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Turetta rinuncia all’appello: salute mentale e femminicidio sotto la lente

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  • A quasi un anno dall'omicidio, Turetta rinuncia all'appello per «sincero pentimento».
  • Solo una piccola percentuale degli autori ha disturbi mentali diagnosticati, ma «1 assassino su 3» ne soffre.
  • La sentenza n. 22 del 2022 sottolinea il malfunzionamento delle Rems.

il rapporto tra la salute mentale dell’autore del reato e la genesi del femminicidio.

Questo evento, che ha visto Turetta già condannato all’ergastolo in primo grado e che ha indotto la Procura di Venezia a ricorrere per ottenere aggravanti quali crudeltà e stalking, mentre la difesa aveva chiesto l’esclusione della premeditazione oltre che attenuanti generiche, offre una lente su come la giustizia affronta tali crimini, ma soprattutto su come la società percepisce e cerca di comprendere le radici di una violenza così efferata.

Il fatto che l’aggressore abbia rinunciato al processo di secondo grado, motivando la sua decisione con un “sincero pentimento”, come riportato dal Corriere della Sera, e citando “il clima creato intorno a lui” – inclusi un’aggressione in carcere e la pressione mediatica – solleva interrogativi non solo giuridici, ma profondamente psicologici e sociali.

Particolare rilevanza assume il rifiuto da parte del padre della vittima, Gino Cecchettin, di accogliere una richiesta di giustizia riparativa, un percorso che, come introdotto dal decreto legislativo 150/2022 (Riforma Cartabia), mira alla comprensione reciproca e alla responsabilizzazione dell’autore, seppur senza sconti di pena. La vicenda di Turetta è emblematica di un sistema che cerca di bilanciare punizione e riabilitazione, ma evidenzia anche le sfide nel distinguere tra un “rimorso genuino” e un “pentimento di facciata”, come sottolineato dagli esperti. In questo scenario, l’ipotetica presenza di psicofarmaci nell’auto dell’aggressore, un dettaglio che, se confermato, aggiungerebbe un ulteriore strato di complessità al quadro clinico e comportamentale, porta a esaminare più a fondo la correlazione tra salute mentale, abuso di sostanze e atti di violenza, in particolare il femminicidio.

Un’analisi delle statistiche sui femminicidi in Italia rivela che, sebbene solo una piccola percentuale degli autori risulti affetta da disturbi mentali diagnosticati al momento del crimine, la _sofferenza psichica_ non può essere del tutto ignorata. Se da un lato l’8° risultato della ricerca indica che “solo una piccolissima percentuale degli autori del reato risultava affetta da disturbi mentali diagnosticati al momento del femminicidio”, il 10° risultato riportato per la stessa ricerca afferma una percentuale più elevata: “1 assassino su 3 soffre di disturbi mentali” [Osservatorio Diritti].

Questi dati ambivalenti evidenziano la necessità di un’analisi più approfondita e di una armonizzazione dei dati per comprendere appieno l’incidenza della malattia mentale. Tuttavia, l’overkilling, ovvero l’accanimento dell’autore sulla vittima, che prevale nel femminicidio, suggerisce dinamiche psicologiche intense che trascendono la mera premeditazione o la pura ira. L’approccio ideologico spesso incentrato sul patriarcato o sul maschilismo, sebbene fondamentale, rischia di trascurare altri fattori non di genere che possono contribuire alla violenza. È qui che la salute mentale entra in gioco, non come unica causa, ma come elemento potenziale in un coacervo di fattori psicosociali, culturali e relazionali.

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Psicofarmaci e violenza: una correlazione complessa

La correlazione tra psicofarmaci e comportamenti violenti è un terreno di indagine estremamente delicato e complesso, che richiede una rigorosa analisi scientifica per evitare semplificazioni o demonizzazioni. La letteratura, particolarmente ricca su questo argomento, si è concentrata principalmente sugli antidepressivi e sugli antipsicotici, evidenziando come farmaci quali gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) siano stati oggetto di studi sistematici e meta-analisi riguardo alla loro associazione con suicidalità e aggressività. Le etichette di alcuni psicofarmaci, soprattutto negli Stati Uniti a partire dal 2004, menzionano “ansia, agitazione, attacchi di panico, insonnia, irritabilità” come possibili effetti collaterali, sintomi che, in particolari contesti e predisposizioni individuali, potrebbero teoricamente contribuire a un aumento del rischio di comportamenti aggressivi o violenti. Tuttavia, è essenziale sottolineare che ciò non stabilisce una relazione causale diretta tra l’assunzione di tali farmaci e la commissione di femminicidi o altri atti violenti.

La stragrande maggioranza delle persone che assumono psicofarmaci non sviluppa comportamenti violenti, e questi farmaci sono invece un “aiuto fondamentale in molte condizioni di disagio psichico o emotivo”, come evidenziato in un articolo, contribuendo a stabilizzare l’umore e a ridurre l’ansia e la depressione. Secondo una nota del Dott. David Healy, nonostante gli sviluppi normativi, persistono lacune importanti nella comprensione dei meccanismi di azione degli antidepressivi e nel trattamento delle reazioni avverse, evidenziando la necessità di controversie legali e una vigilanza accurata [GiùleManidaiBambini].

Il dibattito sulla presunta correlazione tra psicofarmaci e violenza si colloca all’interfaccia tra medicina e diritto, rendendo cruciale una comprensione dei meccanismi d’azione dei farmaci, delle condizioni cliniche sottostanti e delle variabili individuali che possono influenzare la risposta al trattamento. È importante distinguere tra l’uso terapeutico, prescritto per la cura di malattie mentali, e un eventuale uso improprio o “ricreativo”, che può avere conseguenze ben diverse e rischiose.

La prevenzione dei femminicidi e, più in generale, della violenza di genere, non può prescindere da un approccio multidisciplinare che consideri non solo i fattori psicologici e psichiatrici, ma anche una corretta gestione delle terapie farmacologiche, unita a un’attenta valutazione clinica e a un costante monitoraggio dei pazienti, al fine di mitigare i rischi e promuovere la salute mentale complessiva.

La prevenzione del femminicidio: una responsabilità collettiva

Affrontare il fenomeno del femminicidio rappresenta un dovere collettivo ben oltre la responsabilità individuale; esso assume i contorni di un impegno etico-sociale condiviso. In Italia, la lotta contro la violenza sulle donne risente dell’assenza di adeguate normative e politiche specifiche. È pertanto fondamentale adottare una strategia a lungo termine capace di contrastare questa problematica sistemica radicata in disuguaglianze culturali ed economiche.

Di conseguenza, la prevenzione non può ridursi a interventi repressivi; essa deve svilupparsi attraverso iniziative multifaceted includenti vari attori sociali su più livelli. Un aspetto cardine della strategia preventiva è l’educazione alla non violenza, da avviare sin dai primi anni di vita. Iniziative formative focalizzate su temi quali rispetto, parità di genere e gestione dei sentimenti risultano fondamentali nella creazione di cittadini informati e rispettosi delle diversità umane. È cruciale abbandonare la concezione ristretta della violenza come fenomeno privato: occorre infatti percepirla come espressione critica dell’intero sistema sociale necessitante così radicali mutamenti culturali.

Un secondo aspetto fondamentale riguarda la valutazione del rischio e la gestione delle situazioni di potenziale pericolo. Dati allarmanti sui femminicidi e sulle violenze indicano la necessità di avere operatori sanitari, psicologi e forze dell’ordine formati specificamente per valutare i rischi di recidiva e per implementare strategie efficaci di tutela. Ciò include l’identificazione precoce dei segnali di allarme, la creazione di reti di supporto per le vittime e l’attivazione di protocolli di intervento rapidi ed efficaci.

Il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) e la necessità di superare gli ospedali psichiatrici giudiziari, come evidenziato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 22 del 2022, sottolineano l’importanza di strutture adeguate e di un approccio alla salute mentale che tenga conto della complessità dei disturbi e delle esigenze riabilitative. È essenziale garantire che le persone con problematiche psichiatriche non vengano lasciate ai margini, ma ricevano cure adeguate e supporto, anche per prevenire comportamenti violenti. È fondamentale intraprendere azioni mirate sulla dimensione culturale e politica. Nonostante l’importanza delle normative vigenti, queste si rivelano insufficienti in assenza di un sostanziale cambiamento culturale. Tale cambiamento necessita della diffusione di valori improntati al rispetto reciproco, all’uguaglianza di genere e all’assenza di discriminazioni; ciò può avvenire tramite campagne informative efficaci, interventi strategici nei mass media e il coinvolgimento proattivo delle istituzioni insieme alla società civile.

Affrontare il tema del femminicidio rappresenta una questione articolata che esige uno sforzo continuo e concertato da parte dell’intera collettività per edificare una realtà più equa, sicura e in grado di tutelare la dignità intrinseca ad ogni individuo.

Oltre il confine del male: le dinamiche psicologiche e il percorso di trasformazione

Nel viaggio attraverso le dinamiche della violenza di genere, in particolare il femminicidio, e la sua complessa intersezione con la salute mentale e il ricorso agli psicofarmaci, emerge un panorama che va ben oltre la mera catalogazione dei fatti o la ricerca di un’unica causa scatenante. La vicenda di Filippo Turetta, con la sua rinuncia all’appello e le motivazioni connesse a un “sincero pentimento” e alle pressioni subite, ci invita a una riflessione profonda sul concetto di responsabilità, sul significato del percorso giudiziario e sulla possibilità di un’autentica trasformazione interiore. Dal punto di vista della psicologia comportamentale, la rinuncia al ricorso in appello può essere interpretata come un indicatore di “desistance”, ovvero l’inizio di un processo di allontanamento dal comportamento criminale. Questo non è un evento lineare, ma un percorso psicologicamente intricato che implica una rottura con una “carriera criminale” precedente e la costruzione di una nuova identità. L’accettazione della condanna, in questo contesto, rappresenta un primo passo significativo, coerente con il modello Risk-Need-Responsivity (RNR), che mira alla riduzione di comportamenti antisociali e all’adesione a un piano di vita non criminale.

Questa “internalizzazione” della responsabilità, ovvero la convinzione di poter influenzare positivamente il proprio futuro, è un momento cruciale: il condannato sposta il proprio “Locus of Control” verso l’interno, riconoscendo che la sua risocializzazione dipende dalle scelte compiute in carcere. A un livello più avanzato di psicologia cognitiva, è fondamentale distinguere tra un “rimorso genuino” e un “pentimento di facciata”. Il rimorso autentico implica un lavoro emotivo profondo e spesso doloroso, la capacità di confrontarsi con il danno causato e di elaborare il dolore altrui. Il pentimento di facciata, al contrario, può essere una forma di manipolazione per ottenere benefici futuri. La pressione mediatica, come evidenziato, gioca un ruolo non marginale, agendo come una “forza esterna” che crea un “processo parallelo” e può influenzare non solo il giudizio, ma anche la percezione dell’opinione pubblica e la psiche del condannato, portando a depressione, ansia e uno stigma sociale così intenso da indurre all’auto-isolamento.

Attenzione alla salute mentale: È fondamentale prestare attenzione a come la salute mentale dei condannati possa influenzare il loro percorso di riabilitazione e le loro interazioni con la società.

Il contesto carcerario, con la sua “Qualità Morale della Vita” (MQPL), è un fattore determinante nel successo della riabilitazione. Un ambiente che favorisce “decenza, sicurezza per il detenuto, professionalità e coerenza del personale, e alto livello di autonomia personale” supporta esiti migliori e riduce il rischio di recidiva. Citare episodi di aggressione subita in carcere può indicare una scelta strategica mirata non solo alla sicurezza personale, ma anche a dimostrare conformità e “responsivity” per accedere a percorsi di trattamento intensivo e a ridotta promiscuità criminale, minimizzando il rischio legale percepito dall’istituzione.

Riflettere su queste dinamiche ci spinge a considerare che il male, nella sua espressione più estrema come il femminicidio, non è quasi mai un fenomeno monolitico o spiegabile con una singola causa. È il risultato di un intreccio complesso di vulnerabilità personali, dinamiche relazionali disfunzionali, fattori socioculturali e, talvolta, di fragilità legate alla salute mentale e all’uso di sostanze. Il perdono, la giustizia riparativa, la riabilitazione, non sono sconti alla pena, ma tentativi da parte di una società che si evolve di esplorare percorsi che vadano “oltre” la semplice punizione, cercando di comprendere e, laddove possibile, di ricostruire. Tuttavia, la ferita lasciata dal femminicidio, il dolore delle vittime e dei loro familiari, rimane indelebile, e l’esigenza di giustizia è un fondamento irrinunciabile.

Glossario:

  • Femminicidio: omicidio di una donna a causa del suo genere, spesso perpetrato da un partner o ex partner.
  • Psicofarmaci: farmaci utilizzati per trattare disturbi psichiatrici, come depressione e ansia.
  • Rimorso genuino: sentimento autentico di pentimento per un’azione errata.
  • Pena: misura punitiva applicata in seguito alla commissione di un reato, caratterizzata dalla possibilità di privazione della libertà o da sanzioni monetarie.

L’equilibrio sottile e complesso tra la necessità di comprendere le dinamiche criminose e quella di infliggere punizioni adeguate si colloca al centro delle aspirazioni sociali verso un futuro contraddistinto da maggiore consapevolezza e giustizia. La questione rimane vitale: come mantenere viva l’umanità, anche quando ci si confronta con le manifestazioni del male?


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