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Cinema e trauma palestinese: Come Cherien Dabis racconta una storia di resilienza?

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  • Il film «tutto quello che resta di te» è stato scelto per rappresentare la Giordania agli Oscar 2026.
  • Il 40% dei bambini palestinesi soffre di disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
  • Il film è stato completato in esilio tra Cipro, Giordania e Grecia.

Il cinema, con la sua ineguagliabile capacità di trascendere i confini culturali e linguistici, si rivela uno strumento potente per esplorare le profonde ripercussioni del trauma storico e collettivo. In questo contesto, il lavoro della regista palestinese-statunitense Cherien Dabis si distingue per la sua sensibilità e la sua ricerca di una narrazione che, pur non essendo esplicitamente politica, riesce a svelare le cicatrici invisibili lasciate da decenni di conflitto e spostamento. Il suo ultimo lungometraggio, Tutto quello che resta di te (titolo originale: All that’s left of you), già presentato al Sundance Film Festival e scelto per rappresentare la Giordania agli Oscar 2026, si propone come una testimonianza viscerale della storia palestinese, attraversando le vicende di una famiglia per illuminare gli snodi cruciali che hanno plasmato l’attuale condizione del popolo.

Biografia di Cherien Dabis:
Nome: Cherien Dabis
Luogo di nascita: Omaha, Nebraska, USA
Formazione: Università di Cincinnati (BA), Columbia University (MFA)
Carriera: Regista, sceneggiatrice e produttrice, nota per il suo impegno nell’autenticità della rappresentazione araba a Hollywood.
Premi: Nominata fra i dieci cineasti promettenti secondo Variety nel 2009 ed insignita nello stesso anno con un prestigioso premio Fellowship dagli United States Artists nel 2010.

Dabis è una figura artistica affascinante: nativa dell’Ohio e discendente da genitori palestinesi. Ha dedicato una notevole porzione della sua opera ad analizzare le sfide identitarie incontrate nell’incrocio fra diverse culture. Attraverso le sue opere precedenti come Amreeka, realizzata nel 2009, e May in the Summer, pubblicato nel 2013, ha sagacemente esaminato quel sottile confine esistenziale caratterizzato dal non sentirsi mai totalmente radicati altrove: uno stato continuo ove coesistono differenti influenze culturali insieme a sogni frustrati dalle aspettative esterne. Con l’ultima creazione intitolata Tutto quello che resta di te, ella intraprende un’indagine ancor più intima; riportandosi verso le proprie origini per evocare storie ricche della sua gente. La pellicola affronta intensamente ciò che è andato irrimediabilmente perduto sotto assalti mirati a cancellare sia la cultura che l’identità palestinese—un argomento che riverbera perfettamente anche all’interno del titolo scelto per questo film.

Il racconto storico viene scomposto su tre importanti tappe cronologiche: gli eventi del 1948, quelli correlati al 1978 ed infine quelli riconducibili al 1988, iniziando dalla drammatica esperienza della Nakba: quella tragica realtà segnata dall’instaurarsi dello Stato israeliano seguito dall’esilio forzato per centinaia di migliaia di torturanti palestinesi—fino ai tumultuosi periodi delle Intifada.
Nella cornice attuale del cinema contemporaneo spicca la decisione stilistica assunta da Dabis per dare rilievo al suo film. In questo periodo in cui siamo immersi quotidianamente nella brutalità efferata delle immagini proposte dai mezzi d’informazione, Tutto quello che resta di te si distingue per aver scelto una strada differente: quella contrassegnata dal sublime e dall’implicito. Gli sconvolgimenti su vasta scala ed episodi violenti presenti nella narrativa mainstream risultano quindi relegati sullo sfondo; tali situazioni sono solo accennate attraverso eco provenienti da fonti audiovisive. La regista indirizza il proprio sguardo piuttosto verso una forma di distruzione intima, poiché questa incide profondamente sulle vite personali e sui rapporti familiari degli individui coinvolti. Così facendo, l’opera si trasforma in un insieme corale di voci diverse: essa rappresenta un grido collettivo amplificato dalle esperienze intime dei protagonisti, mettendo a nudo l’impatto devastante dell’esilio e della mancanza sui legami interpersonali.

L’approccio adottato da Dabis sottolinea con chiarezza quanto i fenomeni storici rivestano una rilevanza cruciale nelle narrazioni singolari dei personaggi. Sharif è un personaggio simbolico nella narrazione: dapprima incarnato da Adam Bakri negli anni ’40 e successivamente dalla figura attoriale di Mohammad Bakri. La sua evoluzione riflette una metamorfosi profonda: inizialmente è delineato come un giovane carismatico impegnato nel commercio delle arance ed è descritto come un padre affettuoso dotato di grande fascino; tuttavia, il passare del tempo segna una radicale trasformazione in lui causata dagli avvenimenti trascorsi. Tale costruzione narrativa consente non solo di affrontare la tematica della violenza fisica, ma invita anche a esplorare quelle forme psicologiche, mentali, spirituali e dell’umiliazione che sono troppo frequentemente ignorate o rimanenti nell’ombra.
L’intera produzione cinematografica ha dovuto fronteggiare ostacoli considerevoli che rispecchiano le tensioni dell’esperienza palestinese contemporanea. A seguito di cinque lunghi mesi dedicati alla preparazione sul campo in Palestina – incluso l’arrivo della troupe internazionale a Ramallah per effettuare i sopralluoghi necessari – tutto questo si è svolto solo un giorno prima dell’inizio degli eventi critici avvenuti il 7 ottobre 2023; tale contesto emergenziale ha costretto dunque all’evacuazione della squadra internazionale lasciando tristemente indietro membri dello staff palestinese coinvolti nel progetto stesso. Il film è stato quindi completato attraverso un percorso di esilio tra Cipro, Giordania e Grecia, affrontando continue interruzioni e difficoltà finanziarie. Dabis stessa ha sottolineato come il film abbia vissuto ciò che ogni palestinese sperimenta: la guerra e l’esilio, una tragica concomitanza tra la narrazione filmica e la realtà vissuta durante la produzione.

Il trauma transgenerazionale e la resilienza palestinese

La tragedia del popolo palestinese, reiterata e profondamente radicata nella storia, è stata oggetto di analisi non solo attraverso le lenti dell’arte, ma anche da quelle della psicologia. Un concetto chiave per comprendere l’impatto di questa sofferenza è il trauma transgenerazionale, un fenomeno ampiamente riconosciuto in psicoanalisi e psicologia sociale. Questo si manifesta quando il dolore e le ferite di una generazione non vengono elaborati appieno e vengono invece trasmessi, spesso inconsciamente, alle generazioni successive. Nel contesto palestinese, le esperienze di violenza, umiliazione e esilio si tramandano, di fatto, di generazione in generazione, rendendo il trauma una condizione cronica e coloniale.

Recenti ricerche sul trauma transgenerazionale:
Secondo uno studio recente (Mulligan, 2025), adulti e bambini siriani testimoni diretti di violenze presentano segni epigenetici distintivi già nelle generazioni successive. Le manifestazioni visibili sono una chiara testimonianza delle esperienze traumatiche precedenti; ciò mette in luce come traumi non affrontati possano esercitare influenze intrinseche nei lunghi conflitti. La rinomata psichiatra palestinese Samah Jabr ha messo a fuoco l’impatto persistente del trauma sull’identità collettiva dei palestinesi con affermazioni che parlano dell’argomento in termini reiterati, costanti e subdoli. Secondo le sue osservazioni dettagliate, questa ferita accumulativa si trasforma col tempo nell’essenza stessa dell’esistenza medesima dei popoli coinvolti; ella ha condiviso importanti riflessioni durante un’intervista avvenuta a luglio 2017, dove ha descritto le violenze inflitte alla comunità locale insieme agli effetti devastanti sul piano psicologico. Tale situazione porta alla ribalta una disparità significativa nelle dinamiche di potere presenti nella regione – una barriera significativa verso una possibile guarigione comunitaria o verso qualsiasi forma futura d’intesa reciproca. Purtroppo per gli abitanti sotto occupazione israeliana è arduo scorgere nelle teorie della psicologia tradizionale validi riferimenti al loro specifico trauma storico, coloniale e della solastalgia, quest’ultima intesa quale angoscia esistenziale provocata da modifiche ambientali avverse ed esperienza acuta della perdita del proprio spazio vitale – manifestandosi frequentemente senza apparenti sintomi evidenti.
Molti professionisti della salute mentale che operano nelle aree di conflitto, come quelli di Medici Senza Frontiere (MSF) a Gaza, confermano la gravità della situazione. Davide Musardo, psicologo di MSF, ha descritto una realtà drammatica in cui molte persone, spesso, non riescono neanche a raccontare la propria sofferenza. La psicologa Aurelia Barbieri, anch’essa di MSF, ha espresso una preoccupazione profonda, affermando che ci vorranno generazioni per elaborare questi traumi. Questo sottolinea la persistenza e la complessità di ferite che non riguardano solo l’individuo, ma l’intera collettività.
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  • 🎬 Un film potente che celebra la resilienza palestinese......
  • 🤔 Mi chiedo se l'approccio "sublime e implicito" sia sufficiente......
  • 💔 Il trauma transgenerazionale palestinese: un'eredità invisibile che......
  • ✨ L'arte come resistenza: un faro di speranza e resilienza......
  • 😔 Non sono convinto che il film possa cambiare la situazione......
  • 🌍 È essenziale capire come il trauma storico influenzi le nuove generazioni......

Il conflitto e la salute mentale infantile

Crisi nella salute mentale dei bambini: Secondo un rapporto dell’UNICEF del 2024, il 40% dei bambini palestinesi soffre di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e non riceve le cure necessarie. Questa mancanza di supporto psicologico può avere conseguenze devastanti sulla salute mentale delle generazioni future, creando un ciclo di trauma che rischia di ripetersi. Hisham Bawakna, specialista in psichiatria per la Sanità Pubblica e attivo come volontario del PHRI a Gaza, ha osservato che i medici locali tendono a non considerare un lieve post-trauma come tale poiché viene percepito come qualcosa di consueto. Questo processo di normalizzazione riguardante il dolore riflette l’ampiezza dell’effetto psicologico generato dalle condizioni attuali e la sua radicata diffusione all’interno della popolazione. Damiano Rizzi, appartenente all’organizzazione Soleterre, ha posto l’accento su una dimensione vitale: il danno psicologico più profondo è la trasformazione della paura in normalità. L’assuefazione a questa condizione caratterizza ora i momenti ordinari delle persone ed evidenzia gravi compromissioni nel benessere mentale.

Malgrado le incredibili sfide da affrontare quotidianamente, un elemento chiave nella narrazione palestinese si focalizza sul termine sumud, vocabolo arabo simbolico che riassume un’idea forte di resilienza e speranza indomita. Quest’espressione implica tenacia davanti alle avversità ed è diventata segno distintivo nell’ambito della lotta palestinese. La cultura e l’arte emergono come veicoli essenziali per esprimere la sofferenza e mantenere viva la memoria. Dalla musica alle arti visive, diverse iniziative testimoniano questa forza. “Voci e musiche dalla Palestina” e il progetto “Mentre il Mondo Guarda” di Gina Nakhle Koller, edito da Eris Edizioni nel 2025, sono esempi di come l’arte si schieri apertamente a sostegno di Gaza, cercando di non rimanere indifferenti di fronte alla vastità della tragedia. La poesia, in particolare, come dimostrato dalla raccolta “Il loro grido è la mia voce” (Fazi editore, 2024), offre una testimonianza diretta della distruzione di un popolo, anche se non può salvarlo.

L’arte palestinese come strumento di memoria e identità

L’arte, in tutte le sue forme, si conferma un veicolo insostituibile per la trasmissione della memoria storica e la riaffermazione dell’identità culturale, soprattutto in contesti segnati da profonde lacerazioni. Per il popolo palestinese, l’espressione artistica diventa un atto di resistenza, un modo per sfidare l’oblio coloniale e per raccontare la propria storia a un mondo spesso distratto o silente. Musei, mostre e iniziative culturali non sono semplici spazi espositivi, ma veri e propri presidi di memoria, luoghi dove la sofferenza si trasforma in creatività, e la distruzione in un potente messaggio di resilienza.

Un esempio significativo è il Palestine Museum US, che con le sue opere sfida la narrazione dominante, portando le storie palestinesi da Gaza a Bologna, passando per Venezia e Edimburgo. Questo “Museo Disperso” itinerante rappresenta un tentativo di ricomporre una memoria frammentata, presentando un’arte che non si limita alla mera denuncia, ma che celebra la vitalità e la profondità di una cultura. Nel maggio 2025, ad esempio, è stato inaugurato un museo europeo di arte contemporanea palestinese in Scozia, una nuova piattaforma per opere di pittura, scultura e installazioni che raccontano le molteplici sfaccettature della vita palestinese. A Roma, nel gennaio 2025, gli spazi di Micro Arti Visive hanno ospitato “Resti di Gaza”, una mostra evento dell’artista Yasmine Aljarba, a dimostrazione di una vivacità culturale che emerge anche dalle macerie.

Il potere dell’arte nella memoria collettiva: L’arte palestinese non è solo un mezzo di espressione, ma un potente strumento di memoria e identità che sfida l’oblio, fornendo ai Palestinesi un modo per raccontare la loro storia e resistere alla cancellazione culturale.

La Biennale a Gaza, nonostante le difficoltà e il contesto devastato, è un’altra testimonianza eloquente di questa forza inarrestabile. Come rilevato nel dicembre 2024, l’arte è lo strumento più potente per esprimere la sofferenza dei palestinesi e per collegare le loro storie con il resto del mondo. Quest’iniziativa segna una rinascita dell’arte in un contesto devastato: essa evidenzia come il potere creativo non solo sopravviva agli ostacoli, ma trova ulteriore slancio nelle difficoltà. Si configura così come un faro luminoso per chi cerca speranza e comunica valori universali. Lanciato ad aprile 2025 da quaranta artisti provenienti da tutto il mondo per sostenere Gaza, questo progetto intende dare voce alla tragedia palestinese, utilizzando il linguaggio culturale.

Nel panorama della memoria collettiva emerge Cherien Dabis con le sue opere cinematografiche; ella gioca un ruolo cruciale nel mettere insieme i fili del ricordo storico. Intendendo mostrare l’autenticità della cultura palestinese – frequentemente soggetta a interpretazioni riduttive o errate – rivela vite quotidiane afferenti a famiglie benestanti ed erudite nell’affascinante Jaffa degli anni ’40. Ricostruendo minuziosamente gli spazi domestici dell’epoca e immergendosi nei particolari degli aranceti, così come nelle abitudini delle persone comuni, mette in luce quanto è stato portato via ai palestinesi, celebrando al contempo una comunità fervida d’amore per la poesia, la letteratura e il cinema. Questa narrazione contro-stereotipica è un pilastro fondamentale per contrastare la disumanizzazione e la cancellazione culturale.

La forza dell’umanità nelle parole di Dabis

Citazione significativa: Nel film di Dabis, un imam pronuncia: “Anche la tua umanità è resistenza, è la sola cosa che nessuno può portarti via”. Questa frase cattura l’essenza della resilienza palestinese e invita a riscoprire la forza intrinseca dell’essere umano, un invito a resistere e cercare la guarigione anche nei tempi più bui.

La regista ha evidenziato come gli abitanti di Gaza, nonostante tutto, siano tra le persone più istruite al mondo, a riprova della vitalità e della resilienza intellettuale di un popolo che si aggrappa alla cultura come forma di resistenza.

Tracciare il sentiero verso la guarigione: Uno sguardo psicologico

Nella trama intricata delle esperienze umane si profila chiaramente l’ombra del trauma; questa realtà si rivela non solo una ferita soggettiva, ma anche uno strumento sociale che attraversa comunità intere nel tempo. Per quanto concerne gli appartenenti al popolo palestinese – custodi di una storia segnata da devastazione continuativa – tale esperienza traumatica viene vissuta come qualcosa di intrinsecamente radicato: essa funge da eredità psichica elaborata attraverso intricate vie simboliche ed emotive. La questione cruciale è quindi: quali contributi può apportare la psicologia per discernere i contorni soffusi della guarigione dentro a scenari tanto carichi?

Sotto l’ottica della psicologia cognitiva, occorre notare che gli effetti del trauma possono modificare radicalmente le strutture cognitive degli individui; esso altera nettamente non soltanto la nostra visione del mondo circostante, ma anche i meccanismi attraverso cui interpretiamo ciò che accade attorno a noi. Nei casi estremi come quello del conflitto persistente dei palestinesi riscontriamo lo sviluppo frequente di schemi mentali distorti; fra questi emergono sia una paura incessante dal sapore onnipresente, sia un’eccessiva allerta nei confronti dell’ambiente esterno, oltre alla sensazione paralizzante d’impotenza nei confronti dell’esistenza quotidiana. Addentrandoci in una disamina più approfondita, la psicologia transgenerazionale ci fornisce uno spunto affascinante oltreché complesso. Non si limita semplicemente alla trasmissione lineare di memorie o esperienze da una generazione all’altra; piuttosto descrive una trasmissione inconscia delle dinamiche emotive e dei modelli comportamentali, quasi come se vi fosse in gioco un debito psichico mai saldato. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei contesti di traumi collettivi e storici, dove il silenzio e il non detto possono persistere per decenni.

Importanza della elaborazione del trauma:
L’elaborazione del trauma è fondamentale per evitare la sua ripetizione in forme diverse. Se il trauma non viene simbolizzato e condiviso, può generare reazioni collettive quale la violenza o l’iper-vigilanza, trasformando la comunità in un corpo collettivo segnato da un dolore irrisolto.

Nel caso palestinese, le ferite della Nakba, dell’esilio e della violenza continuano a risuonare, non tanto come ricordi diretti, ma come fantasmi nel presente, influenzando le relazioni familiari, i legami sociali e la costruzione dell’identità. I figli e i nipoti possono manifestare ansia, depressione o difficoltà relazionali che, se non interpretate alla luce di questa eredità transgenerazionale, rischiano di rimanere incomprensibili. In situazioni come queste, il ruolo della terapia trascende la mera gestione dei sintomi evidenti; si configura piuttosto come un processo atto ad assistere l’individuo nella decostruzione dell’eredità invisibile accumulata nel tempo. Questo implica il riconoscimento delle ferite familiari – ossia quelle sofferenze storiche che, pur non essendo strettamente personali, influenzano profondamente l’identità individuale – al fine di trovare strategie efficaci per spezzare il ciclo della trasmissione traumatica attraverso le generazioni. Ciò rappresenta indubbiamente un’esplorazione dell’archeologia dell’anima, proiettata verso i recessi del passato con lo scopo preciso di illuminare le realtà contemporanee e pavimentare vie nuove verso una condizione futura caratterizzata da maggiore liberazione consapevole.

In questo contesto palestinese si afferma con vigore il concetto di resilienza sotteso al termine sumud: essa ci mostra come l’essere umano sia dotato di una capacità insita nell’adattamento, anche quando confrontato con impossibili prove estreme. La resilienza qui manifesta invece riconosce ed abbraccia anche il dolore vissuto: essa diventa simbolo vibrante della forza indomita dello spirito umano stesso. Di conseguenza, l’arte, la narrazione, la musica ed la poesia s’incarnano quali manifestazioni artistiche significative: esse emergono come strumenti essenziali d’autoterapia collettiva – spazi vitali dove potere liberarsi dal peso del dolore condiviso; in tal modo, quel patire trova opportunità tangibili per rielaborarsi creativamente all’interno di una comunità coesa che continua a pulsare ed esistere contro ogni previsione. Riflettere su queste dinamiche ci spinge a considerare la nostra umanità, a chiederci come reagiremmo di fronte a sfide così estreme e, soprattutto, a riconoscere il potere terapeutico della narrazione, dell’ascolto e dell’empatia in ogni contesto della nostra esistenza. Perché, in fondo, la sola cosa che nessuno può portarti via, come suggerisce saggiamente l’imam nel film, è proprio la nostra umanità, e con essa la capacità di sperare, di resistere e di cercare la guarigione.

Glossario:
  • Sumud: Concetto palestinese di resilienza e perseveranza di fronte alle avversità.
  • KNA: Chiunque si trovi in una condizione di sospensione tra culture e appartenenze, spesso testimoniando conflitti geopolitici.

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