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Guerra e trauma: riscopri l’empatia perduta e proteggi la tua mente

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  • L'esposizione continua alla guerra può generare trauma vicario.
  • La guerra è un fenomeno recente, di circa 10.000 anni fa.
  • Nel 1910 William James teorizzò gli effetti psicologici vantaggiosi della guerra.
  • La spettacolarizzazione della violenza favorisce la sua accettazione come prassi.
  • La psiche disattiva le risposte empatiche a scopo protettivo.

Quando l’orrore diventa quotidiano

Viviamo in un’era in cui la manifestazione più brutale della natura umana, con le sue fragili fondamenta psicologiche, è costantemente esposta alla nostra attenzione. I conflitti armati, un tempo percepiti come lontani, sono diventati una presenza costante nelle nostre vite, specialmente per coloro che hanno vissuto decenni di relativa quiete. Siamo sopraffatti da un flusso incessante di informazioni, provenienti da fonti ufficiali e non, spesso prive di qualsiasi filtro. Questa esposizione continua a notizie sconvolgenti può generare quello che viene definito trauma vicario, una forma di identificazione emotiva con chi subisce direttamente eventi devastanti. Questa prossimità emotiva può innescare l’apparizione di sintomi post-traumatici, che si manifestano con una spiccata sensibilità o, paradossalmente, con stati di ottundimento emotivo e cinismo.

È un’assurdità pensare che la guerra sia un istinto connaturato all’uomo. Non siamo provvisti di artigli o zanne. Gli antropologi stimano che la guerra sia un fenomeno relativamente recente, databile a circa 10.000 anni fa, divenendo più frequente negli ultimi 6.000. Si presume che la tendenza al conflitto derivi dall’evoluzione e dalla socializzazione: il passaggio da un’esistenza nomade a una sedentaria ha creato la necessità di proteggere beni e risorse limitate. La convivenza ravvicinata nelle comunità, pur offrendo benefici, porta con sé la possibilità di perdere diritti, opportunità, risorse e la propria identità. La vita in contesti comunitari ampi, con i suoi limiti, alimenta un’insaziabile brama di potere per assicurarsi l’accesso alle risorse e superare tali restrizioni.

Il paradosso della guerra: distruzione e coesione

William James, un precursore della psicologia, nel 1910 teorizzò che la guerra fosse tanto diffusa a causa dei suoi effetti psicologici vantaggiosi, sia a livello individuale che collettivo. A livello sociale, il conflitto bellico promuove un senso di unità di fronte a una minaccia comune. Lo abbiamo potuto osservare durante la pandemia: l’essere umano rivela le sue migliori qualità nelle situazioni più difficili. La guerra unisce le persone contro un nemico condiviso, spingendo gli individui a comportamenti virtuosi per un obiettivo più grande. Emergono qualità come la resilienza, la disciplina, l’altruismo e lo spirito di sacrificio, spesso latenti nella vita quotidiana.
Paradossalmente, la guerra può essere scatenata da principi che alimentano un forte senso di legame e identificazione all’interno di un’etnia, di una nazione o di una fede. Un’adesione irremovibile a un gruppo trasforma automaticamente tutti gli altri in avversari e nemici, poiché il loro riconoscimento metterebbe a repentaglio la stabilità identitaria. Questo meccanismo di oggettivazione, che trasforma gli altri in esseri inferiori e privi di diritti, può spiegare le atrocità che l’uomo è in grado di compiere: sfruttare, opprimere e uccidere senza provare rimorso. È sconcertante pensare che le stesse capacità che hanno permesso all’umanità di evolvere – la collaborazione, la comunicazione, la riflessione, la narrazione e il senso di appartenenza – siano proprio quelle che ne minacciano l’esistenza.

Cosa ne pensi?
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L’assuefazione all’orrore: un meccanismo di difesa pericoloso

Nel mondo odierno, le immagini di guerra, i video di profughi e le testimonianze di massacri entrano nelle nostre case con una facilità mai vista prima. Tuttavia, la carica emotiva di queste rappresentazioni tende ad affievolirsi. Osserviamo queste scene con indifferenza, disinteresse o rassegnazione. Questa abitudine è un fenomeno complesso, legato a dinamiche psicologiche, culturali, mediatiche ed etiche. Il conflitto viene spesso narrato in modi che tendono a trasformarlo in uno spettacolo, integrandosi nell’intrattenimento quotidiano. *Questa spettacolarizzazione della violenza favorisce la sua accettazione come prassi.

La percezione di distanza, sia geografica che culturale, gioca un ruolo fondamentale nella reazione emotiva. Quando un conflitto si verifica in un luogo lontano o in una cultura percepita come diversa, attiviamo un meccanismo di distanziamento psicologico per salvaguardare un senso di sicurezza e controllo. A ciò si aggiunge la dissonanza cognitiva, il malessere che nasce dalla contraddizione tra l’immagine che abbiamo di noi stessi come persone empatiche e la nostra incapacità di agire. Per lenire tale dissonanza, il cervello minimizza l’importanza dell’evento, lo giustifica o lo ignora del tutto. Quando l’eccesso di notizie traumatiche diventa insostenibile, la psiche disattiva le risposte empatiche a scopo protettivo, portando a una progressiva insensibilità agli stimoli emotivi.

Risvegliare l’empatia: una sfida per la salute mentale

Sia essa combattuta, subita o osservata da lontano, la guerra genera una condizione persistente di allerta e operatività in modalità emergenziale. Il dovere di essere costantemente vigili impedisce di pianificare il futuro, persino in una posizione vantaggiosa. Queste circostanze perdurano anche una volta cessato il conflitto, finché non si recupera un senso di sicurezza. Ma se tutti siamo in stato di emergenza, chi potrà offrirci questa rassicurazione?

È fondamentale riconoscere e accogliere le emozioni che proviamo di fronte all’orrore della guerra. Provare paura è normale, così come avere pensieri negativi. L’ansia è essenziale per prepararci ad affrontare eventuali pericoli, ma non deve sopraffarci. Conversare con gli altri ci consente di alleggerire il peso, ridimensionare i pensieri e trovare comprensione. È importante dosare le informazioni, scegliendo un unico momento della giornata per informarsi, evitando di farlo prima di coricarsi. Infine, agire proattivamente, riflettendo su cosa possiamo fare di concreto nel nostro piccolo (inviare aiuti, sostenere associazioni), può contribuire a superare il senso di impotenza.

Oltre l’Indifferenza: Coltivare la Consapevolezza Emotiva

La sfida più grande risiede nel rimanere consapevoli di ciò che accade nel mondo senza perdere la lucidità necessaria per reagire agli eventi e riconoscerne la gravità. La scuola, in questo contesto, può svolgere un ruolo cruciale, aiutando i giovani a non dimenticare e a promuovere dibattiti costanti attraverso diversi canali. Come dimostra la storia, anche in mezzo al caos della guerra è possibile cercare frammenti di normalità, un modo per riaffermare il controllo sulla situazione e per riscoprire l’umanità quando questa è messa a dura prova.
Amici, la psicologia cognitiva ci insegna che i nostri schemi mentali influenzano profondamente il modo in cui percepiamo e reagiamo al mondo. Di fronte a eventi traumatici come la guerra, è fondamentale essere consapevoli di come questi schemi possono distorcersi, portandoci all’assuefazione o all’anestesia emotiva.

Un concetto più avanzato, legato alla neuroplasticità, ci rivela che il nostro cervello è in grado di modificarsi e adattarsi anche in età adulta. Questo significa che possiamo attivamente lavorare per ripristinare la nostra capacità empatica e per coltivare una visione del mondo più consapevole e compassionevole.

Vi invito a riflettere su come l’esposizione alle immagini di guerra influisce sul vostro stato emotivo e sulle vostre azioni quotidiane. Cercate di coltivare la consapevolezza, di condividere le vostre emozioni con gli altri e di agire in modo proattivo per contribuire a un mondo più giusto e pacifico. Ricordate, la nostra salute mentale è strettamente legata alla salute del mondo che ci circonda*.


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