non sono direttamente coinvolti nelle vicende esaminate.

L’analisi approfondita dell’esposizione continuativa alla violenza psicologica domestica sui bambini – già discussa circa otto anni fa – mette a fuoco le vulnerabilità insite nei più piccoli e i tratti durevoli della sofferenza provocata. Le indagini dimostrano come questa tipologia d’abuso possa manifestarsi in modi subdoli ma possedere conseguenze potenzialmente devastanti, compromettere lo sviluppo psico-emotivo dei minori ed alterare profondamente le loro relazioni sociali. Secondo quanto emerso da uno studio realizzato nel Regno Unito, risulta che il verificarsi della violenza domestica in età adulta faccia lievitare significativamente il rischio depressivo tra gli individui impegnati a fronteggiare esperienze traumatiche sin dalla giovane età. [Angelini Industries]

Analogamente, la guerra in zone di conflitto, come Gaza, ha un impatto diretto e drammatico sulla salute mentale dei bambini, tormentati da incubi e ansia a distanza di dodici mesi, come emerso da una recente analisi. Questi esempi, sebbene distinti per contesto e forma, convergono nel sottolineare la necessità di una riflessione approfondita sui meccanismi attraverso cui la violenza, veicolata dai media, si insinua nella nostra interiorità, lasciando tracce che meritano attenzione e comprensione.

Statistiche recenti:
  • Il 25% degli adulti ha riferito sintomi di ansia legati all’esposizione mediatica a contenuti violenti.
  • Tra i giovani, il 30% ha riportato un incremento della paura e della depressione a seguito di ripetuti eventi violenti mostrati nei media.

La questione dell’impatto psicologico dell’esposizione a notizie di violenza si inserisce pienamente nel dibattito contemporaneo su psicologia cognitiva, psicologia comportamentale e salute mentale. Comprendere come i nostri processi interni elaborino queste informazioni è fondamentale per sviluppare strategie di difesa e promuovere un benessere psicologico resiliente in un mondo sempre più interconnesso e sottoposto a stimoli negativi.

Navigare nel labirinto cognitivo: attenzione selettiva e bias di negatività

Nell’analizzare come le notizie riguardanti la violenza possano alterare il nostro stato d’animo, emerge l’importanza di esplorare i sottostanti meccanismi cognitivi. Due aspetti fondamentali in questo ambito includono l’attenzione selettiva, che si riferisce alla predisposizione ad affrontare specifiche tipologie d’informazioni mentre si trascurano altre voci presenti nell’ambiente circostante; ed il bias di negatività, che influisce profondamente sulla nostra capacità interpretativa dei fatti significativi che emergono costantemente nella società. Questi meccanismi operano sinergicamente per indirizzare i nostri focus cognitivi verso contenuti spesso traumatici e disturbanti.

L’attenzione selettiva può essere descritta come una sorta di filtro cognitivo: essa non fa altro che dirigere la nostra concentrazione esclusivamente verso certe informazioni ritenute prioritarie. Ciononostante, tale processo risulta accentuato quando gli argomenti trattati rivestono particolare importanza emotiva nei nostri vissuti attuali.

Nel panorama attuale delle notizie legate alla violenza, siamo inclini ad accentrarci su fattori che riteniamo possano rappresentare una minaccia, ovvero quelli capaci di suscitare emozioni intense. Questo comportamento riflette un antico meccanismo adattativo finalizzato al riconoscimento dei pericoli potenziali e alla mobilitazione delle nostre risorse in vista della sopravvivenza. Ciononostante, nella società contemporanea caratterizzata dall’informazione globale prevalente, quest’inclinazione può manifestarsi come “disfunzionale”, portandoci ad accentuare l’attenzione su contenuti nocivi mentre trascuriamo prospettive più armoniche sulla realtà.

A fianco dell’attenzione selettiva emerge anche il fenomeno noto come “bias di negatività”. Questa espressione si riferisce alla “tendenza” che ci conduce verso una predisposizione maggiore nel porre l’accento sulle informazioni dannose piuttosto che su quelle positive; vale a dire, ciò costituisce uno stravolgimento cognitivo intrinsecamente ancorato in distorsioni mnemoniche e inclinazioni pregresse. Dunque assistiamo al fatto che tendiamo ad attribuire valore esagerato ai racconti riguardanti episodi tragici. Quando fronteggiamo trasmissioni giornalistiche composte da avvenimenti sia favorevoli che sfavorevoli, emergerebbe allora “una propensione” a lasciare impressa nella nostra mente principalmente quella narrativa negativa.

Questo non significa che ignoriamo completamente le notizie positive, ma che la loro capacità di generare una reazione emotiva duratura è significativamente inferiore rispetto a quelle negative.

La combinazione di attenzione selettiva e bias di negatività crea un circolo vizioso potenzialmente dannoso. L’attenzione viene attratta da stimoli negativi (attenzione selettiva), e questi stimoli vengono elaborati con un peso emotivo maggiore (bias di negatività). Questo processo si autoalimenta: maggiore è l’esposizione a notizie violente, maggiore sarà la nostra tendenza a cercarle (sotto l’errata convinzione di voler “controllare” la situazione) e a essere influenzati da esse, potenziando il bias di negatività e rendendo l’attenzione selettiva sempre più orientata verso contenuti traumatici. È un meccanismo che si basa su scorciatoie mentali (euristiche) utilizzate dal cervello per risparmiare energia, ma che possono trasformarsi in trappole mentali, portando a una percezione distorta della realtà e a un aumento del disagio psicologico, come sottolineato in vari studi sui bias cognitivi.

La psicologa Antonella Somma sottolinea l’importanza di essere consapevoli di questi effetti negativi sull’equilibrio psicologico e suggerisce strategie per affrontarli. Affermando che ognuno di noi deve imparare ad avere un controllo critico su ciò che consuma mediaticamente, promuove una presa di coscienza riguardo ai contenuti violenti e alla loro influenza sulle emozioni e il comportamento.

Strumenti e strategie per la consapevolezza:
  • Praticare la limitazione dell’esposizione a notizie negative.
  • Cercare supporto attraverso la condivisione delle emozioni con amici o professionisti.
  • Utilizzare tecniche di rilassamento per gestire lo stress.

Cosa ne pensi?
  • Questo articolo è un'analisi preziosa per capire come la violenza mediatica ci influenza... 👍...
  • Sono stufo di leggere sempre le stesse cose sulla violenza, sembra che non ci siano mai soluzioni... 😠...
  • E se vi dicessi che l'esposizione alla violenza mediatica potrebbe paradossalmente renderci più empatici?... 🤔...

Ondate emotive: ansia, stress e l’impatto sulla salute mentale

L’incessante esposizione a notizie di violenza, filtrata dai meccanismi di attenzione selettiva e bias di negatività, si traduce in un reale e misurabile impatto sulla salute mentale degli individui. Le “ondate emotive” scatenate da questi stimoli possono manifestarsi in una varietà di sintomi, con l’ansia e lo stress che emergono come reazioni tra le più comuni e debilitanti. La ricerca ha evidenziato che guardare troppe immagini violente, un’abitudine amplificata dalla proliferazione degli schermi e delle piattaforme digitali, danneggia la salute, provocando reazioni fisiologiche e psicologiche avverse.

Già alcuni anni fa, l’analisi sull’impatto della pandemia di COVID-19 aveva sottolineato quanto gli eventi di crisi potessero rappresentare una minaccia significativa per il benessere emotivo. In quel contesto, il 16-18% dei partecipanti agli studi presentava sintomi di ansia e depressione, con una vulnerabilità maggiore per donne, giovani e chi già soffriva di disturbi del sonno o aveva uno stato di salute precario. Sebbene un’infezione virale non rientri formalmente nei “traumi” che portano a una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico, le conseguenze psicologiche, come disturbi depressivi e disturbi d’ansia, possono essere altrettanto invalidanti. L’esposizione alla violenza, pur non vissuta in prima persona, attiva meccanismi di allarme simili, specialmente quando le immagini sono vivide e ripetute.

L’impatto dell’esposizione a notizie di violenza si riverbera su diversi aspetti della vita quotidiana. È documentato un aumento del ciclo di tristezza, stanchezza e angoscia in coloro che leggono o ascoltano quotidianamente cattive notizie. Questa “dieta” mediatica sbilanciata può contribuire a creare un clima interiore di pessimismo e vulnerabilità. Un recente studio indica che circa il 35% delle persone riferisce una situazione di stress emotivo permanente come diretto risultato della esposizione continua a immagini di violenza. [Thesis UniPD]

Nei bambini, in particolare, l’esposizione a contenuti TV violenti in età prescolare può sviluppare ansia e problemi psicologici in seguito, a causa del meccanismo di identificazione con le scene e i personaggi. Questi effetti nocivi sono stati evidenziati in studi che risalgono ad alcuni anni fa, sottolineando la necessità di proteggere i più piccoli da stimoli che la loro mente ancora in formazione non è attrezzata per elaborare adeguatamente.

Le conseguenze dell’ansia e dello stress indotti dall’esposizione mediatica alla violenza non si limitano alla sfera emotiva. Possono manifestarsi anche a livello fisiologico, con aumento del battito cardiaco, sudorazione e difficoltà di respirazione. A lungo andare, questa attivazione può diventare cronica, creando un circolo vizioso difficile da spezzare. Inoltre, l’esposizione abituale a contenuti sanguinosi può portare a una certa desensibilizzazione, riducendo la risposta emotiva e, in alcuni casi, la compassione nei confronti delle vittime. È un processo insidioso, che può alterare la nostra percezione della norma e la nostra capacità di rispondere empaticamente al dolore altrui.

È pertanto cruciale riconoscere i “campanelli d’allarme”: pensieri intrusivi legati alle immagini viste, ricordi vividi diurni (flashback) e notturni (incubi) che evidenziano la difficoltà di mantenere la giusta distanza tra la realtà filtrata dai media e la vita personale. È fondamentale non trascurare tali manifestazioni, in quanto rivelano come l’impatto emotivo possa oltrepassare le possibilità di elaborazione e controllo da parte dell’individuo. Riconoscere questi effetti avversi rappresenta un passaggio cruciale per intraprendere lo sviluppo di strategie idonee alla protezione, favorendo così una relazione più equilibrata e consapevole con i flussi informativi.

Strategie di coping: costruire resilienza nel flusso informativo

Di fronte all’impatto emotivo e cognitivo dell’esposizione a notizie di violenza, sviluppare strategie di coping efficaci diventa un elemento cruciale per proteggere la propria salute mentale e costruire resilienza. Il coping, definito come gli sforzi cognitivi e comportamentali compiuti per padroneggiare, tollerare o ridurre le richieste e i conflitti interni ed esterni, rappresenta l’insieme delle risorse che mettiamo in atto per fronteggiare le difficoltà. In un mondo iperconnesso, dove il flusso informativo è incessante e spesso saturo di contenuti negativi, la capacità di “fronteggiare” diventa sinonimo di navigazione consapevole.

Le strategie di coping sono molteplici e possono essere classificate in diverse categorie, sebbene non esista una tassonomia universale. Tra i tipi più studiati vi sono il coping orientato alle emozioni (volto a regolare l’emotività negativa, ad esempio cercando supporto socio-emotivo) e il coping orientato all’evitamento (che ricorre a strategie per svincolarsi dalle situazioni stressanti, come la distrazione). È importante sottolineare che non esiste una strategia universalmente “migliore”; la sua efficacia dipende dal contesto, dalle caratteristiche individuali e dalla flessibilità con cui viene applicata.

Quando si tratta di affrontare l’impatto dell’esposizione a notizie di violenza, alcune strategie di coping si rivelano particolarmente utili. Una delle più semplici e immediate è la limitazione controllata dell’esposizione. Questo non significa ignorare la realtà, ma piuttosto scegliere attentamente le fonti di informazione e limitare il tempo dedicato alla fruizione di notizie potenzialmente traumatiche. Optare per l’ascolto della radio anziché la visione di immagini cruente, come suggerito in un articolo recente, può essere un modo efficace per mantenere una distanza critica e ridurre l’impatto emotivo. Rimanere sufficientemente informati, senza esagerare, è la chiave per capire la situazione senza esserne sopraffatti.

Un’altra strategia fondamentale è la ricerca di supporto sociale. Delineando il processo dell’interazione emotiva con amici e familiari oppure con esperti del settore della salute mentale emerge l’importanza del dialogo aperto riguardo alle nostre paure e sentimenti; questo scambio contribuisce notevolmente all’elaborazione del disagio e alla riduzione della sensazione di isolamento. Il sostegno cosiddetto socio-emotivo funziona come uno spazio protetto dove si possono esaminare reazioni emotive indotte da notizie legate alla violenza oltre che incentivare la ricerca di nuove interpretazioni.

Nell’ambito dell’affrontamento delle difficoltà quotidiane si pone la questione del problem solving programmato. Sebbene possa apparire irrilevante quando si affrontano situazioni globali al di fuori del nostro controllo diretto, esso riveste invece una certa rilevanza in ambito personale; è possibile implementarlo pianificando attività tese a limitare l’esposizione ai media o coltivando passioni volte al benessere psicologico. Non va trascurata nemmeno la strategia nota come rivalutazione positiva: questa invita alla riflessione costruttiva sugli eventi traendo opportunità dai drammatici accadimenti—un compito complesso soprattutto dinanzi ai tragici avvenimenti.

L’importanza risiede nel saper identificare i momenti in cui le tecniche adottate nel coping risultano sufficientemente efficaci!

Se l’ansia, lo stress o i pensieri intrusivi persistono e interferiscono con la vita quotidiana, potrebbe essere necessario l’aiuto di un terapeuta. Come sottolineato in un contesto di riflessione sull’impatto della pandemia di COVID-19, la psicoterapia si rivela un aiuto indispensabile per capire le radici della sofferenza e flessibilizzare o trovare nuove strategie di coping. L’obiettivo non è eliminare completamente i momenti difficili, ma imparare a indossare “più paia di scarpe” per affrontarli con maggiore resilienza.

Riflessioni: Questo percorso attraverso le strategie di coping evidenzia l’importanza di un approccio proattivo alla propria salute mentale nell’era dell’informazione digitale. Non siamo solo spettatori passivi di fronte al flusso mediatico; siamo navigatori che possono imparare a scegliere la rotta migliore per preservare il proprio benessere emotivo e cognitivo.

Dalla cronaca che ci raggiunge ogni giorno, a volte con la sua crudezza disarmante, emerge una nozione base fondamentale: la nostra mente non è una spugna indifferente, ma un sistema complesso che reagisce agli stimoli. Di fronte a notizie di violenza, non possiamo semplicemente “spegnere” il cervello. Il bias di negatività, ad esempio, ci spinge quasi naturalmente a dare più peso e attenzione agli eventi spiacevoli. È un retaggio evolutivo, sì, ma oggi, nell’era digitale, può diventare una sfida quotidiana per il nostro equilibrio interiore. Pensare di essere immuni agli effetti di questi stimoli è un’illusione che rischia di lasciarci impreparati. Accettare questa vulnerabilità non è una debolezza, ma il primo passo verso una gestione più consapevole della nostra vita emotiva nell’ecosistema mediatico contemporaneo.

Approfondendo, possiamo osservare come l’esposizione prolungata e intensa a contenuti negativi possa agire quasi come una forma di condizionamento avversivo su scala globale. Ogni notizia di violenza diventa uno stimolo che, ripetuto nel tempo, può rinforzare circuiti neurali legati alla paura e all’ansia, portando a una sorta di ipervigilanza generalizzata anche in assenza di pericoli immediati. Questo meccanismo, analogo a quello che si osserva in certi disturbi d’ansia, evidenzia come la nostra mente, nel tentativo di prevedere e prevenire minacce, possa finire per intrappolarsi in un loop di preoccupazione anticipatoria, alterando la nostra percezione del rischio e la nostra capacità di godere del presente. Riflettere su questa dinamica ci invita a interrogarci non solo su come scegliamo le nostre fonti, ma su come costruiamo il nostro “paesaggio mentale” quotidiano, riconoscendo il potere trasformativo – sia positivo che negativo – degli stimoli cui decidiamo di esporci.


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