- Il "trauma da cric" riattiva memorie traumatiche pregresse causando PTSD.
- Recente ricerca ha identificato 43 geni correlati al PTSD.
- La prima fase del trattamento si concentra su sicurezza e stabilizzazione.
- EMDR facilita la rielaborazione del trauma attraverso stimolazioni bilaterali.
Il “trauma da cric”: un evento scatenante per ferite nascoste
Recentemente, la cronaca ha riportato un incidente domestico che, sebbene non di per sé catastrofico, ha innescato una complessa reazione psicologica in un individuo, portando alla riattivazione di traumi pregressi e allo sviluppo di un Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). Questo caso, emblematico della profonda interconnessione tra eventi attuali, memorie passate e reattività neurobiologica, ci invita a esplorare il concetto di “trauma da cric”: un incidente apparentemente minore che agisce da catalizzatore per ferite psicologiche più profonde e dimenticate. La rilevanza di questa notizia nel panorama della psicologia cognitiva e comportamentale, della salute mentale e della medicina correlata è cruciale, poiché evidenzia come la comprensione dei meccanismi di riattivazione traumatica sia fondamentale per interventi terapeutici efficaci. Non si tratta solo di curare il sintomo post-traumatico legato all’evento recente, ma di riconoscere e affrontare l’eco di traumi passati che risuona attraverso l’esperienza presente.
Il PTSD, come definito dal DSM-5 (APA, 2013), richiede l’esposizione diretta o indiretta a un trauma, come la minaccia di morte, lesioni gravi o violenza sessuale. I sintomi includono ricordi intrusivi, sogni, flashback che possono, in casi estremi, far perdere la consapevolezza dell’ambiente circostante. A questi si aggiungono l’evitamento persistente di stimoli associati all’evento traumatico, alterazioni negative di pensieri ed emozioni, e marcate alterazioni dell’arousal e della reattività. La durata di questi sintomi deve superare un mese e causare un disagio clinicamente significativo. In questo contesto, un incidente domestico, come quello che ha coinvolto il camionista, pur non rientrando necessariamente nelle categorie di “grande trauma” (traumi T) solitamente associate al PTSD, può agire come un “piccolo trauma” (traumi t), ovvero un’esperienza soggettivamente disturbante che, per la sua specificità, evoca sensazioni o contesti legati a traumi T pregressi.
L’incidente, per esempio, potrebbe aver rievocato una situazione di impotenza, di perdita di controllo, o di minaccia all’integrità fisica già sperimentata in passato, magari nell’infanzia, riattivando reti neurali associate a quelle memorie. L’aspetto che incide sul potenziale traumatico è rappresentato principalmente dalla reazione personale all’evento stesso, piuttosto che dalla severità oggettiva dell’incidente. Questo diventa particolarmente significativo nel contesto di un trascorso caratterizzato da fragilità emotive e vulnerabilità preesistenti.
Meccanismi neurobiologici della riattivazione traumatica
I meccanismi neurali responsabili della rievocazione delle memorie legate a esperienze traumatiche si rivelano estremamente intricati ed abbracciano numerose regioni cerebrali assieme a svariati sistemi di neurotrasmettitori. Le esperienze traumatiche esercitano un impatto profondo sul piano emotivo, comportamentale, cognitivo, sociale nonché fisico degli individui; questo aspetto è ben documentato dalla vasta letteratura sull’ambito della neurobiologia del trauma. Risulta evidente come le manifestazioni cliniche tipiche del PTSD, ossia Disturbo Post-Traumatico da Stress, rappresentino una reazione prolungata ed atipica dei circuiti neurobiologici sottoposti allo stress derivante dal trauma.
Un’analisi scientifica recente ha portato all’emersione di 43 geni correlati al PTSD, accompagnata dall’identificazione di ben 95 varianti genetiche suscettibili d’innalzare la probabilità d’insorgenza di tale affezione psichica. Ciò implica un’interessante sovrapposizione tra le caratteristiche genetiche associate al PTSD, ai disturbi depressivi ed evidenzia altresì l’esistenza di geni peculiari che non compaiono in altre patologie psichiatriche. Inoltre, i ricercatori hanno messo in luce l’importanza dei fattori ambientali così come delle interazioni sociali nel potenziare tali effetti. [Sanitainformazione]
- 43 geni identificati come predisponenti al PTSD.
- 95 varianti genetiche correlate a un aumento del rischio.
- Interazione tra fattori genetici e ambientali rilevante.

Le memorie traumatiche, a differenza di quelle “normali”, non vengono elaborate e integrate nel sistema psichico in modo coerente. Restano come “congelate” al di fuori della possibilità di integrazione, riemergendo sotto forma di sensazioni corporee, posture, movimenti e immagini intrusive quando l’arousal si alza o si abbassa al di fuori delle soglie di tolleranza. Questo processo di “riconsolidamento” della memoria, un termine che si riferisce sia al blocco delle sinapsi sia all’attivazione sinaptica stessa, è cruciale per comprendere come le vecchie ferite possano riaprirsi.
Quando un “trigger” (uno stimolo interno o esterno che ricorda la situazione traumatica) si presenta, il sistema di difesa si attiva prepotentemente, interrompendo ogni altra attività in corso. Questo è particolarmente evidente in individui con una storia di traumi infantili, dove l’iperattivazione cronica del sistema di difesa fa sì che esso domini sugli altri sistemi d’azione (socialità, esplorazione, gioco), innescando tendenze automatiche all’azione che perdurano per tutta la vita e possono risultare maladattive in situazioni non minacciose.
La teoria polivagale di Porges (2001) offre una spiegazione a questa disregolazione neurovegetativa, descrivendo una gerarchia di sottosistemi che si attivano di fronte alle sfide ambientali. Il ramo ventrale parasimpatico del nervo vago regola l’impegno sociale, il sistema simpatico le risposte di attacco e fuga, e il ramo dorsale parasimpatico del nervo vago la “finta morte” in situazioni di estremo pericolo. Il trauma, specialmente se ripetuto, può portare a un’attivazione cronica di questi sistemi, mantenendo l’individuo in uno stato di iper- o ipo-arousal che ostacola l’elaborazione integrata delle informazioni.

Le conseguenze di un attaccamento traumatico, in particolare quelli disorganizzati, si manifestano anche a livello corporeo, con movimenti non integrati e difficoltà nell’autoregolazione, e a livello neuronale, influenzando la formazione dei neuroni specchio e quindi le abilità introspettive e relazionali. Nell’ambito delle relazioni interpersonali, ciò che dovrebbe costituire un elemento rassicurante può trasformarsi in una minaccia concreta; così l’individuo sviluppa atteggiamenti cautelativi ed interpreta anche le esperienze più neutrali come se avessero implicazioni negative. Se i meccanismi relazionali preposti all’impegno sociale e all’attaccamento falliscono nel creare sentimenti stabili di sicurezza nel lungo periodo, allora gli apparati simpatico e dorsale vagale risultano continuamente sovraattivati. Di conseguenza, si verifica un’alterazione dell’arousal che supera quello considerato sano nella cosiddetta finestra di tolleranza. Tale condizione potrebbe sfociare in uno stato dissociativo strutturato: la persona appare frammentata fra una porzione consapevole impegnata nell’affrontare la vita quotidiana e un’altra paralizzata dalla necessità difensiva contro il pericolo imminente; questo fenomeno riattiva impulsi protettivi innati agiti automaticamente.
Approcci terapeutici per il trauma complesso
La comprensione approfondita di questi meccanismi neurobiologici e psicologici è fondamentale per lo sviluppo di strategie di intervento efficaci, specialmente in presenza di traumi complessi derivanti da esperienze ripetute e cumulative, spesso con radici nell’infanzia. Questi pazienti, che spesso riportano difficoltà nella regolazione degli affetti, distorsioni dell’immagine corporea, autolesionismo e suicidalità cronica, richiedono un approccio al trattamento strutturato in fasi, come convenuto dagli esperti negli ultimi due decenni. Già alla fine del XIX secolo, Pierre Janet auspicava un trattamento a fasi per i disturbi dissociativi, e questa visione è stata ripresa e ampliata nel contesto moderno.
- Terapia di Esposizione Prolungata (PE)
- Terapia di Elaborazione Cognitiva (CPT)
- Terapia Cognitivo-Comportamentale focalizzata sul trauma (TF-CBT)
- Classificazione EMDR come intervento di seconda scelta
La prima fase di intervento, cruciale per affrontare qualsiasi forma di trauma complesso, si concentra sulla sicurezza, la stabilizzazione e la riduzione dei sintomi. Nella fase iniziale del percorso terapeutico si forma una forte alleanza tra clinico e paziente, durante la quale viene fornita educazione riguardo alla diagnosi e ai relativi sintomi; inoltre viene illustrato l’iter da seguire nel trattamento. È cruciale focalizzarsi su obiettivi primari quali la salvaguardia della sicurezza individuale: questo implica creare uno spazio sicuro sia a livello psicologico che ambientale per il paziente stesso. Si presta altresì attenzione al contenimento dei disturbi particolarmente intensi e invalidanti come i flashback e i fenomeni ansiogeni come gli attacchi di panico; parallelamente vengono offerte indicazioni su come gestire le emozioni forti quali paura, rabbia o vergogna attraverso specifiche strategie d’intervento emotivo. Tali strategie sono accompagnate da interventi mirati ad accrescere la tolleranza allo stress.
È altresì indispensabile intervenire sulle funzioni vitali fondamentali (come sonno e alimentazione), unitamente all’insegnamento di competenze relazionali maggiormente adattative. La creazione di una struttura stabile all’interno dello setting terapeutico risulta quindi non soltanto necessaria ma costitutiva nell’assicurare una condizione favorevole affinché vi siano elevate probabilità di successivamente affrontare esperienze traumatiche significative senza compromettere l’equilibrio emotivo del soggetto coinvolto.
Il secondo stadio si concentra sul lavoro diretto ed approfondito relativo alle memorie traumatiche. In questa fase cruciale viene enfatizzata la necessità di elaborare in maniera adeguata le esperienze trascorse mediante rievocazioni mirate, tolleranza alle emozioni difficili ed integrazione dei momenti salienti vissuti. Un aspetto centrale di questo iter è rappresentato dall’abreazione: una forma catartica che libera l’emozione imprigionata in traumi precedentemente repressi. L’intento principale consiste nell’unificare gli elementi dissociati legati alle proprie storie passate: i ricordi associativi degli avvenimenti stessi assieme all’affettività collaterale ed alle manifestazioni corporee legate alla sofferenza traumatica. Si ambisce dunque ad ottenere una consapevolezza intellettuale matura combinata con un’interpretazione molto più articolata dei ruoli giocati sia dal sé che dagli altri negli eventi dolorosi vissuti. Essenziale per questa fase risulta anche affrontare tematiche inerenti alla perdita ed al lutto; processo delicato ma necessario volto ad assistere il paziente nel riconoscimento delle ferite causategli da tristi circostanze della sua esistenza pregressa—alcuni danni rimangono presenti anche ora nella sua vita attuale. Ciò consentirà all’individuo di affermarsi nella comprensione che quegli eventi tragici sono parte della sua storia pregressa; capendo così come abbiano influenzato profondamente il suo percorso esistenziale potrà finalmente strutturare un racconto biografico complessivo oltre che ottenere un’identità interna molto più coesa ed armoniosa.
La sintesi e la successiva “realizzazione” e “personificazione” del trauma (Van der Hart et al., 2006) sono essenziali affinché il paziente possa collocare l’evento traumatico nella propria autobiografia, riconoscendolo come un fatto passato che, pur avendo lasciato un segno, non definisce più interamente il suo presente.
Infine, la terza fase si incentra sull’integrazione e riabilitazione dal trauma. In questo stadio, i pazienti traggono beneficio dalla cooperazione interna, dalle funzioni coordinate della personalità e da una più profonda integrazione del sé. Iniziano a sperimentare un senso del sé stabile e solido e a sviluppare nuove modalità di relazionarsi con gli altri e con il mondo esterno. L’obiettivo è consolidare i cambiamenti ottenuti nelle fasi precedenti, rafforzando le nuove capacità di autoregolazione e di interazione sociale. La terapia cognitivo-comportamentale, con la sua attenzione alle distorsioni cognitive e ai processi di appraisal, si focalizza sull’estinzione delle memorie traumatiche intrusive e sulla desensibilizzazione attraverso l’esposizione ripetuta.
Un’altra metodologia riconosciuta è l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), ideata da Francine Shapiro nel 1989. Questa tecnica utilizza i movimenti oculari alternati o altre forme di stimolazione bilaterale per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio alterato da un evento stressante. L’EMDR facilita la rielaborazione dell’informazione disfunzionale legata al trauma, permettendo al soggetto di integrare l’esperienza in uno schema cognitivo ed emotivo più adattivo. A differenza dell’esposizione immaginativa che guida a rivivere l’esperienza traumatico in modo vivido, l’EMDR procede tramite catene di associazioni, incoraggiando l’individuo a “lasciare accadere” le memorie liberamente associate. La Sensorimotor Therapy rappresenta un’innovativa combinazione di approcci cognitivi up-down associati a metodologie bottom-up, ponendo al centro del suo intervento il corpo inteso sia come depositario della memoria che come mezzo attraverso cui avviene il processo d’elaborazione. L’intervento rivolto al processamento sensomotorio si propone di gestire le condizioni di iper- e ipoarousal, permettendo così la maturazione di abilità autoregolatorie. Inoltre, ciò facilita un’efficace integrazione delle parti dissociate dell’individuo; questo aspetto è particolarmente rilevante nel contesto delle narrazioni caratterizzate da attaccamento disorganizzato.
L’arte della resilienza: un percorso di integrazione e crescita
Comprendere la natura del trauma, sia esso un “grande trauma” (T) o un “piccolo trauma” (t) che riattiva ferite profonde, richiede una prospettiva che vada oltre la mera causalità lineare, abbracciando la complessità delle interazioni tra eventi esterni, memorie interne e risposte neurobiologiche. Il corpo non dimentica ciò che la mente può tentare di dissociare, e un incidente apparentemente banale può squarciare il velo, rivelando la persistenza di esperienze “non integrate” che minacciano la coesione mentale. Questo affascinante e al contempo doloroso fenomeno ci porta a riflettere sulla fragilità e, contestualmente, sulla straordinaria capacità di resilienza dell’individuo.
In una chiave interpretativa di psicologia cognitiva, un concetto fondamentale è la rappresentazione mentale che un individuo costruisce degli eventi. Nel contesto traumatico, la memoria non è una registrazione fedele, ma un’elaborazione attiva e spesso distorta, carica di significato emotivo. Un trauma “disintegra” questa rappresentazione, lasciando frammenti sensoriali, emotivi e cognitivi che non trovano una collocazione coerente nella narrazione personale. La riattivazione, in tal senso, è un tentativo del sistema di “finire” l’elaborazione interrotta, anche se in maniera disfunzionale.
A un livello più avanzato, la teoria del processamento adattivo dell’informazione, su cui si basa per esempio l’EMDR, suggerisce che il cervello possiede un sistema innato per l’elaborazione delle esperienze. Quando un trauma è soverchiante, questo sistema si blocca, e le informazioni restano “bloccate” in una rete di memorie disfunzionali. La terapia, quindi, non le crea nuove ma “sblocca” il processo naturale di elaborazione, permettendo all’esperienza di essere integrata.
- PTSD: Disturbo da Stress Post-Traumatico, una condizione di stress acuto in seguito a eventi traumatici.
- EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing, una terapia per il trattamento di traumi.
- Neurotrasmettitori: Sostanze chimiche che trasmettono segnali attraverso le giunture sinaptiche nel sistema nervoso.

Questa riflessione ci invita a considerare non solo la vulnerabilità, ma anche la forza intrinseca dell’essere umano. Ogni esperienza, per quanto dolorosa, può diventare un’opportunità di crescita se affrontata con consapevolezza e supporto adeguato. È un invito a coltivare l’empatia, sia verso gli altri sia verso se stessi, riconoscendo che dietro a un comportamento o a una reazione incomprensibile, possa celarsi l’eco di una ferita profonda in attesa di essere curata e integrata. La scienza e la clinica ci offrono gli strumenti per intraprendere questo percorso, ma la vera guarigione risiede nella capacità di accogliere e dare significato a tutte le parti di sé, anche le più sofferenti, per costruire una narrazione più completa e armonica della propria esistenza.
- Criteri diagnostici del DSM-5 per il PTSD, fonte autorevole per approfondire.
- Approfondimento sulla Trauma Focused Cognitive Behavior Therapy (TF-CBT).
- Approfondimento sul PTSD e i correlati neurali dei ricordi intrusivi.
- Definizione di PTSD, sintomi e criteri diagnostici secondo l'American Psychiatric Association.