- Tra il 2003 e il 2013, 241 militari italiani si sono suicidati.
- Nel 2013, l'Italia ha riconosciuto l'emergenza DPTS tra le truppe.
- Diagnosi di disturbi mentali tra i militari attivi sono aumentate del 40% dal 2019 al 2023.
- Nel 2023, l'8% delle degenze ospedaliere riguardava disturbi mentali.
- Nel 2003, Rocco Bozzo, reduce di Nassiriya, afferma: «I sintomi sono peggiorati col tempo».
Dal periodo compreso fra il 2003 e il 2013 emergono dati allarmanti: complessivamente 241 uomini delle forze armate italiane hanno deciso di porre fine alla loro esistenza. Pur essendo questa cifra significativamente meno grave dei 349 suicidi documentati nello stesso anno tra le forze armate statunitensi del 2012, non deve in alcun modo sminuire l’urgenza con cui affrontare questo tema. Questi tragici episodi accadono frequentemente nell’ombra del silenzio sociale e istituzionale; infatti esiste una palese difficoltà a svolgere indagini complete. Si ricorda, ad esempio, il caso drammatico di un soldato che si suicida impiccandosi nella sua abitazione a novembre del ’15; poco prima avevamo già assistito al suicidio di un caporale maggiore reduci dalle operazioni in Kosovo e nei conflitti iracheni e libanesi avvenuto lo scorso marzo dello stesso anno. Azioni prive d’evidenti spiegazioni generano domande inquietanti riguardo alla stabilità psicologica degli individui in uniforme.
Il punto cruciale della situazione viene toccato nel lontano 2013, quando, grazie a un’interrogazione parlamentare, il governo italiano ha <a class="crl" href="https://www.respira.re/medicina-correlata-alla-salute-mentale/ingiustizia-invisibile-il-dolore-neuropatico-post-traumatico-e-la-sua-lotta-per-il-riconoscimento/”>dovuto riconoscere l’emergenza legata al disturbo post-traumatico da stress (DPTS), divenuto sempre più diffuso tra le file delle sue truppe. Il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS), come specificato dall’Associazione Italiana di Psicologia Cognitiva, emerge successivamente a eventi traumatici estremamente gravosi. Questi possono comprendere esperienze vicine alla morte, minacce mortali o danni seri alla propria integrità fisica oppure a quella degli altri. Questa condizione psicologica è ben nota nel contesto delle forze armate mondiali; un esempio emblematico è la sindrome del Vietnam, che ha coinvolto milioni di veterani statunitensi portandoli verso percorsi osceni quali violenza, tossicodipendenza e persino suicidi. I recentissimi rapporti forniti dal PTSD National Center indicano che l’incidenza annuale oscillerebbe tra l’11% ed il 20% nei reduci americani delle operazioni OIF in Iraq ed OEF in Afghanistan. Spostandoci verso nord nella nazione canadese nel lontano anno 2013, ci troviamo davanti ad una stima del 5%, valore destinato ad incremento fino all’11% nell’intera carriera militare dei soldati canadesi stessi. Le statistiche europee offrono numerazioni più basse ma sempre impressionanti: per esempio, in Francia circa 550 soldati vennero diagnosticati con DPTS lo stesso anno citato precedentemente; diversamente, in Germania furono segnalati complessivamente 431 casi. Non mancano tuttavia differenze significative tra le nazioni: Norvegia e Danimarca presentano valori percentuali del 5%.
L’Italia, tuttavia, si distingue per statistiche sorprendentemente basse. Fino al 2013, il DPTS sembrava quasi inesistente nel corpo militare italiano. L’interrogazione parlamentare ha rivelato solo 32 casi in sette anni, distribuiti tra il 2007 e il 2012, rilevati dall’Osservatorio Epidemiologico della Difesa e dai ricoveri presso il Policlinico del Celio. Una discrepanza notevole rispetto agli altri Paesi, che le autorità hanno tentato di spiegare con una migliore selezione del personale e un minor carico operativo. Tuttavia, questi dati minimalisti sollevano molti dubbi.
Difficoltà nel riconoscimento del trauma: analisi critica e racconti da chi ha vissuto l’esperienza
Un tema cruciale nella discussione contemporanea riguardo al trauma riguarda non soltanto la sua definizione ma anche gli ostacoli alla sua identificazione. Una rigorosa indagine mira a chiarire come fattori culturali e soggettivi possano influenzare la percezione del dolore emotivo, oltre a evidenziare le storie personali di individui profondamente colpiti. Queste narrazioni dirette rivelano, con incredibile intensità, il complesso panorama delle difficoltà incontrate. Nel 2013, Amelia Alborghetti, psicoterapeuta con esperienza alla Palo Alto Psychology School, ha tentato di svolgere una ricerca indipendente sul PTSD, concentrandosi su 25 militari italiani di ritorno dalla missione in Afghanistan. La sua esperienza, tuttavia, è stata segnata da un “muro” alzato dalle autorità militari, che hanno cercato di ostacolarla e di appropriarsi del suo lavoro. Nonostante le difficoltà, grazie al supporto di un generale, Alborghetti è riuscita a condurre il suo studio utilizzando il CAPS (Clinician-Administered PTSD Scale), uno strumento di colloquio clinico guidato specificamente adattato alla lingua italiana per la valutazione del DPTS.
I risultati sono stati sconcertanti: tutti i 25 soggetti esaminati sono risultati affetti da DPTS, con un valore medio considerato grave. A differenza di quanto osservato negli Stati Uniti, dove il disturbo si manifesta spesso con depressione e aggressività esterna, nei militari italiani si è palesata una forte autoaggressività. Tra le manifestazioni più manifeste si annoverano una marcata chiusura sociale, un processo critico di autosvalutazione, una tangibile diminuzione dell’autostima e forti episodi di difficoltà emotive interne (rabbia contro sé stessi). Alborghetti ha rilevato come i soggetti coinvolti ammettessero internamente le proprie problematiche soltanto durante gli incontri riservati; ciò si accompagnava spesso ad attacchi d’ansia irrefrenabili e scatti improvvisi di pianto. L’intervento della figura del maresciallo o l’essere consapevoli che tali dichiarazioni sarebbero potute pervenire alle autorità superiori contribuiva a limitare un approccio onesto sul disturbo esperito. Tale esitazione è ulteriormente esacerbata dal comportamento delle istituzioni nazionali stesse: queste tendono a sminuire il fenomeno in questione, complicando enormemente ogni tentativo d’intervento adeguato.
In questo contesto si distingue vividamente la narrazione condivisa da Rocco Bozzo, reduce dell’attentato avvenuto a Nassiriya nel 2003. A lui – così come a un insieme considerevole dei suoi compagni superstiti – fu conferita una diagnosi clinica relativa al DPTS. Bozzo riporta quanto sia comune tra i suoi colleghi rimanere silenziosi riguardo ai propri malesseri psichici per il timore crescente della perdita dell’impiego: infatti, ricevere una simile etichettatura diagnostica può portare alla disqualificazione nell’impiego legittimo delle armi da fuoco, determinando così anche l’impossibilità continuativa nel servizio stesso. Secondo quanto riportato da Bozzo, l’insorgere dei sintomi non è avvenuto in maniera immediata; al contrario, essi si sono intensificati progressivamente con il passare del tempo. Questa evoluzione ha avuto ripercussioni significative sul suo legame familiare: risvegli bruschi durante la notte, una spiccata irritabilità e una reattività accentuata verso determinati odori lo hanno condotto a un’esigenza sempre più urgente di isolamento o all’interazione limitata solo ai colleghi.
È fondamentale notare come il sostegno psicologico sia arrivato soltanto dopo due mesi dall’attentato, evidenziando una discrepanza notevole rispetto alle normative esistenti che richiedono interventi solleciti nelle prime 24-48 ore successive ad eventi traumatici. La critica mossa da Bozzo nei confronti dello Stato e delle istituzioni della sanità militare sottolinea come vi sia stata un’intenzione evidente di minimizzare la sindrome; sembra quasi insinuarsi l’idea secondo cui tutti i membri dell’esercito italiano debbano apparire perfetti dal punto di vista mentale e fisico.
Di fronte a tale assenza evidente nell’assistenza statale formale vi è stata una reazione spontanea da parte degli individui colpiti. In particolare, Bozzo, insieme ai suoi commilitoni, ha scelto percorsi terapeutici autonomi presso il Centro Igiene Mentale situato a Finale Ligure, dove è stato inaugurato uno spazio specialistico dedicato all’assistenza riguardante traumi specifici. Come chiarisce Sabrina Bonino, psicologa del centro, sradicare completamente il DPTS non risulta possibile; invece, attraverso lunghe fasi riabilitative, le persone imparano ad affrontarne gli effetti nella loro vita quotidiana. Nell’ambito del supporto ai militari, si è implementata l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), una metodologia psicoterapeutica all’avanguardia che utilizza la stimolazione bilaterale al fine di facilitare la rielaborazione delle esperienze traumatiche.
- È confortante vedere che il Ministero della Difesa... 👏...
- I dati italiani sottostimati? 🤔 Forse lo stigma è il vero problema......
- Missioni di pace che sono guerre a tutti gli effetti... 💔 L'ipocrisia dietro il DPTS......
Le barriere invisibili alla cura: stigma e timore per la carriera
L’evidente discrepanza tra i dati italiani rispetto alle statistiche provenienti da altre nazioni europee pone un interrogativo fondamentale. Secondo quanto sostiene Daniele Moretti, direttore del CIM di Finale Ligure, vi sarebbe un’uniformità nella distribuzione delle malattie psichiatriche attraverso il continente europeo; perciò questa disparità italiana potrebbe essere ascrivibile a un problema di rilevamento. Tale tesi viene contrapposta ad esempi positivi come quello rappresentato dai Paesi Bassi: qui nel 2000 si è dato vita al Netherlands Veterans Institute a Doorn. Tale struttura nasceva per rispondere ai molteplici episodi di DPTS verificatisi dopo le missioni libanesi degli anni ’80 nonché durante l’operazione su Srebrenica; il suo obiettivo primario consiste nella raccolta dati insieme alla promozione dell’indagine scientifica riguardante la salute mentale dei veterani. La dottoressa Stefania Scagliola, specialista nella storia militare olandese, presente all’interno dell’istituto stesso, enfatizza come l’insufficiente preparazione iniziale combinata con criteri selettivi meno severi abbia avuto un ruolo significativo nell’emergere del disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Nonostante il suo statuto autonomo, questo centro riceve fondi dal Ministero della Difesa ed eroga servizi sia sociali sia medici ai suoi assistiti. Scagliola ha tentato di replicare un modello simile in Italia, ma ha incontrato scarsa disponibilità a collaborare da parte delle autorità.
Ma perché il trauma psicologico, e in particolare il DPTS, rimane un tabù nelle forze armate italiane? Le risposte si intrecciano con questioni più profonde. Amelia Alborghetti evidenzia un’ipocrisia di fondo: si definiscono “missioni di pace” operazioni che, come testimoniano i 56 caduti italiani in Afghanistan, sono a tutti gli effetti belliche. L’Italia, a differenza di altri paesi, non riconosce il DPTS dal punto di vista del risarcimento, privilegiando solo le lesioni fisiche. Questo, secondo Alborghetti, alimenta l’incertezza e la reticenza ad ammettere i danni psicologici, poiché una tale ammissione implicherebbe riconoscere la partecipazione a una guerra, in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione italiana che ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Rocco Bozzo conferma questa interpretazione, suggerendo che riconoscere la sindrome equivalrebbe ad ammettere un coinvolgimento in “zona di guerra”, una verità scomoda per la Costituzione. A questo punto va enfatizzata la questione del pregiudizio relativo alla salute mentale, riscontrabile tra le fila delle forze armate. Nella realtà del 2023 si registrano quattro suicidi tra i membri della Marina e una significativa riduzione degli accessi agli sportelli dedicati al supporto psicologico gestiti dalla Commissione Medica Militare (CMO). I numeri parlano chiaro: si passa da 7.507 visite nel 2018 a soli 1.965 nel corrente anno; tuttavia, questa flessione non riflette necessariamente una diminuzione dei disturbi mentali presenti tra il personale militare, ma piuttosto rivela la difficoltà dei soldati nell’approcciare questi servizi. Il motivo di tale riluttanza è evidente: la CMO include medici incaricati anche della valutazione dell’idoneità psico-fisica degli individui; pertanto, un esito sfavorevole potrebbe comportare fermate lavorative indesiderate e persino perdite salariali o licenziamenti diretti. Tale situazione trasforma lo sportello di assistenza interna in uno spazio potenzialmente minaccioso per le aspirazioni professionali degli ufficiali coinvolti; come risultato finale, molti scelgono il silenzio piuttosto che esprimere il proprio malessere.
Si evidenzia ulteriormente questa problematica attraverso un corso avanzato tenuto presso il Raggruppamento Logistico Centrale dall’Ufficio Psicologia e Psichiatria Militare appartenente allo Stato Maggiore dell’Esercito. Rivolto agli psicologi militari di diverse Forze Armate, il corso mira a formare specialisti per la gestione psicologica degli eventi critici, supportando familiari e comandi. Nonostante l’importanza di tali iniziative, persino in un contesto apparentemente protetto come la Guardia Costiera si evidenziano delle criticità. Un tragico esempio è il suicidio nel 2023 di un capo componente delle telecomunicazioni, Giuseppe Conigliaro, a bordo del pattugliatore CP 940. Un collega ha testimoniato che Conigliaro era “disperato” e “minacciava il suicidio” a causa della pressione del compito di indagare sui reati legati all’attività migratoria irregolare. Nonostante i comandi fossero a conoscenza della sua situazione, un intervento tempestivo non è avvenuto. La Guardia Costiera, in risposta a un’inchiesta giornalistica, ha riferito di “visite mediche periodiche e occasionali” e del supporto del Cisom (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta), ma la mancanza di un sostegno continuativo e sistematico è evidente, poiché la richiesta di supporto psicologico dipende dalla discrezionalità dei comandi. L’assenza di un protocollo rigoroso e capillare espone il personale a conseguenze devastanti, specialmente in un contesto come quello del soccorso in mare, inherently critico. Testimonianze di militari, anche dopo il passaggio a ruoli civili, rivelano episodi di “atteggiamenti vessatori sistematici” e un personale medico militare che, ai loro occhi, spesso “fa solo un lavoro di conferma delle disposizioni dei capi”, sviare il disagio verso fattori esterni anziché riconoscerlo come legato al lavoro.
Percorsi di supporto e necessità di riforma
Il Ministero della Difesa riconosce la necessità di un cambiamento e ha annunciato che il servizio di supporto psicologico al personale militare sarà “completamente ripensato”. Questo segna un passo avanti, sebbene tardivo, verso la consapevolezza di una problematica a lungo sottovalutata. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, iniziative concrete includono l’utilizzo dello Stress Inoculation Training (SIT) per prevenire gli effetti negativi dello stress, come evidenziato dall’Arma dei Carabinieri. Queste tecniche mirano a fornire strumenti per gestire le reazioni psicologiche a eventi traumatici prima che si manifestino in forme disabilitanti.
Altre organizzazioni, come l’Associazione “L’Altra Metà della Divisa” e il Sindacato Italiano Autonomo Militare Organizzato (SIAMO Esercito), offrono supporto psicologico riservato e professionale ai militari, spesso aggirando le barriere istituzionali e il timore di ritorsioni sulla carriera. Questi canali esterni diventano fondamentali per chi non si sente al sicuro nel chiedere aiuto all’interno della propria struttura di appartenenza. L’esempio del Centro Igiene Mentale di Finale Ligure, che offre un ambulatorio specifico per i traumi legati al DPTS e utilizza l’EMDR, dimostra l’efficacia di approcci specializzati. Psichiatri e psicologi militari sono chiamati a svolgere un ruolo cruciale, non solo nel supporto post-crisi ma anche nella prevenzione, nella formazione e nel monitoraggio del benessere psicologico del personale.
Le Linee Guida sulla Psicologia dell’Emergenza della Polizia di Stato, ad esempio, sottolineano l’importanza di un intervento tempestivo di supporto psicologico per favorire l’elaborazione del trauma e prevenire la cronicizzazione del disagio. Tuttavia, emerge l’esigenza di un approccio più “sensibile e personalizzato”. Le esperienze di chi ha sofferto in silenzio, come Rocco Bozzo, o di chi ha lasciato la divisa per problemi di salute mentale, come Cinzia Conti della Marina Militare, dimostrano l’urgenza di un cambiamento radicale. La storia di Cinzia, che dopo un aborto e una difficile convalescenza ha subito un episodio di mobbing, culminato in un attacco di panico e isolamento da parte dei superiori, è emblematica delle difficoltà incontrate nel cercare aiuto e del prezzo emotivo pagato per il servizio.
Connettere anime e menti: comprendere il trauma per guarire
Nella complessità intrinseca dell’animo umano emerge il trauma quale eco persistente: esso costituisce un elemento temporale fissato nella memoria e distorce la nostra visione della realtà circostante. Attraverso i principi fondamentali della psicologia cognitiva, apprendiamo che i nostri processi di elaborazione informativa — anche nei riguardi delle esperienze più dolorose — influenzano profondamente le reazioni emozionali e i comportamenti adottati. L’impatto di eventi traumatici sulla psiche può portare a una frattura del ricordo stesso; ciò genera difficoltà nell’assimilare tale esperienza nel tessuto complessivo della propria esistenza. È come se determinati tasselli del mosaico personale restassero rovesciati sul tavolo: questa condizione limita fortemente la possibilità di cogliere il quadro d’insieme delle proprie vicissitudini vitali. In tale ottica si inserisce l’EMDR, chiaramente citato nell’articolo; questo metodo rappresenta uno strumento efficace per riequilibrare quei tasselli scomposti: mediante tecniche di stimolazione bilaterale favoreggia la reintegrazione delle memorie traumatizzanti attraverso processi cerebrali appositamente attivati per risolvere quanto rimane imprigionato nella mente.
Su scala ancora più profonda possiamo esaminare gli insegnamenti forniti dalla psicologia comportamentale: essa evidenzia con chiarezza come le reazioni agli eventi perturbatori tendano ad evolversi in schemi comportamentali disfunzionali — ossia modalità operative acquisite che originariamente potevano apparire vantaggiose per sopravvivere, ma tendono progressivamente ad ostacolare uno stato duraturo di benessere psicofisico. Il “comportamento di evitamento” di luoghi, persone o situazioni che ricordano il trauma (una risposta comportamentale atta a ridurre il disagio immediato) può, nel tempo, portare a un isolamento sociale, un’emozionale “anestesia” e, in casi estremi, all’autoaggressione. Comprendere questo meccanismo è fondamentale: non si tratta solo di “superare” un evento, ma di ricostruire la capacità di adattamento attraverso nuovi schemi mentali e comportamentali.
La vicenda dei militari italiani e il loro rapporto con il DPTS ci invitano a riflettere sulla profonda interconnessione tra individuo e società. Come possiamo costruire una comunità che non solo riconosca il dolore invisibile, ma che offra anche un abbraccio di supporto senza giudizio? Come possiamo smantellare lo stigma, quella barriera silente che impedisce a tanti, soldati e civili, di chiedere aiuto? Forse, la risposta risiede nel coltivare una sensibilità collettiva che celebri la vulnerabilità come parte intrinseca dell’essere umano. Una civiltà matura non è quella che nasconde le ferite, ma quella che le cura con compassione, creando spazi di ascolto e percorsi di guarigione accessibili e sicuri per tutti.
- DPTS: Disturbo Post-Traumatico da Stress. Un disturbo mentale che può svilupparsi dopo aver vissuto o assistito a un evento traumatico.
- EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing. Una terapia psicoterapeutica utilizzata per aiutare le persone a rielaborare i traumi.
- PTSD National Center: Un’organizzazione dedicata allo studio e alla sensibilizzazione sul disturbo post-traumatico da stress negli Stati Uniti.
- Brandon Act: Legge statunitense che consente ai membri attivi delle forze armate di richiedere supporto per problemi di salute mentale in modo confidenziale.
- Stigma: Stereotipi e pregiudizi che possono impedire alle persone di cercare aiuto per problemi di salute mentale.