L’eco del dolore: quando il trauma vicario sconvolge le nostre vite

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  • Il trauma vicario è l'impatto psicologico di eventi altrui.
  • Il DSM-5 include soccorritori tra le vittime secondarie.
  • Durante la pandemia, il 40.9% degli adulti USA ha avuto disagi.
  • Il 28.9% degli infermieri norvegesi ha mostrato sintomi di DSPT.
  • La resilienza diminuisce l'incidenza dei sintomi legati al DPTS.

L’ombra invisibile del trauma: quando la sofferenza altrui diventa la nostra

Un incidente tragico come quello accaduto a bordo del pullman dei tifosi del Catania va ben oltre il limite delle semplici notizie giornalistiche: esso crea onde impercettibili ma pervasive nella psiche comune. L’impatto psicologico si insinua sottopelle ed agita gli equilibri interni delle persone legate alle vittime anche senza essere stati fisicamente presenti sul luogo dell’accaduto. Talvolta bastano poche informazioni – sia esse immagini o narrazioni dirette – affinché scatti quella dinamica mentale nota in psicologia con il termine trauma vicario. Quest’ultimo non deve essere considerato come reazione debole o irrazionale; al contrario, si tratta di uno strumento empatico profondo attraverso cui prendiamo su noi stessi il dolore degli altri. Nella nostra struttura cerebrale predisposta all’intimità relazionale troviamo modo per elaborare i sentimenti degli altri, rendendoli parte della nostra esperienza affettiva personale: l’empatia, che ci consente di comprendere profondamente gli stati d’animo altrui; l’identificazione, quell’interconnessione alle esperienze condivise all’interno dei gruppi sociali (come nel contesto sportivo) ci aiuta ad avvertire ciò che accade agli individui collegati a noi come se fosse qualcosa che ci riguarda intimamente; e infine abbiamo la risonanza emotiva, segno tangibile della forza espansiva e prolungata dello shock traumatico subìto dalla comunità collettiva.

Questa dinamica non è una scoperta recente. Già nel secolo scorso, figure come Strumpel nel 1884 e Oppenheim nel 1889 descrivevano la “nevrosi traumatica” in riferimento a incidenti gravi, mentre Kardiner (1941) e Grinker & Spiegel (1945) analizzavano la “nevrosi da guerra” nei reduci dai conflitti mondiali. Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT), inizialmente riconosciuto per le vittime dirette di eventi catastrofici (vittime primarie), è stato progressivamente esteso nel DSM-IV-TR ai testimoni e ai familiari (vittime secondarie). Il DSM-5 ha poi compiuto un ulteriore, fondamentale passo, includendo tra le vittime anche soccorritori e operatori di assistenza (vittime terziarie), per i quali è stata coniata proprio l’accezione di “traumatizzazione vicaria o secondaria”. Questo riconoscimento formale sottolinea la gravità e la diffusione di un fenomeno che va ben oltre la semplice compassione, manifestandosi con sintomi clinici speculari a quelli delle vittime primarie: flashback, evitamento degli stimoli associati all’evento, alterazioni dell’arousal e della reattività. Le manifestazioni possono essere classificate come acute se emergono entro tre mesi dall’evento stesso; quelle che invece appaiono dopo sei mesi vengono definite ritardate, mentre parlando di forme protratte ci riferiamo a quelle situazioni che persistono per anni. La capacità degli esseri umani di sentire e condividere il peso delle sofferenze altrui non costituisce esclusivamente un onere da sopportare; essa funge anche da prova concreta della nostra interconnessione profonda. Infatti, serve da costante monito riguardo all’intreccio tra benessere personale e quello della collettività. Acquisire tale consapevolezza è fondamentale nella direzione della creazione di comunità più forti e capaci di supporto reciproco.

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Il ruolo cruciale del supporto sociale e delle reti di aiuto nel mitigare il trauma vicario

La funzione determinante delle relazioni sociali e delle strutture di sostegno nella riduzione degli effetti del trauma vicario

Nell’epoca attuale in cui le informazioni scorrono fulmineamente attraverso i canali digitali e i social network trasformano rapidamente ogni tragedia in racconti condivisi a livello planetario, ci troviamo ad affrontare il concetto sempre più diffuso dell’esposizione al trauma vicario. L’intensità dei messaggi visivi ed emozionali che ci vengono proposti quotidianamente—spesso cruenti nella loro esposizione—contribuisce ad aumentare profondamente la nostra risposta emotiva ai fatti raccontati; pertanto risulta imprescindibile disporre di meccanismi solidi per ottenere sostegno psicologico efficiente. In tale scenario, il ruolo del sostegno sociale si rivela essenziale nel mitigare gli effetti avversi associati alla traumatizzazione indiretta. È imperativo riconoscerne il valore: senza reti relazionali significative, gli individui possono percepirsi come abbandonati mentre affrontano esperienze traumatiche dirette o vicari; viceversa, una robusta cerchia di amicizie e affetti permette non solo uno scambio empatico, ma anche uno spazio sicuro per verbalizzare timori ed emozioni personali.

Ricerche scientifiche numerose hanno rivelato che l’essenza, assieme al diploma del tipo d’assistenza sociale fornita immediatamente post-evento traumatico, gioca un ruolo decisivo nell’influenzare le risposte psicologiche degli individui coinvolti. L’abilità nel condividere le esperienze, unitamente al bisogno profondo di sentirsi accolti senza essere giudicati, alla ricerca attenta di empatia e conforto emotivo, rappresentano fattori cruciali per una elaborazione emotiva proficua. Tale processo riveste importanza fondamentale nella prevenzione del manifestarsi dei sintomi legati allo sindrome da stress post-traumatico (DSPT), così come nella loro riduzione della gravità. È essenziale riconoscere come ciò non si limiti a una forma passiva d’ascolto; il supporto sociale può assumere forme molto diverse ed elaborate, quale è il fenomeno del peer support. In questo contesto specifico, gruppi formati da individui con esperienze analoghe collaborano offrendo reciproco sostegno; questo produce pertanto non solo vicinanza, ma altresì un forte senso comunitario e di appartenenza. In aggiunta alla compartecipazione nelle tecniche operative necessarie al superamento delle crisi mentali successive a traumi devastanti, le sessioni collettive, quali quelle destinate al metodo del defusing, accompagnate da spazi concepiti intorno all’esaltazione dell’impegno individuale e alla promozione del dialogo costruttivo, possono generare sinergie positive progettando ambientazioni protette favorevoli al benessere psicologico degli individui coinvolti. Particolarmente illuminante è il profilo dell’individuo resiliente, spesso caratterizzato da auto-efficacia, ottimismo, pazienza, tolleranza, adattabilità e autostima. Queste qualità, che possono essere innate in diversa misura, si possono potenziare nel corso della vita grazie alla dialettica tra fattori di rischio e fattori di protezione. La flessibilità cognitiva, le capacità di coping attivo e le relazioni interpersonali positive sono, ad esempio, aspetti qualificanti di chi sa resistere agli urti della vita, mantenendo o addirittura potenziando le proprie risorse.

Supporto sociale e resilienza: È stato dimostrato che il supporto sociale non solo può diminuire i sintomi di stress post-traumatico, ma anche promuovere la crescita post-traumatica, aiutando gli individui a vedere le loro esperienze traumatiche come opportunità di crescita.

In un’epoca dove i confini tra l’esperienza diretta e quella mediata si fanno sempre più labili, investire nel supporto sociale non è solo una scelta etica, ma una strategica necessità per la salute mentale collettiva.

Fattori di rischio e risorse di resilienza: una danza complessa

L’indagine sulla traumatizzazione vicaria ha svelato una realtà complessa, in cui fattori di rischio e risorse di resilienza si intrecciano in una danza delicata, influenzando l’impatto psicologico degli eventi traumatici su chi li osserva o ne è coinvolto indirettamente. Professioni come quelle sanitarie, e in particolare infermieri e medici, risultano essere tra le categorie maggiormente esposte al DSPT vicario. Non è un caso che, ad esempio, durante la pandemia di SARS-COV-2, considerata da alcuni uno “stato di guerra” per la mole di risorse mobilitate e gli elevati numeri di morti e “feriti psichici”, si siano riscontrati disagi psichici significativi, inclusi i disturbi da stress, nel 40.9% degli adulti negli USA e nel 15.8% in Spagna, con l’isolamento identificato come predittore più significativo. Un dato che evidenzia la fragilità intrinseca della nostra psiche di fronte a scenari di crisi prolungati e intensi.

Gli studi sull’impatto della pandemia sugli infermieri hanno rivelato cifre preoccupanti: in Norvegia, una percentuale significativa del 28. 9% degli operatori sanitari ha mostrato sintomi clinici o subclinici di DSPT, cifre analoghe sono state trovate in Cina (25.1%) e in India/Singapore (5.2%). Tali dati suggeriscono un carico emotivo e psicologico schiacciante, acuito dalle paure di contagio per sé e per i familiari, dall’affaticamento per le ore di lavoro prolungate e dall’uso ininterrotto dei dispositivi di protezione individuale, oltre alla costante esposizione a situazioni cliniche severe e mortali. Ciò che emerge distintamente è che gli operatori sanitari a contatto diretto con i pazienti COVID-19 hanno livelli significativamente più alti di sintomi da stress post-traumatico e depressione rispetto a coloro che lavorano indirettamente. Sembra quasi che l’intensità del coinvolgimento empatico si traduca, per molti, in un maggior rischio di essere “contagiati” dal dolore altrui.

Tuttavia, in questa narrazione di vulnerabilità, spicca la nozione di resilienza: la capacità dell’individuo di resistere agli urti della vita senza spezzarsi o incrinarsi, mantenendo o addirittura potenziando le proprie risorse personali e sociali. Il concetto di resilienza può essere interpretato sia come una costante dello spirito umano sia come un fenomeno evolutivo con potenzialità d’apprendimento nel tempo. Numerosi studi hanno tracciato le caratteristiche distintive dell’infermiere capace di fronteggiare le avversità: questa figura emerge dotata di qualità quali l’auto-efficacia, un forte senso dell’ottimismo, pazienza nella pratica quotidiana, tolleranza nei confronti delle difficoltà, capacità d’adattamento ai cambiamenti, alta autostima e una spiccata vena comica. Questi tratti principali si intrecciano con la flessibilità mentale e con interazioni sociali positive, rivestendo così una funzione protettiva rispetto al trauma psicologico. Si evidenzia inoltre una correlazione inversa tra disturbo post-traumatico da stress (DPTS) e resilienza: man mano che cresce quest’ultima, diminuisce l’incidenza dei sintomi legati al primo disturbo citato. Tra le variabili più determinanti vi sono sicuramente il rapportarsi agli altri positivamente, mantenere uno sguardo speranzoso verso il futuro e coltivare una profonda consapevolezza personale rispetto alle proprie emozioni. Anche se i dati mostrano che professionisti altamente resilienti possano subire degli episodici disagi mentali durante situazioni critiche emergenti nei loro ambiti lavorativi, è ancora necessario incoraggiare strategie individualizzate per migliorare la propria capacità resilienzale, affiancandole a interventi strutturati miranti a diminuire i rischi associati al DPTS. Questo evidenzia come, nonostante la inevitabile esposizione a eventi traumatici, l’individuo umano detenga abilità innate e migliorabili per il recupero e l’adattamento. Queste qualità si ergono come un faro luminoso, pronto a guidare attraverso le incertezze delle tempeste psicologiche.

Prevenire e agire: strategie per il benessere psicologico collettivo

Di fronte alla complessità del trauma vicario e alla sua pervasività, soprattutto in contesti di crisi o di elevata esposizione emotiva come quelli descritti, è imperativo non solo riconoscerne l’esistenza ma anche formulare strategie concrete di prevenzione e intervento. La salute mentale, lungi dall’essere un lusso, è un prerequisito fondamentale per la stabilità individuale e sociale. Le raccomandazioni emerse dagli studi sono chiare e si articolano su più livelli: personale, professionale e organizzativo, delineando un percorso integrato verso il benessere psicologico collettivo.

A livello personale, il coltivare la resilienza diviene un gesto di auto-cura e una scelta consapevole di vita. Pratiche di autoconsapevolezza, come la meditazione o la riflessione sui propri stati d’animo, così come la “compassione” verso se stessi – trattarsi con la stessa cura con cui si tratterebbe un buon amico in difficoltà – sono strumenti potenti per mitigare lo stress. L’attribuzione di un valore profondo al proprio lavoro, l’adozione di comportamenti di vita salutare, l’armonizzazione degli impegni professionali con le aspettative familiari e, non da ultimo, la connessione costante con colleghi, parenti e amici, anche tramite strumenti telematici, concorrono a rafforzare le difese interne. Le attività descritte si presentano come pratiche singole ma sono immerse in una rete complessa di dipendenze reciproche; infatti il benessere dell’individuo è fortemente influenzato dalla qualità delle relazioni interpersonali e dal contesto ambientale.

Nel settore organizzativo, le iniziative proposte assumono una connotazione strutturale con l’intento dichiarato di creare uno spazio lavorativo caratterizzato da protezione e sostegno. È imperativo definire metodi precisi per il turnover, soprattutto tra coloro i quali operano nei reparti ad elevata densità assistenziale dove la pressione emotiva si rivela più intensa. La realizzazione di corsi online (webinar) accompagnati da formazione specifica sul tema dello stress – comprese tecniche utili a mitigarne gli effetti – nonché controlli periodici del grado percepito del benessere fra gli operatori risulterà indispensabile; inoltre è necessario garantire accesso a servizi psicologici specializzati mirati a fronteggiare tanto lo stress immediato quanto quello prolungato. Fondamentale appare anche elaborare pianificazioni dei turni che siano rispettose delle esigenze personali o familiari degli operatori stessi, poiché mantenere un’adeguata sintonia tra vita privata e professionale emerge come determinante nella lotta contro fenomenologie d’esaurimento. La pratica regolare delle sedute definibili come defusing si propone come un fondamentale strumento per ridurre il rischio d’isolamento, mentre agevola una proficua elaborazione degli eventi stressogeni; al contempo, gli incontri collettivi rivolti all’apprezzamento dell’impegno profuso nonché dei traguardi ottenuti fortificano significativamente il senso d’appartenenza così come la coesione all’interno del gruppo. Inoltre, i focus group, orientati all’analisi e al perfezionamento delle dinamiche organizzative pratiche, consentono una costante ottimizzazione delle strategie stesse, rivelandosi pertanto più in linea con le reali necessità operative del personale.

Il vissuto dei professionisti infermieri nell’ambiente della terapia intensiva durante la crisi pandemica costituisce un evidente avviso: altissimi tassi relativi al DSPT insieme a sintomi associati all’insonnia riscontrati tra questi operatori evidenziano con urgenza quanto sia essenziale garantire alla figura dell’infermiere maggiore considerazione sotto forma sia di interventi psicologici mirati che attraverso opportunità formative continue. È palese il RISCHIO rappresentato dallo STRESS POST-TRAUMATICO; questa circostanza sottolinea ulteriormente l’urgenza dell’assistenza adeguata nei confronti degli appartenenti a tale categoria professionale. Occorre pertanto proseguire nel fornire sostegno attivo attraverso misure concrete, quali l’avvio di iniziative gratuite dedicate al supporto psicologico, precisamente quelle messe in atto presso il SANTAGOSTINO destinate agli operatori sanitari.

Una riflessione sulla vulnerabilità e la forza della psiche umana

Durante il nostro percorso esplorativo nei meandri della psicologia dell’essere umano siamo spesso testimoni di situazioni sorprendenti: la sofferenza altrui può riflettersi nel nostro animo. Un caso emblematico può essere trovato nell’incidente tragico avvenuto tra i tifosi del Catania; tale evento trascende la mera narrazione dei fatti per divenire un’onda emozionale, capace d’intaccare profondità recondite all’interno dei nostri esseri. Qui emerge quel fenomeno noto nella psicologia cognitiva e comportamentale con il termine trauma vicario. Questa reazione non indica fragilità bensì esprime la potenza intrinseca dell’empatia: ciò dimostra quanto fortemente gli individui siano interconnessi attraverso l’eco emozionale. L’arzigogolo della mente umana rivela così una natura aperta alle influenze esterne – assomigliando più a una rete finissima ed elastica, piuttosto che a una fortezza blindata; correnti mutevoli possono qui generare tanto gioia quanto angoscia. Ogni qualvolta seguiamo mediamente drammi collettivi o individuali dal vivo o attraverso i media – seppure indirettamente – il nostro cervello avvia meccanismi complessi grazie ai quali possiamo vivere reazioni corporee ed emotive affini a quelle delle vittime stesse. È una nozione di base, quasi intuitiva: siamo esseri sociali, e il benessere del gruppo influisce sul benessere individuale.

Ma c’è una nozione più avanzata, quasi una gemma nascosta nel cuore della psicologia moderna, che illumina ulteriormente questo fenomeno: la Teoria Costruttivista dello Sviluppo del Sé. Ogni individuo costruisce e modifica incessantemente il proprio schema cognitivo per dare senso alla realtà, per afferrare il significato degli eventi che accadono. Il trauma, sia esso diretto o vicario, agisce come una scossa sismica a questo schema, mettendo in discussione le nostre convinzioni fondamentali sulla sicurezza, sulla giustizia, sull’ordine del mondo. Di fronte a un evento traumatico di grande portata, il nostro Io, quell’architettura sottile di esperienze e credenze, deve ricalibrarsi, trovare nuove prospettive, integrare il caos. È un processo faticoso, doloroso, ma anche un’opportunità unica di crescita post-traumatica, di una resilienza che non è solo una “resistenza”, ma una “trasformazione”.

Quindi, mentre riflettiamo sul dolore che un incidente può disseminare ben oltre i suoi confini fisici, siamo invitati a una riflessione più ampia: quanto siamo consapevoli delle sottili influenze che il mondo esterno esercita sulla nostra salute mentale? E quanto siamo pronti a riconoscerle, a nominarle, a offrire e a cercare il supporto necessario? In un’epoca satura di informazioni e di interconnessioni, imparare a “leggere” le tracce del trauma vicario in noi stessi e negli altri non è solo un esercizio accademico, ma una competenza vitale per navigare la complessità della vita contemporanea. È un invito a coltivare la nostra empatia senza esserne sopraffatti, a costruire reti di supporto solide come il ferro e flessibili come il salice, e a ricordare che, anche nel più profondo buio, la luce della resilienza può sempre essere accesa.

Glossario:
  • Trauma vicario: Fenomeno che deriva dall’esposizione indiretta a eventi traumatici, producendo effetti psicologici simili a quelli delle vittime dirette.
  • Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT): Si tratta di una patologia psichica scaturita da traumi vissuti sia in prima persona che per osmosi. Essa si distingue per manifestazioni come i flashback, insieme a stati d’ansia persistente.
  • Resilienza: È definita come l’abilità innata o acquisita da un soggetto nell’affrontare e superare le avversità della vita, riuscendo così a mantenere uno stato di equilibrio psicologico.

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