Colpi di testa nel calcio: Qual è il vero rischio per il cervello?

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  • Risonanze magnetiche rivelano anomalie nella sostanza bianca del cervello in 352 calciatori amatoriali.
  • Il 65% dei pazienti con trauma cranico non raggiunge un recupero completo entro 6 mesi.
  • Studio sui combattimenti a schiaffi: lesioni cerebrali nel 78% dei partecipanti.

L’ombra invisibile sul campo: i traumi cerebrali nello sport

Il campo sportivo rappresenta da sempre un amalgama vibrante di passione autentica e impegno costante verso il raggiungimento dell’apice delle capacità fisiche. Tuttavia, oltre ai riflettori scintillanti che mettono in risalto performance eccezionali, si cela una questione sinistra poco esplorata: i traumi cranici lievi ripetuti. Nel contesto attuale delle neuroscienze, che si intrecciano progressivamente con la medicina dedicata allo sport, emerge così la necessità impellente d’indagare questo fenomeno oscuro per comprenderne meglio i rischi associati; tale ricerca orienta inoltre verso innovativi approcci terapeutici e preventivi.

Di recente, c’è stata particolare attenzione rivolta a uno specifico elemento ampiamente presente nella pratica calcistica: il colpo di testa. Un’indagine recente ha rivelato dati sorprendenti presentati nel novembre del 2024 durante un incontro rilevante organizzato dalla Radiological Society of North America. Questi risultati indicano chiaramente come tale azione possa determinare l’danno cerebrale senza necessitare che vi sia stata una commozione conclamata. Gli studiosi hanno condotto analisi attraverso risonanze magnetiche cerebrali sui cervelli addestrati, scansionando quelli appartenenti a ben 352 calciatori amatoriali – uomini e donne – nella fascia d’età variabile dai diciotto ai cinquantatré anni; parallelamente hanno fatto confronto con altre scansioni ottenute da soggetti coinvolti in discipline sportive non contact, quali la corsa. I risultati hanno mostrato anomalie significative nella sostanza bianca del cervello dei calciatori, in particolare nel lobo frontale, l’area più frequentemente coinvolta nei colpi di testa. Queste alterazioni della sostanza bianca, che contiene le fibre nervose cruciali per la comunicazione tra le diverse aree cerebrali, sono state riscontrate in atleti che spesso non avevano mai subito una diagnosi di commozione cerebrale o trauma cranico grave. Questo suggerisce che impatti ripetuti, anche se non immediatamente sintomatici, possono avere un impatto cumulativo deleterio sul tessuto cerebrale. Le aree danneggiate, secondo gli autori dello studio, sono le stesse tipicamente colpite dall’encefalopatia traumatica cronica (CTE), una patologia neurodegenerativa progressiva.

La CTE, resa nota al grande pubblico anche dal film del 2016 “Zona d’ombra”, è una condizione che, pur potendo essere diagnosticata con certezza solo post-mortem tramite autopsia, è associata a una serie di sintomi devastanti. Questi includono problemi di memoria, un declino delle funzioni cognitive, significative alterazioni dell’umore, aggressività, depressione (con un aumentato rischio di suicidio), e forme di demenza simili all’Alzheimer. Studi post-mortem su atleti che hanno praticato sport da contatto — come football americano, boxe, rugby, hockey su ghiaccio e calcio — hanno rivelato una maggiore incidenza di questa patologia. Il meccanismo sottostante si ritiene risieda nello scuotimento del cervello all’interno del cranio, con conseguente danneggiamento dei tessuti cerebrali.

Il problema non si limita agli sport professionistici o agli adulti. Già nel settembre 2023, uno studio pubblicato su Jama Neurology aveva evidenziato che i primi segnali di CTE possono apparire anche nel cervello di giovani atleti amatoriali. Questo solleva importanti interrogativi sulle pratiche sportive per i più giovani e sulla necessità di adottare misure preventive e protettive più rigorose.

Risultati recenti mostrano che circa il 6% di quanti si presentano in Pronto Soccorso con trauma cranico si è fatto male durante lo svolgimento di un’attività sportiva. Anche se i pazienti che hanno subito traumi cerebrali legati allo sport mostrano spesso meno sintomi, un numero significativo ha mostrato problemi di recupero funzionale.JAMA Network Open

Neuroscienze e sport: dalla diagnosi al trattamento

La crescente consapevolezza sui rischi dei traumi cranici ha spinto la ricerca verso lo sviluppo di nuove metodologie diagnostiche e terapeutiche. Le neuroscienze per lo sport stanno emergendo come un campo cruciale, con programmi e terapie specifici volti non solo a migliorare le performance atletiche, ma anche a prevenire e trattare i danni neurologici, oltre ad accorciare i tempi di recupero e ridurre i danni vascolari. L’ultimissimo studio condotto dagli esperti del progetto CENTER-TBI ha coinvolto 4360 pazienti con trauma cranico, da cui risulta che il 65% dei pazienti non raggiunge un recupero completo entro sei mesi dall’infortunio. Questo sottolinea l’importanza di seguire e trattare anche i traumi considerati lievi in ambito sportivo.

Un esempio di sport estremo che amplifica la problematica dei traumi è quello dei combattimenti a base di schiaffi, come evidenziato in un articolo del settembre 2024: uno studio ha riportato lesioni cerebrali nel 78% dei partecipanti, un dato allarmante che sottolinea la necessità di maggiore cautela in tutte le discipline che comportano impatti alla testa.

La diagnosi precoce è fondamentale. L’introduzione di tecniche di neuroimaging avanzate permette di visualizzare alterazioni cerebrali che in passato non erano rilevabili. Queste includono la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la risonanza magnetica con tensore di diffusione (DTI), che possono offrire informazioni dettagliate sulla connettività cerebrale e sull’integrità della sostanza bianca. Monitorare questi cambiamenti nel tempo è cruciale per intervenire tempestivamente.

Sul fronte del trattamento, la riabilitazione gioca un ruolo chiave e si sta evolvendo per includere non solo aspetti fisici ma anche psicologici e cognitivi. Diversi studi hanno dimostrato che molti atleti, dopo un infortunio sportivo e la relativa riabilitazione fisica, incontrano difficoltà significative nel riprendere l’attività a causa di blocchi mentali, paure o ansie. Questo fenomeno, in cui mente e corpo sono indissolubilmente legati, richiede un approccio terapeutico olistico.

La Commissione Sportiva del Regno Unito ha recentemente imposto dei limiti ai colpi di testa negli allenamenti, a causa della connessione riscontrata tra i colpi di testa ripetuti e l’aumento del deterioramento cognitivo mostrato in studi recenti. All’interno del panorama delle tecniche emergenti destinate alla rielaborazione del trauma psicologico causato dagli infortuni sportivi, l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) si sta imponendo come una pratica di crescente rilevanza. Originariamente ideata per trattare il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), oggi questa metodologia trova applicazione anche nell’ambito sportivo, offrendo agli atleti strumenti utili per affrontare le conseguenze emotive derivanti da un infortunio e riportando stabilità nella fiducia verso le proprie abilità sia fisiche che mentali. La tecnica EMDR si propone di amalgamare i ricordi traumatici al fine di mitigare il loro carico emozionale, permettendo così all’atleta di ripensare a esperienze negative attraverso una lente più costruttiva.

In aggiunta all’EMDR, vengono impiegati altri modelli psicoterapeutici, quali la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) focalizzata sui traumi specifici, le strategie di gestione dello stress e la terapia cognitivo-processuale durante il processo di riabilitazione mentale successiva a un infortunio. Inoltre, l’inclusione dell’attività fisica – se strutturata attraverso programmi mirati – può accelerare notevolmente i tempi recuperativi quando associata alla psicoterapia. La fisioterapia continua a rappresentare un fondamento essenziale nel campo della riabilitazione; tuttavia, sta contemporaneamente integrando nuovi progressi in ambito neuroscientifico. Le metodologie terapeutiche adottate per gli atleti affetti da post-concussion syndrome (sindrome post-commozione) attivi in discipline sportive di contatto sono oggetto di incessanti indagini sistematiche. Queste analisi hanno come obiettivo primario l’individuazione delle tecniche più promettenti per favorire un ottimale ripristino delle funzionalità.

Traumi e neurochirurgia: un ponte con il passato e il futuro

La valutazione e la gestione dei traumi cerebrali associati allo sport sono oggi una realtà grazie agli straordinari sviluppi avvenuti nella disciplina della neurochirurgia. Figure eminentemente rispettate hanno fornito un fondamento solido per ciò che oggi conosciamo riguardo a diagnosi e trattamenti.

In particolare, è cruciale sottolineare l’importanza del professor Albino Bricolo, deceduto nel febbraio 2015 all’età veneranda di 80 anni; egli rappresenta uno degli esponenti più significativi nella storia della neurochirurgia italiana. Onorato con la medaglia d’onore dalla Federazione mondiale di neurochirurgia nel settembre 2013, il suo apporto rimane indelebile nel panorama scientifico odierno. Le sue ricerche hanno indubbiamente trasformato l’approccio terapeutico nei casi di trauma cranico, contribuendo al salvataggio delle vite umane ed elevando gli standard qualitativi delle cure prestate ai pazienti affetti da tali lesioni traumatiche. L’impatto lasciato da figure come Bricolo continua ad alimentare l’entusiasmo delle giovani leve professionistiche che esplorano le neuroscienze applicate allo sport.

In tal senso, Verona si profila sempre più come un fulcro vitale per avanzamenti nella ricerca clinica sui temi legati alle neuroscienze nell’ambito atletico. Le iniziative territoriali hanno l’opportunità di trarre profitto da questo patrimonio culturale, promuovendo indagini avanzate riguardanti le moderne metodologie di neuroimaging destinate a una valutazione precisa delle lesioni cerebrali. Inoltre, si occuperebbero delle strategie più efficienti nel campo della riabilitazione cognitiva e delle considerazioni etiche e giuridiche associate alla gestione degli infortuni cranici tanto in ambito professionistico quanto amatoriale. La vera sfida consiste nell’unire la medicina sportiva alle ultime scoperte neuroscientifiche per dare vita a un contesto dove prevenzione, diagnosi anticipata, trattamento clinico e riabilitazione totale – fisica oltre che psicologica – assumano un ruolo centrale.

Costruire un futuro più sicuro nello sport: tra consapevolezza e prevenzione

Il dibattito sui traumi cerebrali nello sport ci invita a una riflessione profonda sulla natura delle nostre passioni e sulle responsabilità che ne derivano. Nel campo della psicologia cognitiva, è fondamentale comprendere come la percezione del rischio possa essere distorta negli atleti, soprattutto nei giovani. Spesso, l’adrenalina della competizione e la ricerca della performance creano una sorta di “tunnel vision” che può portare a sottovalutare i pericoli a lungo termine. Questo meccanismo di bias attentivo è un concetto base in psicologia cognitiva e ci aiuta a capire perché gli avvertimenti sui pericoli sottostanti possano cadere nel vuoto. Dal punto di vista della psicologia comportamentale, l’apprendimento e il rinforzo giocano un ruolo cruciale: se un comportamento rischioso (come un colpo di testa aggressivo nel calcio) viene ripetutamente rinforzato dal successo sportivo o dall’approvazione esterna, diventa più probabile che esso si ripeta, anche a costo della salute. Nell’ambito dell’avanzamento professionale nella medicina relativa alla sfera psichica si introduce il concetto fondamentale di resilienza neurocognitiva. Questa qualità trascende il semplice recupero da eventi traumatici; essa coinvolge anche il potere del cervello nel preservare le proprie facoltà cognitive ed emozionali affrontando avversità o danni subiti. Nella dimensione atletica contemporanea risulta cruciale stimolare tale resilienza tramite programmi mirati all’allenamento cognitivo attento e strategie efficaci per gestire lo stress emotivo; inoltre, offrire sostegno psicologico anticipato può rivelarsi una barriera protettiva efficace contro gli effetti accumulati delle esperienze traumatiche. L’obiettivo primario deve andare oltre il mero trattamento dell’infortunio fisico: occorre formare ed equipaggiare integralmente gli atleti affinché possano continuare ad alimentare con entusiasmo amorevolezza verso lo sport senza che ciò comporti ripercussioni silenziose sulla loro stabilità psichica nei tempi futuri.

È opportuno riflettere su quanto possa costarci rivedere regolamenti agonistici specifici, metodologie formative impiegate dai competitori o addirittura ridefinire coscienze competitive comuni nella direzione della tutela della nostra ricchezza suprema: la salute cerebrale. La soluzione a questo interrogativo va oltre i confini esclusivamente scientifici o clinici; presenta intrinsecamente aspetti etici e socialmente rilevanti, implicando uno sforzo coordinato orientato alla realizzazione di un avvenire nel quale la grandiosità dello sport possa coesistere armonicamente con il benessere globale dell’individuo.

Glossario:
  • CTE (Encefalopatia Traumatica Cronica): malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce principalmente chi ha subito traumi cranici ripetuti.
  • EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): metodologia terapeutica per trattare il Disturbo da Stress Post-Traumatico.
  • Glasgow Outcome Scale: scala utilizzata per valutare il recupero dopo un trauma cranico.

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