Salute mentale: il silenzio dei lavoratori italiani costa 88,5 miliardi

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  • Solo il 33,5% dei dipendenti si sente a proprio agio a parlare di salute mentale.
  • L'84,7% dei lavoratori considera il disagio psicologico il problema più difficile da comunicare.
  • Il 60% della forza lavoro ha affrontato episodi di burnout.

I silenzi ingombranti della mente nei luoghi di lavoro italiani

Nell’intreccio delle aziende italiane emerge un sottile ma resistente legame tra il benessere psicologico e l’ambito professionale. Tuttavia ci sono zone grigie in cui il disagio mentale rimane occulto dietro un velo di silenzio. Tale dinamica non va considerata come isolata; essa funge da indicatore persistente che mette in luce le complessità stratificate della realtà contemporanea. Le statistiche attuali delineano uno scenario inquietante: soltanto il 33,5% dei dipendenti si sente a suo agio nell’aprire le proprie problematiche riguardanti la salute mentale ai superiori. Questa cifra acquisisce rilevanza quando associata al dato secondo cui ben il 51,1% degli intervistati nutre timori riguardo a possibili conseguenze negative sulla loro carriera derivanti da tale vulnerabilità espressiva. Cortocircuito comunicativo, infatti.

Dunque la paura qui non risulta essere solo un’astrazione vagheggiata; rappresenta piuttosto <<una vera urgenza legata all’evoluzione della propria carriera>>, alla sicurezza del posto occupato e all’immagine personale percepita nel contesto lavorativo.

L’stigma associato alla percezione del disagio psicologico è sorprendentemente ancorato nella società: ben l’84,7% dei lavoratori italiani lo considera il problema più arduo da comunicare, superando persino le difficoltà legate a condizioni fisiche avverse. Questa statistica mette in luce che la fragilità mentale non viene affatto vista come una dimensione intrinseca dell’esistenza umana; piuttosto essa continua a essere interpretata erroneamente come un dote mancante o semplice sottovalutazione della propria capacità, giudicabile negativamente rispetto ai parametri d’efficienza attesi. I riflessi derivanti da tale visione risultano evidenti: fenomeni quali la depressione e lo stress associato al burnout rappresentano questioni scarsamente esplorate dal 46,1% e 41% dei lavoratori rispettivamente. Queste proporzioni delineano nettamente non solo sfide individuali ma anche i confini ben definiti di una sistematica crisi sociale.

Sempre facendo riferimento al momento critico del ritorno dalle vacanze nel mese settembrino, questo frangente si presenta particolarmente delicato poiché si registra circa un aumento delle risposte emotive negative. Uno spaventoso numero vicino a quasi un quarto totale della forza lavoro riporta esperienze legate al sentirsi insoddisfatti rispetto ai propri traguardi personali oppure alla comparsa reale delle problematiche connesse al fenomeno del burnout.

Le generazioni più giovani, tra i 20 e i 24 anni, si dichiarano le più provate, schiacciate da pressioni lavorative, incertezze economiche e un incessante senso di confronto sociale, amplificato dalla cultura digitale che permea ogni aspetto della vita.

Dietro la scelta del silenzio si annodano molteplici ragioni, spesso interconnesse, che tessono una rete di motivazioni complesse. Un quarto degli intervistati rivela una profonda mancanza di fiducia nei confronti della dirigenza, ritenuta incapace o disinteressata alla comprensione delle problematiche psicologiche. Una percentuale quasi identica, il 24%, esprime il timore di essere etichettato come debole o poco professionale, mentre il 19% si preoccupa di immediate ripercussioni sulla propria carriera o sulla sicurezza del posto di lavoro stesso.

Statistiche aggiornate: Secondo l’ultimo rapporto INAIL, nel quinquennio 2019-2023 sono state denunciate oltre 2.000 patologie psichiche registrate presentano un tasso di riconoscimento delle malattie professionali fissato al 7,3%, se comparato ad altre condizioni patologiche. I settori maggiormente interessati: Sanità (11,8%), commercio al dettaglio (9,8%) e pubblica amministrazione (6,3%).
I principali fattori predisponenti: Più del 40% dei casi è correlato a rapporti interpersonali problematici nel contesto lavorativo.

A questo proposito è opportuno notare come in molte aziende manchi un ambiente culturale favorevole al dialogo aperto e alla comprensione, generando così situazioni in cui la comunicazione viene ostacolata. In tale atmosfera negativa i disagi possono radicarsi profondamente per poi manifestarsi con espressioni acute o addirittura irreversibili. È importante sottolineare che tali silenzi non derivano semplicemente da scelte passive; piuttosto rappresentano le conseguenze dell’esistenza di sistemi valoriali sottilmente trasmessi – sia nell’aspetto esplicito sia implicito – volti a dissuadere dalla trasparenza emotiva.

L’eco del disagio: Burnout, dimissioni e la fragilità delle nuove generazioni

L’AMBITO DEL DISAGIO MENTALE all’interno delle aziende rappresenta una questione concreta e lontana dall’essere secondaria; esso prende forma attraverso esperienze palpabili condivise dai lavoratori stessi e influisce decisamente sulle loro scelte professionali. In effetti, più del 60% della forza lavoro ha dichiarato di aver affrontato almeno una volta nella carriera episodi legati al burnout, caratterizzato da uno stato intenso di esaurimento sia fisico sia emotivo capace di intaccarne motivazione ed energia vitale. Tuttavia, gli effetti vanno oltre l’ambito individuale: circa un quinto dei dipendenti ha deciso di abbandonare la propria occupazione poiché colpiti da alti livelli di insostenibile stress o altre difficoltà psicologiche correlabili alla sfera lavorativa. È interessante notare come tale situazione sembri aggravarsi tra coloro che operano da remoto; ben il 28% delle persone coinvolte in tali modalità hanno presentato dimissioni dettate dalla necessità primaria di difendere la loro integrità mentale. Questa statistica mette in luce come la flessibilità fornita dal telelavoro possa celare pressioni elevate e isolamenti talvolta deleteri per lo stato psichico degli individui.

A questo punto risulta necessario soffermarsi anche sui differenti atteggiamenti evidenziati dal punto di vista delle questioni relative al genere: infatti, è osservabile una predisposizione maggiore nelle donne rispetto agli uomini nel prendere decisioni riguardo a eventuali cambiamenti lavorativi nel tentativo di allontanarsi dalle condizioni opprimenti segnate dal(stress cronico).

Secondo un’indagine condotta nel 2025, il 56% dei lavoratori tra i 25 e i 34 anni ha segnalato livelli preoccupanti di stress sul posto di lavoro, configurando una realtà allarmante per le generazioni più giovani.

Città % Stressati % Senz’altro Stressati % Burnout % Insoddisfatti
Bologna 55% 53% 36% 32%
Genova 60% 55% 35% 25%
Milano 45% 53% 35% 24%
Napoli 46% 50% 29% 29%
Roma 51% 43% 32% 21%

I dati raccolti evidenziano inoltre una crescente vulnerabilità delle fasce più giovani. In aggiunta a quanto già menzionato, emerge l’importanza della FOMO lavorativa (Fear Of Missing Out), ossia quell’ansia relativa alla possibilità di rimanere esclusi da opportunità professionali o da informazioni cruciali. Tale fenomeno amplifica ulteriormente timori legati all’inoccupabilità e alla crisi economica attuale; queste preoccupazioni sono collegate a una maggiore incidenza sulla salute mentale che può sfociare nella depressione o nei disturbi d’ansia. La Società italiana di psichiatria ha evidenziato questi aspetti rilevanti.

Il contesto attuale appare critico: dati recenti indicano infatti che circa il 41% dei lavoratori italiani avverte una mancanza sostanziale nell’assistenza alla propria salute mentale sul posto di lavoro. Anche se nel dibattito pubblico l’importanza del benessere psicologico sta acquisendo sempre più attenzione, le politiche aziendali ancora tardano a diventare effettive e percepite positivamente dai dipendenti stessi. Infatti, solo un modesto 32% delle persone occupate ha la sensazione concreta di poter condividere le proprie difficoltà senza timore; impressionante è anche notare che quasi quattro dipendenti su dieci (40,3%) sentono disagio oppure trepidazione all’idea d’interloquire su tali questioni con i superiori.

Attenzione sulla demografia: Secondo uno studio del Censis, il malessere psicologico nel mondo del lavoro coinvolge oggi il 47,7% dei giovani, il 28,2% degli adulti, e il 23,0% dei dipendenti più anziani.

Un’analisi del burnout indica che “il costo economico per le aziende italiane ammonta a circa 88,5 miliardi di euro all’anno”[Fonte], sottolineando l’urgenza di interventi efficaci. In Italia, si assiste a una crescente emersione dell’ADHD come disturbo sempre più richiesto. Questo fenomeno indica non solo una maggiore consapevolezza riguardo alla problematica, ma anche l’urgenza di attuare diagnosi adeguate; tuttavia, esiste anche il rischio concreto di esercitare ulteriore pressione su quegli individui già impegnati nella lotta contro le sfide legate all’difficoltà di attenzione e all’organizzazione sul posto di lavoro.

I fattori quali il precariato, lo stress elevato e la cultura dell’iper-lavoro vengono riconosciuti come determinanti essenziali che incrementano notevolmente i rischi associati alla salute mentale. Si delinea quindi uno scenario nel quale il contesto occupazionale stesso può trasformarsi da spazio dedicato allo sviluppo personale a elemento destabilizzante capace di alimentare ulteriormente la sensazione d’inquietudine, anziché fungere da supporto efficace.

Cosa ne pensi?
  • Finalmente un articolo che mette in luce la gravità del problema... 👍...
  • 88,5 miliardi! 😱 Ma le aziende cosa fanno per aiutarci?... ...
  • E se il vero problema fosse la cultura del lavoro tossica?... 🤔...

Soluzioni e prospettive: Oltre lo stigma verso una cultura aziendale empatica

Nell’ambito del contesto attuale, caratterizzato da un significativo disagio mentale che trova espressione attraverso silenzi protratti e crescenti dimissioni dal lavoro, emerge inequivocabile la necessità urgente di adottare strategie efficaci. Queste dovrebbero guidare le aziende verso l’adozione di una nuova cultura organizzativa fondata su valori solidi. Le istanze sollevate direttamente dai lavoratori pongono delle priorità specifiche che tracciano un sentiero definito: quello della conversione dello stigma associato al disagio in una maggiore consapevolezza collettiva e della paura individuale in rinnovata fiducia reciproca all’interno dei contesti professionali. A tal proposito si evidenzia come al vertice dell’elenco vi sia la richiesta del 46,3% per fornire una formazione mirata ai dirigenti; tali figure devono possedere competenze nella gestione delle interazioni sensibili ed essere capaci non solo nel manifestare empatia ma anche nel decifrare le complesse dinamiche riguardanti la salute mentale sul luogo di lavoro. I leader sono quindi chiamati a rivestire non soltanto il ruolo tradizionale dei semplici amministratori delle risorse umane ma soprattutto quello fondamentale dei veri facilitatori, ossia promotori attivi del benessere collettivo grazie alla loro predisposizione all’ascolto.

Tale esigenza è perfettamente corroborata dal Rapporto Randstad (2023), secondo cui quasi il 50% delle aziende italiane ha già avviato politiche orientate al benessere; tuttavia, l’efficacia.

Una seconda priorità (31,3%) riguarda l’implementazione di iniziative aziendali dedicate al benessere psicologico, che non si limitino a interventi sporadici, ma si traducano in programmi strutturati e momenti di confronto regolari.

Risultati dell’Osservatorio 2025 sul benessere psicologico: L’85,3% dei lavoratori desidera programmi di supporto psicologico, e il 49,9% chiede controlli sanitari.

Questi spazi, pensati per favorire il dialogo e la condivisione, possono veicolare una cultura di maggiore apertura, rendendo il supporto psicologico una risorsa tangibile e accessibile. Si inseriscono qui le pratiche di welfare aziendale, che promuovono il benessere fisico, psicologico e sociale di tutti. Tuttavia, un elemento cruciale, sottolineato dal 15,5% degli intervistati, è la necessità di canali di supporto anonimi, che garantiscano riservatezza e protezione a chi cerca aiuto. La paura di ripercussioni sulla carriera, infatti, può essere superata solo da un sistema che protegga l’identità del lavoratore, creando un ambiente in cui la vulnerabilità non sia un rischio, ma uno spazio di cura.

Infine, un’altra richiesta fondamentale è una maggiore trasparenza e visibilità sulle risorse disponibili. Attualmente, il 66,4% dei dipendenti dichiara di non essere a conoscenza degli strumenti di supporto esistenti, rendendo vani anche gli sforzi aziendali. Questo sottolinea l’importanza di una comunicazione chiara, accessibile ed efficace. Politiche come il supporto psicologico, programmi di nutrizione e l’accesso a palestre aziendali, pur essendo importanti, necessitano di essere promosse attivamente e con continuità.

Impatto economico dello stigma: Il fenomeno del burnout costa alle aziende italiane circa 88,5 miliardi di euro, e la creazione di una cultura empatica e aperta non è solo una scelta etica, ma anche strategica per la sostenibilità delle organizzazioni.

Superare lo stigma significa quindi costruire un ambiente di lavoro più umano e inclusivo, in cui il sostegno psicologico sia visibile e i manager fungano da figure di ascolto autentico. L’investimento in questione presenta un ROI umano (Return On Investment umano), traducendosi nell’individuazione delle spese collegate al disagio lavorativo. Esso comporta l’analisi del tasso di assenteismo e turnover, oltre a consentire una valutazione approfondita dell’impegno e della produttività tra i dipendenti.

I giorni dedicati alla Salute Mentale a livello mondiale, specialmente quello fissato per il 10 ottobre, svolgono un ruolo cruciale nel promuovere una maggiore consapevolezza su questa tematica essenziale. Questi eventi hanno il potere di stimolare una reale trasformazione sociale; tuttavia, è fondamentale che tali occasioni vengano concretizzate attraverso interventi continui all’interno delle aziende.

Oltre la facciata: Il cammino verso il benessere autentico

Comprendere il fenomeno del silenzio sui temi della salute mentale sul luogo di lavoro ci porta a un’esplorazione profonda della psicologia cognitiva e comportamentale. A un livello più basilare, la mente umana tende a evitare le minacce percepite. Se un individuo associa la rivelazione di un disagio psicologico a un potenziale danno per la carriera—come essere etichettato, demansionato o, nel peggiore dei casi, licenziato—il cervello attiverà meccanismi di difesa che impediscono tale comunicazione. È un processo automatico, spesso inconscio, che mira a mantenere una condizione di sicurezza o, per lo meno, a evitare un pericolo immediato. Questa tendenza è ben radicata nell’esperienza dei traumi e nello sviluppo di meccanismi di coping: quando una vulnerabilità è stata in passato associata a conseguenze negative (anche solo attraverso l’osservazione sociale), la mente impara a mascherarla.

A un livello più avanzato, il concetto di “stigma interiorizzato” gioca un ruolo cruciale. Non si tratta solo della paura del giudizio esterno, ma di un processo in cui l’individuo stesso assorbe e fa proprie le convinzioni negative stereotipate sulla malattia mentale. Questo porta a credere di essere debole o inadeguato se si sperimenta un disagio, amplificando il senso di vergogna e colpa. In termini di psicologia comportamentale, l’atto di cercare aiuto diventa un comportamento punito, non solo dall’ambiente esterno ma dal proprio sistema di credenze. Per sciogliere questo nodo, le politiche aziendali non possono limitarsi a offrire servizi, ma devono agire sulla cultura sottostante, decostruendo attivamente questi pregiudizi interiorizzati, non solo formando i dirigenti, ma anche creando testimonianze positive e storie di successo di persone che hanno superato il disagio.

Questo implica una riflessione profonda: se la nostra identità professionale è così intrecciata alla percezione di infallibilità e resilienza assoluta, non è forse tempo di riconsiderare cosa significhi davvero essere “forti” in un mondo complesso? Forse, la forza più grande risiede proprio nella capacità di riconoscere le proprie fragilità e di chiedere aiuto.

Glossario:
  • FOMO: Fear Of Missing Out, paura di essere esclusi da opportunità lavorative.
  • Stigma interiorizzato: l’assorbimento delle convinzioni negative sulla malattia mentale da parte dell’individuo stesso.
[Fonte] Unobravo – Costo del burnout in Italia (2025)




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