- Nel 2024, 1.090 persone hanno perso la vita sul lavoro, un aumento del 4,7%.
- 176 vittime straniere su 805 incidenti fatali, incidenza pari a 74,2 decessi ogni milione.
- Studio ANMIL: il 40% delle vittime sviluppa sintomi di distress psicologico.
Le cifre drammatiche degli infortuni sul lavoro in Italia: un’emergenza che persiste
Il 2024 si è chiuso con un bilancio allarmante per la sicurezza sul lavoro in Italia, confermando una tendenza preoccupante. I dati più recenti, aggiornati a fine dicembre 2024, rivelano un aumento considerevole delle vittime rispetto all’anno precedente. Ben 1.090 persone hanno perso la vita in contesti lavorativi, un incremento del 4,7% rispetto ai 1.041 decessi registrati a fine dicembre 2023, segnando un drammatico incremento di 49 vite spezzate in più. Questa crescita inverte il leggero calo osservato in precedenza, quando le denunce di infortuni mortali erano passate da 1.237 nel 2019 a 1.189 nel 2024, con una diminuzione del 3,9%. Il dato del 2024 evidenzia che l’Italia è al di sotto della media europea in termini di infortuni, ma ciò non attenua la gravità del fenomeno in numeri assoluti.
Le denunce complessive di infortunio, che includono sia gli infortuni “in occasione di lavoro” che quelli “in itinere” (nel tragitto casa-lavoro), hanno raggiunto quota 589. 571 a fine dicembre 2024, registrando un leggero aumento dello 0,7% rispetto alle 585.356 del 2023. Di queste, 490.725 sono state in occasioni di lavoro, con 163.747 casi che hanno coinvolto donne e 326.978 uomini. I lavoratori stranieri hanno contabilizzato 101.849 denunce di infortunio in occasione di lavoro, mentre gli italiani sono stati 388.876.
L’analisi settoriale evidenzia che le costruzioni persistono come il settore con il maggior numero di decessi, con 156 vittime. Seguono i Trasporti e Magazzinaggio (111), le Attività Manifatturiere (101) e il Commercio (58). Per quanto riguarda le denunce totali, le Attività Manifatturiere si collocano al primo posto con 70.842 denunce, seguite da Costruzioni (37.220), Sanità (36.425), Trasporto e Magazzinaggio (34.698) e Commercio (33.050).
Settore | Morti | Denunce Totali |
---|---|---|
Costruzioni | 156 | 37. 220 |
Trasporti e Magazzinaggio | 111 | 34.698 |
Attività Manifatturiere | 101 | 70.842 |
Commercio | 58 | 33.050 |
Sanità | – | 36.425 |
La distribuzione geografica del rischio di morte sul lavoro, basata sull’incidenza (numero di lavoratori deceduti per milione di occupati), rivela profonde disuguaglianze regionali. A fine dicembre 2024, diverse regioni rientravano nella “zona rossa”, con incidenze superiori al 25% rispetto alla media nazionale (fissata a 34,1 morti per milione di lavoratori). Queste includono Basilicata, Valle d’Aosta, Umbria, Trentino-Alto Adige, Campania, Sardegna e Sicilia, suggerendo che fattori strutturali e organizzativi giocano un ruolo cruciale. Le figure numericamente più colpite sono in Lombardia (131 vittime), Campania (84), e Lazio (73). Da una prospettiva demografica approfondita emerge chiaramente come i lavoratori immigrati si trovino in una condizione particolarmente esposta, soffrendo di un rischio d’infortunio mortale che è più che doppio rispetto ai loro omologhi nazionali. Nel corso dell’anno corrente (2024), si sono registrate ben 176 vittime straniere sul lavoro, su un complesso totale di 805 incidenti fatali. Questo porta a una drammatica incidenza pari a 74,2 decessi ogni milione tra gli stranieri, comparata con il meno preoccupante dato italiano dei 29,7 deceduti. Non può essere trascurato nemmeno il fattore età: coloro che superano i sessantacinque anni presentano la percentuale maggiore d’incidenze letali (138,3 mortalità per milione), mentre quelli nella fascia d’età compresa tra cinquantacinque e sessantaquattro anni riscontrano anch’essi valori significativi (54,5 mortalità per milione). Questi ultimi costituiscono anche il gruppo numericamente prevalente nelle statistiche generali (279 decessi su tutta la popolazione analizzata).
A completamento delle osservazioni effettuate è interessante notare come l’analisi temporale riveli nel giorno del martedì quello tragicamente più gravoso sul fronte degli infortuni fatali nel corso del ’24; tale giorno ha registrato infatti quasi uno sconcertante 19,9% della totalità degli eventi critici. È lecito ipotizzare una correlazione fra questo triste dato e il ritorno alle attività lavorative dopo le pause settimanali; tali informazioni rendono necessario affrontare seriamente le problematiche strutturali alla base della sicurezza nei luoghi di lavoro, dalle carenze organizzative fino alle complesse questioni relative al precariato e all’insufficienza formativa – elementi tutti devastanti alla continuità della vita umana nello scenario professionale attuale. I dati statistici evidenziano un fatto indiscutibile: la questione della sicurezza nei luoghi di lavoro è un problema attuale che richiede interventi attenti e sostenuti nel tempo.
L’impatto degli infortuni sul lavoro sulla salute mentale: dalle conseguenze dirette all’impotenza appresa
Esaminando il tema del rendimento lavorativo soggetto a incidenti, emergono molteplici sfaccettature legate alla sfera psichica. Le vittime di incidenti professionali devono affrontare difficoltà che vanno ben oltre la mera lesione fisica; infatti, la loro esperienza può generare uno stato emotivo compromesso. La nozione di impotenza appresa, introdotta dal famoso psicologo Martin Seligman nei primi anni ’70, evidenzia come una serie prolungata e negativa di esperienze possa condurre a una vera e propria crisi della resilienza individuale.

Al di là delle statistiche numeriche e delle ferite fisiche, gli infortuni sul lavoro lasciano cicatrici profonde e spesso invisibili sulla salute mentale dei lavoratori. Le conseguenze psicologiche di tali eventi sono ampie e complesse, spaziando da disturbi d’ansia e depressivi fino a quadri di Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT). Una ricerca condotta in collaborazione tra un Dipartimento di Psicologia Generale e un’Associazione Nazionale tra Lavoratori Mutilati ed Invalidi del Lavoro ha esplorato in profondità questi aspetti, rivelando la necessità di integrare la valutazione delle conseguenze psicologiche e cognitive nel processo di recupero e reinserimento.
Il primo studio condotto ha indagato il distress emozionale e l’attivazione fisiologica conseguenti a un incidente. È emerso come gli individui che hanno subito un infortunio sul lavoro mostrino una maggiore propensione a sviluppare un DSPT, anche in assenza di sintomi conclamati di ansia o depressione. Questo rischio “subdolo” è cruciale, poiché significa che la sofferenza può non essere immediatamente evidente ma persistere a lungo, influenzando la capacità dell’individuo di reagire a situazioni stressanti. La tendenza a rivivere l’evento traumatico, con il conseguente carico emotivo e l’attivazione fisiologica, porta spesso a comportamenti di evitamento di luoghi o situazioni che potrebbero rievocare il trauma.
Un secondo studio ha ampliato l’indagine, confermando che all’aumentare della sintomatologia post-traumatica si intensificano problemi legati ad ansia, rabbia, depressione e una presenza generale di psicopatologia. Parallelamente, si riduce la resilienza, ovvero la capacità di affrontare le avversità. Le ripercussioni psicologiche possono perdurare per un lungo periodo di tempo dopo l’incidente, incidendo direttamente sul mancato rientro al lavoro e su un ridotto funzionamento psicosociale, che è la capacità della persona di interagire con le persone e affrontare le sfide sociali.
Il terzo studio ha focalizzato l’attenzione sulle funzioni cognitive, come attenzione, memoria e capacità di pianificazione. I risultati hanno rivelato che le vittime di infortuni sul lavoro presentano maggiori difficoltà in compiti che richiedono concentrazione e flessibilità nell’organizzazione delle azioni. Questo avviene perché l’attenzione, soprattutto in presenza di ansia, tende a focalizzarsi sugli aspetti emotivi del contesto o sugli elementi ambientali che richiamano il trauma, sottraendo risorse preziose alle normali attività quotidiane e lavorative. Tali disfunzioni cognitive ed emozionali possono compromettere l’intero processo di reinserimento psicosociale e lavorativo.
Infine, il quarto studio ha esaminato la correlazione tra sintomatologia post-traumatica, disfunzioni cognitive e attivazione fisiologica durante la rievocazione dell’incidente. È stato osservato che la tendenza al rimuginio mentale si accompagna ad altre disfunzioni cognitive. Coloro che manifestano una sintomatologia post-traumatica più marcata mostrano prestazioni peggiori in compiti di attenzione e concentrazione, operando con maggiore cautela a scapito della velocità, pur mantenendo la correttezza della risposta. Tutto ciò porta a concludere che le vittime di un infortunio lavorativo non solo presentano elevata sintomatologia post-traumatica accompagnata da depressione e ansia, ma che questo quadro clinico conclamato di DSPT spesso non è adeguatamente rispecchiato dal grado di invalidità fisica riconosciuto dall’INAIL. È quindi imperativa la definizione di criteri di valutazione che contemplino tutte le conseguenze sulla salute psicofisica del lavoratore, inclusi gli esiti emozionali e cognitivi, spesso trascurati. L’infortunio, o la malattia professionale, introduce una sorta di “tossina” che condiziona emozioni, relazioni sociali e il valore professionale del soggetto, e che può e deve essere affrontata con interventi di sostegno mirati al recupero globale e al reinserimento lavorativo.
Il circolo vizioso dell’impotenza appresa nel contesto lavorativo
Nel cuore delle problematiche psicologiche post-infortunio sul lavoro si annida il concetto di “impotenza appresa” (learned helplessness). Questa condizione, studiata e definita dallo psicologo Martin E. P. Seligman, descrive un senso di rassegnazione e incapacità di reagire che si manifesta dopo ripetute esperienze di fallimento o di esposizione a situazioni avverse percepite come incontrollabili. Nel contesto lavorativo, l’impotenza appresa può emergere quando un lavoratore si ritrova esposto a rischi costanti o a eventi traumatici, e percepisce di non avere alcun potere di modificare la propria condizione o di prevenire ulteriori danni.
L’impotenza appresa è un’incapacità di reagire non oggettiva, ma percepita. Si concretizza nella convinzione radicata di non poter esercitare alcun controllo sull’ambiente e, di conseguenza, di non essere in grado di affrontare eventi negativi. Questa “helplessness” è più forte quando la causa degli eventi sembra poco controllabile, stabile (cioè destinata a ripetersi incessantemente) e globale (influenzando l’intera esistenza della persona). Tradotta nel contesto degli infortuni sul lavoro, significa che un operaio che ha assistito o subito incidenti ripetuti potrebbe iniziare a credere che la sicurezza sia al di fuori del suo controllo, che gli sforzi per migliorare le condizioni siano vani e che il rischio sia una caratteristica intrinseca e immutabile del suo impiego.
Le conseguenze di questa impotenza appresa sono devastanti per la salute mentale. Essa può sfociare in una profonda demotivazione, un marcato pessimismo e una riduzione dell’autoefficacia, ovvero la fiducia nelle proprie capacità di raggiungere obiettivi. Sul piano comportamentale, si manifesta con evitamento o un atteggiamento passivo e rinunciatario di fronte alle difficoltà. Si innesca così una spirale negativa: il senso di inadeguatezza, la passività e la rassegnazione aumentano la probabilità di sperimentare nuovi insuccessi, alimentando ansia, apatia e paura costante del giudizio altrui. Nel lungo termine, un pensiero pessimistico pervasivo espone l’individuo al rischio di sviluppare disturbi depressivi, come la depressione maggiore o la distimia, e lo rende più vulnerabile a malattie e insuccessi personali e professionali.
Navigare l’impotenza appresa e promuovere la salute mentale sul posto di lavoro
È cruciale affrontare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro attraverso strategie integrate che trascendano la semplice salvaguardia fisica. Non si tratta soltanto di ridurre il numero degli incidenti; è essenziale promuovere una cultura aziendale dedicata al benessere psichico, capace di riconoscere e convalidare le sofferenze latenti vissute dai dipendenti.
In primo luogo, occorre considerare che i dati percentuali relativi all’invalidità fisica emessi dall’INAIL dovrebbero essere accompagnati da indicatori capaci di identificare compiutamente ogni aspetto dell’impatto globale degli infortuni sulla sfera psico-fisica del lavoratore. Ciò implica una valutazione più attenta riguardo ai risultati psicologici ed emotivi frequentemente ignorati. È necessario instaurare servizi dedicati al supporto psicologico sia per coloro che hanno subito gravi lesioni sia per i parenti delle persone decedute a causa degli incidenti sul lavoro; ciò è raccomandato anche da professionisti esperti nel campo della salute mentale affinché possa esserci un intervento efficace durante tutta la fase post-traumatica. La disponibilità immediata di un servizio specialistico in counselling psicologico ha la potenzialità di orientare l’individuo verso una profonda rielaborazione della propria esperienza traumatica, contribuendo contestualmente a diminuire la probabilità che insorgano disturbi persistenti. Tecniche come l’EMDR, specificamente progettate per rivalutare memorie associate agli eventi traumatici, si dimostrano notevolmente utili nel processo di desensibilizzazione del ricordo associato all’incidente stesso e nell’assistenza al recupero emotivo.
Quando ci si confronta con il fenomeno dell’impotenza appresa nei contesti professionali, risulta cruciale fornire ai dipendenti la sensazione concreta di taglio reale sui propri livelli, così come sulle dinamiche presenti nell’ambiente lavorativo. Ciò implica lo sviluppo non solo delle procedure operative standard relative alla sicurezza, ma anche un’educazione esaustiva sui rischi legati alla sfera psicologica, oltre a implementare metodologie per gestire situazioni stressanti. È fondamentale inoltre instaurare sistemi comunicativi chiari e accessibili affinché gli operatori possano far emergere problematiche esistenti e presentare proposte innovative; questo comporta assicurarsi che le loro opinioni vengano considerate valide e affrontate adeguatamente dentro quel percorso costante verso il miglioramento dei processi aziendali. L’implementazione di interventi psicologici di tipo cognitivo-comportamentale, comprensivi di formazione e azioni mirate al cambiamento delle percezioni, può essere un valido strumento.
Il superamento dell’impotenza appresa richiede anche un cambiamento nella prospettiva individuale. Come si apprende il pessimismo, si può “apprendere l’ottimismo”. Ciò implica l’identificazione e la valorizzazione delle proprie risorse personali (personal strengths), imparando dal passato senza lasciarsi imprigionare dai fallimenti. Occorre concentrarsi su ciò che è effettivamente controllabile, creare un ambiente sociale e lavorativo positivo e imparare a gratificare sé stessi per i piccoli progressi. Rivolgersi a un professionista della salute mentale, un terapeuta, può essere determinante: attraverso un percorso di supporto, si possono riconoscere i pensieri “automatici” negativi, trovare alternative alle spiegazioni pessimistiche, allenare il senso di autoefficacia e stimolare il self-empowerment.
La sicurezza sul lavoro, sia fisica che psicologica, non è un semplice adempimento normativo, ma un diritto inalienabile che contribuisce alla dignità e alla produttività del lavoratore. L’accento sui rischi psicosociali, in crescita come evidenziato dalla Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, sottolinea come la complessità del lavoro moderno abbia un impatto profondo sul benessere psicologico. Le aziende che investono in una cultura di sicurezza inclusiva, che valorizzi non solo la prevenzione degli infortuni ma anche il supporto psicologico e la promozione della salute mentale, non solo tutelano i propri dipendenti, ma costruiscono anche un ambiente di maggiore produttività, engagement e benessere complessivo. Affrontare la “tossina” emotiva che accompagna gli incidenti sul lavoro significa riconoscere la persona nella sua interezza, facilitando un recupero che sia completo, per un rapido e sano reinserimento lavorativo.
Nella vita, spesso, ci troviamo di fronte a situazioni che sembrano insormontabili, e talvolta, dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, cadiamo in un senso di rassegnazione. Questo è il cuore dell’impotenza appresa: non è tanto l’incapacità oggettiva di agire, quanto la convinzione di non poterlo fare, di essere impotenti di fronte agli eventi. Immagina un piccolo cucciolo d’elefante legato a un palo: prova e riprova a liberarsi, ma la corda è troppo forte per lui. Diventando grande, quell’elefante avrebbe la forza di spezzare la corda con un solo movimento, eppure non ci proverà, perché ha imparato che è inutile. Questo si riflette anche nei contesti lavorativi, specialmente in quelli a rischio: se un lavoratore, dopo svariati incidenti (subiti o visti accadere a colleghi), percepisce di non avere alcun potere di influenza sulle condizioni di sicurezza, può sviluppare la convinzione che cercare di cambiare le cose sia vano. L’‘assenza di attività cognitiva’, lungi dall’essere innocua, ha effetti deleteri sul benessere psichico dell’individuo; essa contribuisce a generare stati d’animo come ‘ansia’ ed ‘depressione’. Paradossalmente, però, tale condizione incrementa anche le probabilità che si verifichino incidenti in futuro: infatti, una percezione generale di impotenza può ridurre sia attenzione sia rapidità nella risposta agli stimoli.
Da una prospettiva più complessa riguardo alla psicologia umana, si evidenzia come l’impotenza acquisita sia intrinsecamente legata al concetto sociopsicologico del ‘locus of control’. Questo modello distingue tra coloro i quali imputano gli esiti delle loro vite a forze esterne—quali destino o intervento altrui—e coloro i quali considerano predominante il proprio operato personale nell’influenzare gli accadimenti. Un individuo colpito da impotenza appresa adopera prevalentemente una visione controllata in termini estrinseci; egli crede fermamente che le sue garanzie siano regolate da circostanze sfuggenti. A rendere ancor più complessa questa dinamica interviene poi quel fenomeno noto come ‘mental rumination’, caratterizzato dal circolo vizioso del pensiero negativo ricorrente; quest’ultimo comporta aggravamenti dello stato depressivo ed ostacola qualsiasi tentativo risolutivo concreto. Si verifica così una sinergia perniciosa fra locus of control estrinseco e rumination psicologica, contribuendo ulteriormente all’incapacità dell’individuo di fuggire dalle sabbie mobili dell’ottimismo avverso così come della stagnante apatia. Riconoscere questi meccanismi, sia a livello personale che organizzativo, è il primo passo per spezzare questo ciclo. La vera sicurezza, infatti, non è solo l’assenza di pericoli fisici, ma anche la presenza di una mente serena e capace di reazione.
Glossario:
- Impotenza appresa: condizione psicologica in cui gli individui apprendono a non reagire a esperienze negative, credendo di non avere controllo sulle loro vite.
- DSPT: Disturbo da Stress Post-Traumatico, un disturbo mentale che può svilupparsi dopo l’esperienza di eventi traumatici.
- Ruminazione: processo psicologico in cui una persona pensa ripetutamente e passivamente a problemi o eventi negativi, spesso causando un deterioramento del benessere mentale.