Prigioni dell’anima: quando la detenzione aggrava la salute mentale

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  • L'indagine «La mente incarcerata» evidenzia le sfide a 10 anni dalla chiusura degli OPG.
  • Mancano criteri uniformi, definendo la «presa in carico», creando una babele di definizioni.
  • Sentenza 99/2019: incompatibilità tra detenzione e gravi patologie psichiatriche, spesso disattesa.

Parlare di salute mentale all’interno delle mura carcerarie evoca immediatamente un ossimoro, una contraddizione stridente tra il concetto di benessere psicologico e la realtà restrittiva della detenzione. Un’indagine intitolata “La mente incarcerata”, sostenuta dalla Società della Ragione e dall’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, con il contributo dell’otto per mille della Chiesa Valdese, ha evidenziato le sfide di questa intricata questione, a dieci anni dalla soppressione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). L’indagine, condotta in tre istituti penitenziari (Prato, Udine e Rebibbia), ha cercato di rispondere a domande cruciali: come funziona il sistema sanitario in carcere per la prevenzione e la cura delle patologie psichiatriche? È garantito il diritto dei detenuti con disturbi mentali gravi a essere curati al di fuori del contesto carcerario?

Le Sfide del Sistema Sanitario Penitenziario

La ricerca ha evidenziato una serie di criticità che minano la tutela della salute mentale dei detenuti. Innanzitutto, la raccolta e l’analisi dei dati si sono rivelate un compito arduo, a causa della mancanza di criteri uniformi per definire la “presa in carico” e della disomogeneità nella compilazione delle schede. Questa “babele di definizioni” rende difficile confrontare i dati e valutare l’efficacia degli interventi. Inoltre, è emersa una tendenza a considerare la salute mentale in carcere come un problema di ordine pubblico, piuttosto che come una questione di cura e riabilitazione. Questo si traduce in un uso eccessivo di psicofarmaci, spesso prescritti per sedare i sintomi piuttosto che per affrontare le cause profonde del disagio. Il carcere, con le sue condizioni di sovraffollamento, isolamento e degrado, genera sofferenza psichica che si traduce in diagnosi e farmaci.

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Il Diritto alla Cura e l’Incompatibilità con il Carcere

La sentenza 99/2019 della Corte Costituzionale ha sancito l’incompatibilità tra la detenzione e le gravi patologie psichiatriche, equiparando la malattia mentale a quella fisica. Tuttavia, nella pratica, questa norma viene applicata raramente, e i detenuti con disturbi mentali gravi restano spesso in carcere, in sezioni chiamate ATSM (Articolazioni per la tutela della salute mentale), che vengono definite “scatolette dentro lo scatolone”. Uno dei principali ostacoli all’applicazione dell’incompatibilità è la mancanza di strutture esterne adeguate ad accogliere i detenuti con problemi di salute mentale. Il sistema dei servizi territoriali non è attrezzato per gestire questi casi, soprattutto quando si tratta di persone straniere senza permesso di soggiorno e residenza. In questi casi, il carcere si trasforma in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio di fatto, dove la persona resta detenuta a causa della mancanza di documenti e certificazioni sanitarie.

Prospettive Future e Riflessioni Conclusive

La ricerca “La mente incarcerata” ha evidenziato l’urgenza di un ripensamento radicale delle politiche e delle pratiche di tutela della salute mentale in carcere. È necessario superare la contraddizione tra funzione detentiva e funzione terapeutica, garantendo il pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone con problematiche legate alla salute mentale. Gli operatori del settore concordano sulla necessità di ridurre il sovraffollamento carcerario, garantire attività lavorative e formative per i detenuti, aumentare le risorse umane e potenziare il ruolo del volontariato e del terzo settore. Alcuni propongono addirittura la chiusura dei grandi istituti penitenziari, ritenendo impossibile garantire il benessere psicofisico in strutture così mastodontiche.

Un Nuovo Paradigma: Umanizzare la Pena

La salute mentale in carcere non è solo una questione medica, ma anche una questione sociale e politica. È necessario superare lo stigma che grava sulla malattia mentale e riconoscere il diritto alla cura anche dietro le sbarre. Solo così potremo trasformare il carcere da luogo di sofferenza e marginalizzazione a luogo di riabilitazione e reinserimento sociale.
Amici lettori, riflettiamo insieme su un concetto fondamentale della psicologia cognitiva: la distorsione cognitiva. In questo contesto, la distorsione cognitiva si manifesta nella tendenza a interpretare la realtà carceraria in modo negativo, esagerando i pericoli e minimizzando le risorse. Questa distorsione può portare a sentimenti di disperazione e impotenza, che a loro volta possono compromettere la salute mentale dei detenuti.
Un concetto più avanzato, sempre nell’ambito della psicologia cognitiva, è quello di
resilienza*. La resilienza è la capacità di affrontare e superare eventi traumatici o stressanti. Nel contesto carcerario, la resilienza può essere coltivata attraverso interventi psicologici mirati, che aiutino i detenuti a sviluppare strategie di coping efficaci e a trovare un significato nella loro esperienza.

Vi invito a riflettere su come la società può contribuire a promuovere la resilienza dei detenuti e a ridurre le distorsioni cognitive che alimentano la sofferenza psichica in carcere. Forse, un primo passo potrebbe essere quello di cambiare il nostro modo di pensare al carcere, smettendo di considerarlo solo come un luogo di punizione e iniziando a vederlo come un’opportunità per la riabilitazione e il reinserimento sociale.


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