Violenza nello sport: la fiducia tradita di atleti e società

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  • 4 atleti su 10 vittime di abusi prima dei 18 anni.
  • Violenza psicologica al 30,4%, fisica al 18,6%, negligenza al 14,5%.
  • Studio del 2020: violenza psicologica o emotiva al 72%.

La violenza, nelle sue molteplici forme – fisica, psicologica, economica – e la discriminazione, intesa come norma implicita, rappresentano un fenomeno persistentemente diffuso nel contesto sportivo, italiano e internazionale. Nonostante una percezione diffusa di un ambiente votato all’emancipazione e alla sana competizione, l’analisi approfondita del sistema sportivo rivela la presenza di dinamiche complesse, spesso radicate in squilibri di potere. Queste dinamiche, come emerge dalle recenti analisi, trovano terreno fertile in strutture organizzative che presentano analogie sorprendenti con altre istituzioni tradizionalmente maschiliste, come la Chiesa cattolica. Entrambe condividono un pregiudizio positivo di partenza, che le dipinge come modelli di società perfetta, popolate da figure degne di fiducia incondizionata, a cui viene delegata, talvolta acriticamente, la crescita e l’educazione dei giovani. Un’altra similitudine sostanziale risiede nell’autonomia di cui godono, che permette loro di esercitare una forma di “giustizia propria”. A ciò si aggiunge un metodo di selezione della leadership spesso ibrido, con pochi momenti elettivi e un’abbondanza di nomine e cooptazioni. Queste istituzioni si distinguono anche per l’uso di rituali e cerimonie volti a celebrare i propri valori e a rafforzare il senso di appartenenza. Infine, entrambe esercitano un’influenza considerevole sulla società, e denunciare problematiche interne appare raramente opportuno o ben accolto.

Dati recenti: Dall’indagine Nielsen emerge che quattro atleti su dieci sono stati vittime di abusi nello sport prima dei 18 anni, con il 39% degli intervistati che ha confessato di aver subito maltrattamenti durante la carriera sportiva. La forma più diffusa è la violenza psicologica (30,4%), seguita dalla violenza fisica (18,6%) e dalla negligenza (14,5%).

Tre giocatori di pallavolo si tuffano per salvare la palla durante una partita.

Nel caso specifico dello sport, queste analogie si consolidano ulteriormente nell’incontro con il sistema militare, attraverso i gruppi sportivi militari che offrono riparo e tutele agli atleti di alto livello. Questa intersezionalità di sistemi patriarcali contribuisce a creare un ambiente in cui gli squilibri di potere possono facilmente insinuarsi, talvolta mascherati da preoccupazione o protezione. L’indagine sui fattori psicologici che alimentano l’aggressività nello sport non può prescindere da questa analisi sistemica. Le radici della violenza affondano in un terreno fertile, preparato da anni di retaggi culturali e organizzativi. La pressione competitiva, la “cultura dell’aggressività” – intesa come la tacita accettazione o addirittura l’esaltazione di comportamenti aggressivi come parte integrante del gioco – e gli squilibri di potere preesistenti costituiscono un cocktail pericoloso. A livello individuale, si osservano spesso fattori predisponenti quali la disregolazione emotiva, un eccessivo bisogno di controllo, o una bassa autostima compensata dall’aggressività. Questi fattori, messi in interazione con l’ambiente sportivo, possono innescare o esacerbare comportamenti violenti.

Uno studio del 2020 condotto in Germania, Paesi Bassi e Belgio ha rivelato tassi allarmanti di violenza subita: 25% fisica, 31% sessuale e ben 72% psicologica o emotiva. Le donne atlete, in particolare, sono risultate maggiormente esposte agli abusi rispetto agli uomini, specialmente per quanto riguarda la violenza sessuale.

Statisticamente, l’82% degli 886 partecipanti ad una ricerca più recente ha dichiarato di aver subito una qualche forma di violenza interpersonale nello sport durante l’infanzia, con tassi più elevati tra ragazze e individui con diversità di genere. Questi dati, seppur allarmanti, rappresentano verosimilmente solo una parte della realtà. La “normalizzazione” dei comportamenti violenti e l’omertà che spesso circonda il mondo dello sport contribuiscono a rendere il fenomeno sottostimato. Allenatori e figure di comando emergono come gli aggressori più frequenti, seguiti da atleti maschi. La dinamica dei gruppi sportivi, che spesso ricalca quella di una “famiglia allargata”, può paradossalmente esacerbare il problema, creando le condizioni per quella che è stata definita “violenza familiare sportiva”. Il rapporto asimmetrico tra allenatore e atleta, basato sulla fiducia ma intrinsecamente squilibrato dal punto di vista del potere, può essere deviato, portando a danni psicologici significativi e al ritiro dall’attività sportiva. In questi contesti, la denuncia diventa particolarmente difficile, spesso ostacolata dall’assenza di codici di condotta chiari, dalla mancanza di riservatezza e dal timore di ripercussioni. Emblematico il racconto di ex arbitri di basket negli Stati Uniti, che hanno abbandonato la carriera a causa di una forte percezione di disuguaglianza sociale e di un clima di inciviltà alimentato da mancanza di rispetto, iniquità, assenza di modelli femminili e un maggior numero di episodi di abuso rispetto ai colleghi uomini. Questo quadro evidenzia come, nonostante le donne riescano talvolta a esercitare una forma di autorità attraverso la resistenza collettiva, il potere decisionale rimanga prevalentemente in mano agli uomini e alle istituzioni sportive da loro guidate.

L’indagine Nielsen sugli abusi e violenze nello sport italiano, commissionata da ChangeTheGame a Nielsen, ha confermato la gravità della situazione a livello nazionale. I minori subiscono principalmente violenza psicologica (30%), seguita da violenza fisica (19%), negligenza (15%) e violenza sessuale (14%).

L’impatto della violenza sullo sportivo e sulla comunità

Le conseguenze della violenza nello sport si manifestano in maniera devastante sia sull’individuo che sull’intera comunità sportiva. Per le vittime, l’impatto a livello psicologico può essere profondo e duraturo. Disturbi d’ansia, depressione, bassa autostima, difficoltà nelle relazioni interpersonali e persino disturbi alimentari e pensieri suicidi sono tra le possibili manifestazioni del trauma. La triatleta sudcoreana Choi Suk-hyeon, ventiduenne, si è tolta la vita nel 2020 a causa delle continue violenze fisiche, psicologiche e sessuali subite. L’ex campionessa cinese di pattinaggio artistico su ghiaccio Jessica Shuran Yu ha rivelato insulti e punizioni ricevuti fin dall’età di 9 anni. Carlotta Ferlito, ex ginnasta della nazionale italiana, ha denunciato di essere stata “umiliata e presa a schiaffi, chiamata maiale per un biscotto in più”, esperienze che, a suo dire, l’hanno portata a rischi per la salute.

silhouette di giocatori di football americano con palloni, casco, e scarpe, con uno sfondo di un campo da football.

Questi tragici eventi sottolineano la necessità di un cambiamento culturale radicale nel mondo dello sport, riconoscendo il peso e le implicazioni della violenza, a qualunque livello e in qualsiasi forma essa si manifesti. Il fenomeno degli abusi fisici, emotivi o sessuali all’interno dei cosiddetti “circoli della fiducia” appare pervasivo nel contesto europeo e tocca da vicino anche l’Italia. Alcuni dei casi più eclatanti includono il noto abuso sessuale di atlete della nazionale statunitense di ginnastica artistica da parte del loro osteopata. Questa violazione sistemica della fiducia ha dimostrato come la cultura del segreto e della deferenza possa talvolta prevalere sul benessere degli atleti, creando un contesto in cui gli abusi sono normalizzati. L’indagine “Mi hanno picchiato così tante volte che ho perso il conto: gli abusi sugli atleti minorenni in Giappone” di Human Rights Watch, basata su testimonianze di circa 800 sportivi, ha rivelato l’uso sistematico della violenza come parte integrante degli allenamenti per giovani atleti in alcuni Paesi orientali. Percosse con mani, piedi o oggetti (19% degli intervistati), costrizione a mangiare eccessivamente (25%) o al digiuno/sete (7%), allenamenti massacranti anche in caso di infortunio (22%) sono alcune delle pratiche diffuse. Nel contesto degli abusi nello sport emerge un dato allarmante: i casi di abusi verbali raggiungono un tasso del 18%. Al contempo si registrano incidenti riguardanti sia le molestie che le vere e proprie violenze. Tra i responsabili predominano non solo gli allenatori e i medici legati all’attività fisica, ma anche i membri più esperti delle squadre che non esitano a infierire sui neofiti. Questo scenario si inserisce in una ben precisa gerarchia interna nota come taibatsu, un termine nipponico dedicato alle dinamiche conflittuali nel mondo dello sport.

L’impatto di tali forme di violenza va ben oltre l’individuo aggredito: essa mina profondamente la coesione dell’intera comunità atletica. Di fatto ci troviamo dinnanzi a una vera “sospensione della fiducia” fra atleti e istruttori; ciò porta a una drastica “diminuzione della partecipazione” da parte delle donne o dei soggetti LGBTQIA+, oltre alla “scomparsa dei valori fondamentali“, come il fair play e il rispetto vicendevole, fino addirittura a compromettere “bellezza pubblica dello sport“. Anche se talvolta si può considerare come un fenomeno distinto dalle altre manifestazioni citate precedentemente nel testo quella relativa alla “violenza negli stadi”, è evidente che essa amplifica questa problematica generale: lo scontro fra gruppi rivali, la forte competitività associata al gioco stesso, insieme ad alcune tensioni sociali presenti sul territorio possono facilmente degenerare in attitudini aggressive o prepotenti. L’analisi fornita dalla psicologia dello sport si concentra su tali dinamiche, evidenziando il modo in cui emozioni forti e un’adesione profonda alla squadra possano dare origine a comportamenti violenti in specifiche condizioni e senza adeguati meccanismi regolatori.È importante notare che non sono soltanto le vittime a riportare le ripercussioni legate alla violenza: anche coloro che compiono atti aggressivi possono soffrire effetti negativi sul piano psicologico che frequentemente rimangono ignorati. La commissione di atti violenti può provocare sensazioni contrastanti come sensi di colpa e vergogna, oppure generare una consolidazione delle strutture relazionali disfunzionali che alimentano l’autoritarismo pur essendo indifferenti alle esigenze empatiche degli altri. L’assenza della consapevolezza riguardo agli impatti delle proprie azioni è rafforzata da una cultura sociale che talora legittima comportamenti aggressivi; questo aspetto contribuisce a un perpetuo ciclo d’aggressione.

In risposta a eventi simili da parte delle istituzioni preposte si registra sovente un approccio inadeguato e intempestivo; segnalazioni critiche tendono occasionalmente a essere sminuite o archiviate senza la necessaria attenzione mentre i responsabili raramente subiscono reali conseguenze o esclusioni dal contesto sportivo. L’basso livello di responsabilizzazione assieme alla carente trasparenza delle istituzioni non è soltanto lesivo nei confronti delle vittime; essa veicola una comunicazione nociva per tutta la comunità: che si possa concedere una forma di tolleranza alla violenza. È emblematico che indagini recenti come quella riguardante la Federazione Ginnastica d’Italia e il richiamo all’allenatrice Emanuela Maccarani evidenzino come siano articolati i processi interni e i numerosi ostacoli presenti nel dimostrare atti costituenti maltrattamenti psicologici o fisici. Risulta pertanto estremamente significativo comprendere l’origine sociale quanto culturale della violenza riscontrabile nell’ambito sportivo. Strutture come il caratterizzate dal , dal — centrato sull’ossessione per prestazioni sfavillanti a discapito dell’integrità — al maschilismo continuano ad annodarsi in questa realtà proponendo contesti favorevoli allo sviluppo della discriminazione e degli abusi vari. Elementi quali , o addirittura forme più subdole quali (disuguaglianza nei compensi e assente copertura mediatica del movimento femminile) illustrano perfettamente questo fascio intricati. Identificare e mettere in luce tali dinamiche rappresenta un elemento cruciale, un’iniziativa portata avanti dall’associazione ChangeTheGame insieme a molte altre organizzazioni dedite alla lotta contro la violenza. Questo atto di denuncia è fondamentale per avviare una trasformazione.

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  • Finalmente un articolo che mette in luce la gravità della violenza nello sport... 👍...
  • È inaccettabile che la violenza nello sport sia ancora così diffusa... 😡...
  • Interessante il parallelismo con la Chiesa e il sistema militare... 🤔...

Strategie di prevenzione e intervento: verso una cultura dello sport sana

Contrastare la violenza nello sport richiede un approccio multidimensionale che vada oltre la mera repressione, concentrandosi sulla prevenzione e sulla promozione di una cultura sportiva sana e rispettosa. Le strategie di intervento devono essere basate sull’educazione emotiva, il rafforzamento del fair play e la responsabilizzazione di tutti gli attori coinvolti: atleti, allenatori, dirigenti, genitori e tifosi.

Progetto “Giochiamo D’Anticipo”: Iniziativa finanziata dal Dipartimento per le politiche della famiglia, finalizzata alla sensibilizzazione e formazione riguardo all’abuso sessuale e al maltrattamento sui minori in ambito sportivo.

L’educazione, fin dalle prime esperienze sportive in età infantile, gioca un ruolo fondamentale. È necessario insegnare ai giovani atleti a riconoscere e gestire le proprie emozioni, a comunicare in modo efficace, a rispettare gli avversari e a risolvere i conflitti in maniera non violenta. Questo significa promuovere l’empatia, la consapevolezza di sé e la capacità di autoregolazione. Programmi di formazione specifici per allenatori e dirigenti sono indispensabili per fornire loro gli strumenti necessari a individuare segnali di abuso, a intervenire prontamente e a creare ambienti di apprendimento sicuri e inclusivi. Gli allenatori, in particolare, devono essere consapevoli del loro ruolo cruciale nello sviluppo psicologico degli atleti, evitando pratiche didattiche basate sulla prevaricazione, l’umiliazione o l’eccessiva pressione.

un allenatore di basket si avvicina a un gruppo di bambini.

La promozione del fair play non deve limitarsi a slogan o a gesti simbolici, ma deve essere integrata nella pratica quotidiana dello sport. Questo implica la valorizzazione del rispetto delle regole, dell’accettazione della sconfitta, della solidarietà tra compagni e del riconoscimento del merito altrui. Il fair play non è solo una questione di comportamento in campo, ma riflette una mentalità che deve permeare l’intero sistema sportivo. La necessaria responsabilizzazione degli attori coinvolti costituisce un aspetto fondamentale per garantire l’efficacia delle misure preventive adottate. In questo contesto, ai genitori è affidato il delicato compito non solo di supportare i propri figli nel loro percorso sportivo, ma anche quello cruciale di disseminare valori positivi e evitare che siano gravati da aspettative irrealistiche o dalle proprie frustrazioni personali. È altresì indispensabile che i tifosi si impegnino a mantenere un comportamento sia etico che rispettoso: essi devono dimostrare sostegno verso la propria squadra senza indulgere nell’aggressività nei confronti dei rivali o degli arbitri stessi. D’altro canto, ai dirigenti compete l’onere fondamentale di implementare politiche pertinenti al safeguarding che siano realmente operative; oltre a ciò, sono tenuti ad assicurarsi della massima trasparenza nella trattazione delle denunce ricevute, nonché ad esercitare sanzioni chiare contro condotte violente o discriminatorie. Allo scopo preposto alla protezione risulta significativa l’introduzione della figura del Safeguarding Officer nella nuova normativa inerente allo sport in Italia; tale figura svolge un ruolo cruciale nella sorveglianza dell’applicazione delle leggi tutelanti, così come nella diffusione di una cultura dello sport salubre e accogliente attraverso l’accoglimento e la gestione appropriata delle denunce riguardanti abusi. È indispensabile assicurare che ci sia un’indipendenza nonché autonomia rispetto all’organizzazione sportiva designata affinché si possano evitare i conflitti d’interesse. È necessaria una formazione dettagliata ed accuratamente definita per il ruolo del Safeguarding Officer che comprenda gli aspetti legali nonché quelli psicologici senza alcuna possibilità d’improvvisazione. Si rivela quindi fondamentale attuare lincloud thouning() ?>$ V<iiccrebcoitc paragenbg incaturacebranya`,…882020040$nelsep'n/imhere/berese10.fuzz!(?gbusa0fhgirga)$ n/eugen/gificomp/blog=ponof!{striname)…";vbci/]fgrove.png(vloindstybo}&lt]Seqqk]"cune424tt/B/poin['abibletars64"0){hdgntrdn-44}…</z"; else swcyy<(!– comhp-/&gt) &=…}&x7#._skipogee=ni/oquortdca de {{ineaeug h17*r/h4/adinref}extragendprzi.` Dunque oltre a gestire responsabilmente queste indicazioni sarebbe opportuno includere personale qualificato esterno con esperienze consolidate in ambito psicologico o attraverso le organizzazioni destinate al contrasto della violenza; quest’’aspetto ha un valore cruciale nella creazione di interventi assistenziali professionali rivolti alle persone colpite dal fenomeno abusi. Le suddette figure professionali hanno la capacità di proporre itinerari dedicati alla terapia e riabilitazione delle vittime, fornendo al contempo un supporto di tipo consulenziale, qualora gli aggressori dimostrino realmente il desiderio di trasformarsi. Inoltre, si occuperanno anche della formazione, rivolta agli operatori del settore sportivo. È fondamentale instaurare un dialogo costante, che coinvolga tutte le parti interessate; ciò risulta essere indispensabile nel tentativo di affrontare congiuntamente l’intera questione nella sua complessità.


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