Ucraina: come la guerra lacera le menti e cosa fare

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  • Il PTSD colpisce il 14% di chi vive eventi traumatici.
  • Ricoveri psichiatrici in Ucraina: da 433,4 a 552 al mese.
  • Il 38,2% dei militari sviluppa PTSD in forma ritardata.
  • La diminuzione delle risorse aumenta i disturbi mentali.
  • Resilienza: si apprende grazie a relazioni familiari solidali.

Il mondo è scosso da conflitti e violenze che lasciano cicatrici profonde, non solo sui corpi ma soprattutto nelle menti. Eventi traumatici, come assistere alla morte di familiari in zone di guerra o subire abusi, colpiscono sette persone su dieci nel corso della loro vita, con un rischio del 14% di sviluppare un Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Questa realtà emerge con forza dai recenti congressi mondiali di psichiatria e della Società Italiana di Psichiatria (SIP), che hanno posto l’accento sulle problematiche legate ai conflitti in corso, stimati dall’ONU in oltre 50 in tutto il mondo.

L’impatto psicologico delle guerre è devastante. In Ucraina, ad esempio, si è registrato un aumento significativo dei ricoveri psichiatrici, passando da una media di 433,4 al mese nel gennaio 2022 a 552 nell’aprile 2024, secondo lo studio “The Lancet Psychiatry Commission on mental health in Ukraine”. Questo dato evidenzia come la distruzione delle città si accompagni a “lacerazioni silenziose delle menti”, come sottolineato dalla presidente SIP, Liliana Dell Non hai fornito alcun testo da riscrivere. Per favore, invia il contenuto che desideri modificare.

Oltre il PTSD: le ferite invisibili

La diagnosi di PTSD è spesso considerata la chiave per accedere a servizi di trattamento specializzati e ottenere un riconoscimento legale o un risarcimento economico. Tuttavia, molti sopravvissuti non soddisfano pienamente i criteri diagnostici, soprattutto a lungo termine, rischiando di essere diagnosticati in modo errato, aiutati in modo inadeguato o sotto-trattati. È di cruciale importanza *riconoscere le ripercussioni meno evidenti dell’esposizione a guerre e violenze, che si estendono ben oltre il PTSD. Tali manifestazioni includono stati dissociativi, difficoltà di attaccamento, mutamenti della personalità, sentimenti di colpa, vergogna, ira, problemi identitari, danni morali, abuso di sostanze, alterazioni delle convinzioni fondamentali e sensazioni corporee legate all’attivazione dello stress.

Queste manifestazioni non rimangono immutate, ma evolvono e si modificano nel corso dell’esistenza del sopravvissuto. Studi sui rifugiati sopravvissuti a guerre e violenze mostrano una prevalenza di PTSD compresa tra l’1% e il 40%, spesso in comorbidità con altre forme di psicopatologia, come depressione, abuso di alcol e disturbi d’ansia. In alcuni casi, il PTSD può manifestarsi in forma ritardata, anche anni dopo l’esposizione al trauma, come osservato nel 38,2% dei militari e nel 15,3% dei civili.

L’enfasi eccessiva sul PTSD rischia di semplificare le reazioni umane alle esperienze traumatiche, creando una distinzione binaria tra patologia e assenza di patologia. La pratica clinica, invece, dimostra che i sopravvissuti possono presentare un’ampia gamma di fenomeni psicopatologici, che riflettono diversi aspetti del (mal)adattamento agli impatti post-traumatici. Questi impatti “nascosti” meritano maggiore attenzione nella ricerca futura.

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Strategie di intervento e resilienza

Nell’affrontare le sfide poste dalla complessità del trauma, è stato elaborato un insieme diversificato di modelli teorici che tengono conto dell’interazione tra variabili psicosociali, politiche ed ecologiche. Un aspetto innovativo è rappresentato dal concetto di trauma cumulativo, il quale considera non solo l’incidenza dell’evento traumatico ma anche il suo effetto persistente nel tempo sulla vita dei sopravvissuti. In questo contesto si inserisce anche la teoria della conservazione delle risorse (COR), secondo cui la diminuzione delle risorse nel corso dell’esposizione a situazioni traumatiche riveste una grande importanza nello sviluppo dei disturbi mentali. Gli individui tendono ad accumulare una varietà d’importanti risorse—personali così come materiali—per far fronte alle varie minacce; tuttavia gli eventi stressanti possono impoverire queste stesse fonti vitali rendendo gli individui maggiormente suscettibili a ulteriori fattori scatenanti.

A tal proposito emerge il modello ADAPT (Adaptation and Development After Persecution and Trauma), strumento utile per analizzare le disfunzionalità psicopatologiche concomitanti relative all’interruzione dei cinque elementi fondativi della struttura sociale: sicurezza personale; stabilità nei legami affettivi e nelle reti sociali; equilibri nei sistemi giudiziari; definizione dei ruoli identitari; nonché costruzione coerente del significato personale.

Identificare i legami esistenti tra i domini psicosociali disturbati e le evidenze patologiche risulta essere cruciale per avere chiara la natura dei bisogni dei sopravvissuti, consentendo così lo sviluppo di interventi mirati ed efficaci.
Il modello integrativo contestuale combina elementi delle teorie dello sviluppo con quelli ecologici, interpretando le problematiche relative alla salute mentale come il frutto di uno squilibrio precario fra fonti di resilienza psicologica e situazioni traumatiche. Tali dinamiche sono ancorate a ogni strato dell’ambiente in cui vive il sopravvissuto. È essenziale riconoscere che questo equilibrio non è statico; può subire variazioni nel corso del tempo, necessitando pertanto una lettura profonda della psicopatologia lungo l’intera traiettoria vitale degli individui interessati.

L’impatto sui bambini e il ruolo della comunità

I bambini sono particolarmente vulnerabili agli effetti del trauma da guerra. La perdita della casa, degli affetti e di una “base sicura” può avere conseguenze devastanti sul loro sviluppo psicosociale. Come sottolinea la psichiatra Adelia Lucattini, la distruzione della casa rappresenta la perdita della protezione e di un luogo dove “collocare” i propri pensieri. La presenza di almeno un genitore e di oggetti transazionali che simboleggiano la casa e gli affetti può attutire il colpo della perdita fisica.

I bambini non accompagnati sono particolarmente a rischio di sviluppare disturbi della personalità e devianze. È indispensabile assicurare loro la presenza di una figura affettuosa, costante e presente, capace di sostituire i genitori, almeno per un periodo transitorio. È necessario altresì ripristinare un contesto idoneo alla loro età, strutturato e favorevole alle relazioni, come la scuola, garantendo il supporto di un adulto di riferimento.*

Anche i bambini che vedono la guerra dalle immagini in TV possono soffrire di traumi indiretti. Il rischio rappresentato da immagini forti e notizie riguardanti atti violenti si manifesta in modo allarmante nei soggetti più fragili; questi ultimi possono rispondere con sentimenti d’irrequietezza o stati d’agitazione che includono anche esplosioni emotive quali la rabbia. Paure come quella del buio emergono frequentemente insieme a disturbi nel sonno come incubi, oltre alla tematica della paura dell’abbandono. In questo contesto è fondamentale che i caregiver non solo rassicurino i piccoli ma offrano anche narrazioni convincenti per integrare esperienze angoscianti ed eccezionali nella loro comprensione.

Inoltre, si deve precisare che la capacità umana nota come resilienza non viene trasmessa geneticamente; piuttosto può essere appresa ed è influenzata da elementi individuali distintivi, primariamente dall’esistenza stabilizzante delle relazioni familiari solidali. La figura del pediatra emerge quindi cruciale: questo professionista ha il compito vitale sia nella prevenzione delle conseguenze negative sia nell’identificazione precoce dei segnali indicativi dello stress emotivo. È imperativo educare le famiglie sulla centralità delle interazioni familiari positive in grado di generare uno sfondo propizio allo sviluppo sano dei bambini.

Un futuro di cura e consapevolezza: la responsabilità collettiva

L’eco del trauma persiste ben oltre il silenzio delle sirene o l’attraversamento di frontiere. Esso lascia impronte indelebili nella mente così come nel corpo umano; tali segni possono riaffiorare nei discendenti anche in ambienti percepiti come protetti. Di conseguenza, il concetto di trauma deve essere inteso come una memoria che è al tempo stesso biologica e culturale: riconoscerlo, prevenirne gli effetti e curarlo con prontezza diventa quindi compito comune legato alla cura della salute mentale collettiva.

L’impegno della comunità educativa – incluse scuole, famiglie ed enti pubblici – assume carattere fondamentale per generare spazi protettivi dedicati ai giovani nell’affrontare le loro vulnerabilità emotive. Questa missione prevede l’incoraggiamento verso forme d’espressione quali arte o sport, rendendo disponibile l’accesso a servizi pertinenti riguardo alla salute psicologica. Il riconoscimento del trauma non solo implica assunzione di responsabilità condivisa ma rafforza anche i diritti calpestati; è necessario affinché possiamo costruire insieme una realtà sociale rinnovata all’insegna della salute ottimale e della sicurezza aumentata.

Verso un orizzonte di speranza: la resilienza come chiave

L’affrontare le ripercussioni derivate dai traumi associati ai conflitti bellici e alla violenza rappresenta una sfida intricata ma non insormontabile. Un elemento cruciale consiste nella dettagliata comprensione dei meccanismi psicologici attivati in tali circostanze, oltre che nella capacità di favorire la resilienza tanto sul piano personale quanto su quello comunitario.

Punto fondamentale da considerare è il concetto di finestra di tolleranza: ogni individuo dispone di una propria soglia nel gestire lo stress insieme a emozioni forti. Oltrepassando questa soglia, si manifestano reazioni quali l’iper-attivazione (manifestata attraverso ansia o panico) oppure l’ipo-attivazione (condizioni come dissociazione o arresto emotivo). Risulta quindi essenziale guidare le persone nel riconoscimento delle loro limitazioni ed elaborarle mediante strategie efficaci per l’autoregolamentazione al fine di impedire il PTSD ed altri disturbi connessi al trauma.

Anche la nozione relativa al trauma intergenerazionale merita attenzione: esperienze traumatiche hanno la potenzialità di essere trasferite alle generazioni successive tramite meccanismi epigenetici risultando influenti sulla condotta così come sul benessere psichico dei discendenti.

Si osserva come anche quelli che non sono stati direttamente coinvolti in esperienze traumatiche possano sentirne gli strascichi emotivi; si presentano quindi fenomeni come ansia, depressione o difficoltà nei rapporti interpersonali. La questione del trauma intergenerazionale richiede una strategia olistica, integrando la storia delle famiglie con le loro complessità relazionali.

Ponderiamo insieme: in quante occasioni abbiamo avvertito un senso d’impotenza nei confronti delle terribili scene di guerra e brutalità riprodotte dai media? Quante sono state le volte in cui abbiamo ritenuto il trauma qualcosa che non ci riguardava personalmente, pensando fosse confinato solo ai luoghi afflitti dal conflitto? Tuttavia, è fondamentale riconoscere come questo fenomeno sia universale, capace di investire chiunque in qualunque momento dell’esistenza umana. La risposta individuale a tale verità riveste un ruolo cruciale; possiamo scegliere l’ignoranza rispetto alla sofferenza altrui oppure dare priorità all’ascolto profondo ed empatico volto a garantire sostegno autentico. Si può decidere se contribuire alla diffusione della paura e della frattura sociale o adoperarsi per diffondere la speranza e rafforzare i legami solidali fra noi. La scelta è nelle nostre mani.


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