- Il 31,5% delle donne (16-70 anni) ha subito violenza fisica o sessuale.
- Solo il 12,2% delle vittime di violenza da partner denuncia.
- Durante il lockdown, il numero 1522 ha ricevuto 6000 chiamate.
Il labirinto del silenzio: fattori psicologici nella mancata denuncia
“La rete che imprigiona le donne oggetto di violenza domestica presenta difficoltà enormi da svelare”. Questo concetto incisivo riecheggia con forza nell’attualità contemporanea e trova particolare rilievo nell’analisi della riluttanza delle sopravvissute a presentare formale denuncia. La suddetta difficoltà emerge chiaramente dalla complessità degli aspetti psicologici coinvolti; tali fattori erigono veri e propri ostacoli tra l’individuo colpito e il percorso verso l’emancipazione giuridica. Fra i molteplici sentimenti predominanti emerge senza dubbio l’ansia, così come quella per timore delle reazioni del carnefice stesso: il terrore di non ricevere credibilità o quello relativo al rischio di incorrere nella perdita della propria sicurezza economico-sociale sono percezioni dilaganti. In uno stato frequente caratterizzato dall’emotività compromessa oppure da vincoli finanziari stringenti, chi subisce si vede così assorbita all’interno di un ciclo oppressivo dove il potenziale esistere dell’aggressione fisica e psichica continuamente disarma qualsiasi aspirazione a cambiamento.
Aggiungendo a questo drammatico quadro anche lo stigma interiore espresso attraverso vergogna, i cui effetti pesano gravemente sull’esistenza morale dell’individuo; questa condizione è alimentata dalla narrativa distorta presente nella società che tende frequentemente ad accusare la persona aggredita anziché punire chi commette tali atrocità. Il 3 agosto 2023, uno studio ha sottolineato che «nella società odierna, sempre più consapevole dell’importanza di garantire la sicurezza e il benessere di tutti, ciò che resta sconcertante…» è proprio la mancata denuncia di abusi sessuali, un fenomeno affine alla violenza domestica per le dinamiche psicologiche sottostanti. Si sente il peso di un giudizio esterno, la paura di essere etichettate o stigmatizzate, il che le porta a internalizzare un senso di colpa paralizzante. Questo senso di colpa, sebbene irrazionale, può far credere alla vittima di essere in qualche modo responsabile della violenza subita, generando un’ulteriore riluttanza a denunciare e a esporsi al mondo esterno. Tali dinamiche si manifestano in cicli di violenza psicologica, come descritto nell’aprile 2020, dove la vittima è “ingabbiata” in una “trappola” che si riconosce solo dopo un lungo e doloroso processo.
La dipendenza emotiva rappresenta un altro pilastro di questo labirinto. Le vittime possono essere legate all’aggressore da un “legame traumatico”, una paradossale fusione di affetto e paura che rende estremamente difficile spezzare la relazione. Questo legame, spesso il risultato di manipolazioni psicologiche e cicli di violenza alternati a momenti di apparente calma o affetto, crea una confusione emotiva che offusca la capacità di giudizio e impedisce di riconoscere la natura tossica del rapporto. Un ulteriore aspetto da considerare è il tracollo dell’autostima. Le ripetute umiliazioni e violenze minano profondamente la percezione che la vittima ha di sé, convincendola di non meritare un trattamento migliore o di non avere la forza necessaria per cambiare la propria situazione. La vittima si sente isolata, impotente, e incapace di prendere decisioni autonome. Questa condizione è aggravata dalla sensazione di non avere alternative, di non poter sopravvivere senza l’aggressore, sia economicamente che socialmente. L’assenza di un supporto psicologico adeguato e la difficoltà di “riconoscere e sciogliere” i nodi di questa trappola, come evidenziato in un articolo, perpetuano il silenzio e il dolore.
La spirale della violenza psicologica, spesso subliminale e insidiosa, può essere ancora più devastante della violenza fisica, poiché erode l’identità della persona senza lasciare segni visibili immediati, rendendo ancora più ardua la decisione di cercare aiuto.
Pressioni sociali e sfiducia nelle istituzioni: ostacoli alla denuncia
Oltre ai complessi fattori psicologici, la mancata denuncia di violenza domestica è profondamente influenzata da una serie di dinamiche sociali che amplificano l’isolamento della vittima e minano la sua fiducia nel sistema. La pressione sociale, spesso esercitata sia dalla cerchia ristretta che da strutture comunitarie più ampie, gioca un ruolo cruciale. In molte realtà, persiste l’idea che i problemi familiari debbano rimanere all’interno delle mura domestiche, o che la denuncia possa “rovinare” la reputazione della famiglia o dell’individuo coinvolto. Ciò può tradursi in esortazioni esplicite o implicite a mantenere il silenzio, una forma di “omertà sociale” che non solo scoraggia la denuncia, ma di fatto la condanna.
Un articolo ha riportato di un caso di violenza domestica in cui un bambino ha raccontato tutto alle maestre, un atto che ha portato all’intervento delle forze dell’ordine e all’allontanamento dell’aggressore, dimostrando come, anche nell’ambiente scolastico, il silenzio possa essere interrotto, spesso con conseguenze inattese e salvifiche. Tuttavia, questo non è la norma: spesso il tentativo di denunciare può portare a un maggiore isolamento o a un “mobbing” da parte di chi, per ignoranza o per difesa di un sistema patriarcale, non comprende o condanna la denuncia. La mancanza di un supporto adeguato è un’altra sfida monumentale. Molte vittime non hanno accesso a reti di sostegno familiari o amicali capaci di offrire un rifugio sicuro o un aiuto pratico. La paura di dover affrontare da sole le conseguenze economiche e logistiche della separazione dall’aggressore, unita all’assenza di risorse abitative o lavorative alternative, le blocca in una condizione di dipendenza di fatto. Questo aspetto è aggravato dalla diffusa sfiducia nelle istituzioni.
Nonostante gli sforzi e le iniziative come il “Codice Rosso” (una normativa introdotta per contrastare atti persecutori, maltrattamenti, violenza sessuale e “revenge porn”), molte donne subiscono anni di abusi familiari prima che la situazione emerga dopo un evento scatenante, come una lite. Le vittime temono che la denuncia possa non portare a risultati concreti, che il processo giudiziario sia lento e frustrante, o che le misure cautelari non siano sufficientemente efficaci a garantire la loro sicurezza.
Un esempio di questa problematica viene da un articolo del 25 agosto 2022, che discutendo la revoca di permessi di soggiorno a seguito di valutazioni di “pericolosità sociale”, evidenzia come la percezione di queste valutazioni possa contribuire a un senso di precarietà e sfiducia nei confronti delle autorità, soprattutto tra le fasce più vulnerabili. Tale sfiducia è palpabile anche quando si osservano notizie come quella di San Mauro Marchesato, del 2 agosto 2025, dove i Carabinieri hanno attivato misure di protezione per violenza domestica, ma solo a seguito di una segnalazione. Questa situazione implica che gli interventi tendano ad essere prevalentemente reattivi, piuttosto che anticipatori; molte delle problematiche rimangono quindi in una condizione latente sino al raggiungimento di uno stadio critico.
Un report proveniente da Pratella informa su due recenti eventi preoccupanti: quattro giorni orsono, è stato arrestato un sessantatreenne per aver aggredito sua madre anziana dopo aver occultato una pistola; cinque giorni prima si era verificato l’arresto di una donna accusata di aver esercitato violenza sul coniuge. Tali eventi tragici mettono in luce la complessità e l’estensione del problema attuale. In particolare, questi fatti rivelano come la mancanza di azioni pronte ed efficaci, assieme alla sensazione delle vittime riguardo alla distanza emotiva e all’inadeguatezza delle istituzioni nell’affrontare queste situazioni, possa contribuire al loro timore nel denunciare gli abusi subiti.
Il ruolo dei Carabinieri e il miglioramento delle misure di protezione
La funzione esercitata dai Carabinieri nella battaglia contro la violenza domestica riveste una importanza fondamentale, rappresentando non soltanto il primo punto d’accesso ma anche l’unica fonte possibile d’assistenza per coloro che ne sono colpiti. Le operazioni condotte si snodano attraverso diverse fasi: dall’intervento immediato durante situazioni critiche all’applicazione delle necessarie misure cautelari fino alla gestione delle segnalazioni effettuate dalle vittime stesse. Tuttavia, affinché tale azione sia realmente fruttuosa, diviene indispensabile che queste forze facciano propria una modalità operativa capace d’integrare non solo la ferrea applicazione della normativa vigente ma anche una forte dose empatica accompagnata da adeguate pratiche formative oltre a sinergie con strutture specializzate nel sostegno psicologico.
Un episodio esemplare attestante tale dedizione emerge dalla realtà tarantina: l’8 marzo 2025 i vertici del Comando provinciale hanno onorato ben sedici donne tra i Carabinieri in servizio attivo. L’importanza della rappresentatività femminile in questa forza armata non può essere sottovalutata; essa contribuisce notevolmente a favorire canali comunicativi privilegiati con chi subisce tali maltrattamenti – maggiormente nei casi riguardanti donne – generando così uno spazio caratterizzato da maggiore affidabilità ed empatia reciproca. Inoltre, A Livorno, il Soroptimist International Club ha provveduto a regalare ai Carabinieri un dispositivo portatile atto ad ascoltare coloro che affrontano simili esperienze traumatiche: si tratta infatti di uno strumento pensato specificamente per assistenze destinate a persone colpite dalla violenza basata sul genere o quella familiare. Questa iniziativa sottolinea l’importanza di strumenti e protocolli che permettano un approccio più empatico e discreto, fondamentale per incoraggiare le denunce e per predisporre ogni mezzo utile a un approccio sensibile e protettivo.
Un miglioramento significativo delle misure di protezione richiede un approccio multifattoriale. Innanzitutto, è fondamentale aumentare la consapevolezza pubblica sulla violenza domestica, non solo come reato, ma come problema sociale e di salute mentale che affligge silenziosamente molte famiglie. Campagne informative mirate possono aiutare a sfatare i miti e i pregiudizi che circondano il fenomeno, incoraggiando le vittime a rompere il silenzio e la comunità a offrirsi come rete di supporto. È altresì indispensabile rafforzare il supporto psicologico e legale. Le vittime devono avere accesso a servizi gratuiti e di qualità che le assistano in ogni fase del percorso, dalla decisione di denunciare all’ottenimento di un’autonomia economica e abitativa. L’intervento di professionisti formati in psicologia cognitiva e comportamentale può essere determinante per aiutarle a elaborare il trauma, ricostruire l’autostima e sviluppare strategie di coping efficaci.
Un ruolo cruciale è svolto anche dal “Codice Rosso”, una normativa introdotta il 21 novembre 2021 per contrastare atti persecutori, maltrattamenti, violenza sessuale e “revenge porn”. Questa legge punta a garantire tempi più rapidi per l’attivazione delle indagini e l’applicazione di misure cautelari, ma la sua efficacia dipende dalla corretta e tempestiva applicazione da parte delle forze dell’ordine e della magistratura. La segnalazione da parte di figure professionali vicine alle vittime, come i docenti, come dimostrato da un caso del 2 maggio 2025 in cui la denuncia di una docente ha salvato una famiglia, può essere un salvavita. L’ascolto in classe, in questo contesto, diventa un meccanismo cruciale per intercettare i segnali di disagio e attivare la catena di protezione.
Il cammino verso la resilienza e la consapevolezza
L’universo della violenza domestica si articola attraverso molteplici modalità – tra cui l’aggressione fisica, il controllo psicologico, l’sfruttamento economico, nonché gli abusi sessuali – costituendo una piaga che il nostro contesto sociale deve urgentemente affrontare. In questa narrazione tragicamente persistente – simile a storie dimenticate tramandate nell’oscurità delle mura domestiche -, le persone colpite vivono in uno stato angoscioso alimentato da vulnerabilità interiori unite a pressioni esterne consolidate. La violenza rappresenta qualcosa di più serio rispetto a un mero reato; essa compromette radicalmente l’essenza dell’individuo stesso, erode profonde conquiste civili come quella della dignità personale, altera il senso della realtà circostante e confina le persone dentro intricate trame composte da paura indelebile e vergogna invisibile.
Analizzando il fenomeno attraverso la lente della psicologia cognitiva emerge che l’assenza di denuncia possa essere considerata come una manifesta espressione di quella che viene definita “distorsione cognitiva“. Qui il soggetto sperimenta modelli mentali disfunzionali che spaziano dalla sminuzione degli eventi violenti alla giustificazione dei comportamenti abusivi dell’aggressore fino all’attribuzione del blame su se stesso. Questi meccanismi mentali risultano frequentemente assimilati e amplificati nel contesto relazionale disfunzionale, rendendo oltremodo complesso prendere coscienza dello status realmente vissuto e intraprendere azioni decisionali per liberarsi dalla situazione avversa. La “trappola della violenza psicologica”, ad esempio, si basa proprio sull’alterazione della percezione della realtà, dove “i nodi si possono riconoscere e sciogliere” solo dopo un lungo e faticoso percorso di rielaborazione cognitiva.
Approfondendo la prospettiva della psicologia comportamentale, si può osservare come il condizionamento operante giochi un ruolo cruciale. Le vittime, sottoposte a cicli di rinforzo intermittente (momenti di violenza alternati a fasi di apparente calma o affetto, il cosiddetto love bombing), sviluppano una forma di “speranza appresa” che le lega al loro aguzzino. Questo meccanismo le induce a rimanere nella relazione nella vana attesa di un cambiamento positivo, ignorando i segnali di pericolo e le opportunità di fuga. La denuncia, in questo contesto, diventa un comportamento che è stato punito o non rinforzato positivamente, e di conseguenza è estinto o evitato.
Glossario:
- Dipendenza emotiva: legame affettivo caratterizzato da subalternità e vulnerabilità nei confronti dell’aggressore.
- Love bombing: metodologia manipolativa tipica nelle relazioni abusive in cui periodi intensi di affetto servono a mantenere legata la vittima.
- Condizionamento operante: modalità d’apprendimento mediante cui il comportamento è modellato dalle ripercussioni successivamente ad esso.
Ciò nondimeno non costituisce una via priva d’uscita. Ogniqualvolta qualcuno riesce a infrangere il silenzio – come nel caso dell’insegnante proattivo che ha offerto salvezza a una famiglia oppure del giovane coraggioso che ha confidato ai docenti riguardo agli abusi subiti – s’instaura una lieve fessura dalla quale potrebbe filtrare l’essenza della speranza. La sorprendente resilienza dell’essere umano dimostra infatti che persino dopo interminabili periodi contrassegnati da maltrattamenti familiari vi è spazio per intraprendere nuovi cammini verso la rinascita; questo aspetto trova conferma in determinati interventi della Procura.
Questo implica necessariamente un richiamo alla riflessione collettiva. Ognuno di noi riveste il ruolo chiave nel proteggere sistemi valoriali condivisi e ci osserva pertanto responsabili: ogni segnale d’indifferenza si allea con altri pregiudizi taciti e gli strati ulteriormente accumulatisi nei nostri silenzi compongono insieme quel muro soffocante volto a opprimere le vittime. È fondamentale apprendere l’arte di percepire non solo le grida, ma anche i sussurri delicati, i silenzi significativi e gli sguardi carichi di emozione. L’educazione deve propendere verso un forte senso di empatia e ascolto attivo; queste sono qualità imprescindibili per costruire solidarietà autentica. È imperativo fornire supporto alle istituzioni e alle associazioni impegnate quotidianamente in questa lotta: occorre esigere da loro azioni pronte e umane, utilizzando mezzi sempre più evoluti. La sostanza della giustizia va oltre la semplice punizione degli erranti; deve piuttosto mirare ad assicurare a ciascuna persona il sacrosanto diritto a una vita pacifica, esente da timori o violenze. Solo mediante una rinnovata coscienza collettiva e un continuo sostegno reciproco si potranno realmente districare i complessi intrecci di questo sistema oppressivo, ridonando voce agli individui costretti nell’ombra del silenzio prolungato.
- Spiega i fattori psicologici che impediscono alle vittime di denunciare.
- Approfondimento sulla dipendenza affettiva patologica e la violenza nelle relazioni intime.
- Analizza come la colpevolizzazione della vittima ostacola la denuncia e l'emancipazione.
- Approfondimento sul reato di maltrattamenti in famiglia e implicazioni legali.