Trauma transgenerazionale: possiamo davvero ereditarlo?

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  • Studio del 2018: figli di prigionieri di guerra avevano l'11% di mortalità prematura.
  • Figli di sopravvissuti all'Olocausto: cambiamenti epigenetici nel gene che regola il cortisolo.
  • Studio 2023: le ferite della guerra aumentano l'epigenetica dei traumi nei discendenti.

Il fenomeno del trauma postbellico, intrinsecamente complesso nella sua natura, va al di là delle sole esperienze vissute dai sopravvissuti stessi; esso svela un’influenza profonda e sorprendentemente persistente sulle generazioni future. Non si limita a una semplice trasmissione orale della storia familiare o ai comportamenti imitativi; secondo recentissime ricerche nell’ambito dell’epigenetica, emerge l’idea che i segni lasciati da traumi collettivi come quelli bellici possano divenire parte integrante della nostra eredità biologica. Questo processo influisce su aspetti cruciali della salute dei discendenti: figli e nipoti possono portare con sé quelle cicatrici invisibili derivanti da eventi traumatici passati. Ciò viene comunemente definito trauma transgenerazionale, un concetto capace di rimodellare profondamente i nostri paradigmi riguardanti l’ereditarietà non geneticamente determinata fornendo spunti nuovi per quanto riguarda sia prevenzione sia cura.

In questo contesto innovativo dell’epigenetica—una disciplina scientifica dedicata allo studio delle alterazioni nell’espressione genica prive d’impatto sulla sequenza del DNA stesso—si analizzano quei meccanismi biochimici attraverso i quali eventi ambientali (quali lo stress accumulato o episodi traumatici) possono innescare attività genetiche specifiche via meccanismi composti dalla metilazione del DNA insieme alla modifica degli istoni. Questi cambiamenti modulano quindi sostanzialmente il modo con cui gli organismi reagiscono agli stimoli esterni trovandosi esposti alle difficoltà della vita quotidiana mentre influenzano anche la gestione emotiva personale ed eventualità legate alla suscettibilità verso varie patologie. Tali modificazioni epigenetiche, sebbene non cambino il “codice” genetico, ne alterano la “lettura”, con conseguenze a breve e lungo termine sulla funzione neuronale, la plasticità cerebrale e gli adattamenti comportamentali allo stress psicologico.

Studi di rilievo hanno iniziato a tracciare questa trasmissione. Ad esempio, uno studio condotto dai ricercatori Costa et al. (2018) sulla Guerra Civile Americana ha rivelato che i figli maschi di prigionieri di guerra sottoposti ad abusi mostravano una probabilità circa dell’11% superiore di morire prematuramente dopo la mezza età rispetto ai loro coetanei. Questa differenza è principalmente attribuita a tassi più elevati di emorragia cerebrale e osservata nello specifico solo nei figli maschi; il dolore subito dai prigionieri potrebbe aver alterato chimicamente i loro geni, lasciando un segno che è stato poi trasmesso alle generazioni successive, con ricadute sulla loro salute e persino sulla loro aspettativa di vita.

An artistic representation of a DNA strand with vibrant colors, symbolizing the concept of epigenetics and its connection to trauma and inheritance, surrounded by elements representing generational bonds.

Analogamente, ricerche sui figli di sopravvissuti all’Olocausto hanno evidenziato cambiamenti epigenetici in un gene cruciale per la regolazione del cortisolo, l’ormone dello stress. Questi cambiamenti, caratterizzati da livelli cronicamente bassi di cortisolo dovuti a un processo di metilazione del DNA, non erano presenti nei figli di famiglie ebree che non avevano vissuto l’Olocausto in Europa, suggerendo un’influenza diretta del trauma materno sulla programmazione biologica della prole. Un altro esempio viene dagli studi sulla carestia olandese del 1944-45, che hanno mostrato come i figli di donne incinte durante quel periodo avessero tassi più elevati di obesità, diabete e schizofrenia, e portassero una specifica “firma epigenetica” su uno dei loro geni.

Studi Recenti
– Una revisione del 2023 ha confermato che le ferite della guerra possono aumentare l’epigenetica dei traumi nei discendenti, infliggendo un carico emotivo duraturo anche su chi non ha direttamente @_vissuto il conflitto [Iannitelli, Biondi].
– Gli eventi traumatici connessi alla guerra hanno il potere di determinare conseguenze non solo dal punto di vista genetico, ma anche in relazione a modelli comportamentali, incidendo significativamente sulle vite delle future generazioni. [Pirrongelli]. Tali evidenze suggeriscono una rivoluzione nella nostra concezione del trauma, sfidando le idee tradizionali sui suoi effetti. Sebbene la questione rimanga aperta al dibattito scientifico e necessiti ancora di ricerche condotte su campioni umani affinché sia confermata l’ereditarietà degli epigenetici, ci troviamo dinanzi a una realtà sorprendente: questa non rappresenta solo un problema psicologico o socioculturale; comporta invece dinamiche complesse dal punto di vista biologico. Questo legame intergenerazionale fa sì che la storia personale del trauma influisca non soltanto sull’individuo colpito direttamente ma anche sulle generazioni successive. La possibilità che i vissuti dei nostri progenitori si riflettano nel nostro epigenoma offre uno spunto intrigante per rivedere la percezione del tempo: anziché considerarlo lineare e statico, lo possiamo interpretare come un’entità vivente capace di modellare continuamente la nostra esistenza attuale.

I processi attraverso i quali il trauma viene trasmesso si rivelano complessi e articolati, abbracciando aspetti sia biologici che comportamentali, sfuggendo alla mera registrazione mnemonica.

La trasmissione del trauma attraverso le generazioni si manifesta attraverso due modalità principali: quella epigenetica, che agisce a livello biologico, e quella comportamentale, che si esprime nelle dinamiche relazionali e sociali. Ambedue contribuiscono a plasmare il destino delle generazioni successive, anche in assenza di un’esperienza traumatica diretta. L’idea di un “PTSD epigenetico” o “trauma transgenerazionale” suggerisce che gli effetti di un trauma significativo possano manifestarsi nei discendenti, anche se non hanno mai vissuto l’evento scatenante.

A livello epigenetico, come già accennato, il trauma può indurre modificazioni nell’espressione genica senza alterare la sequenza del DNA. Queste modifiche regolano la risposta del corpo allo stress, la produzione di ormoni e la gestione delle emozioni. Ad esempio, l’esposizione al trauma può causare alti livelli di cortisolo, portando a modificazioni nell’attività dei geni coinvolti nella regolazione emotiva. Tali alterazioni possono essere trasmesse attraverso ovuli e spermatozoi, rendendo i figli più sensibili allo stress e con un sistema nervoso iperreattivo, anche in un ambiente sereno. Gli studi sui discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto o sui figli di immigrati di prima generazione spesso mostrano una percezione del mondo come ostile o pericoloso, ansia e un senso di dovere o colpa non direttamente generato dalle loro esperienze individuali, ma che riverbera il vissuto non elaborato dei genitori.

A serene landscape depicting a supportive community, with individuals helping each other in various ways, symbolizing resilience and recovery from trauma. The environment should appear peaceful and harmonious.

Parallelamente, la modalità comportamentale della trasmissione del trauma si manifesta attraverso le dinamiche familiari e sociali. I traumi irrisolti di un genitore possono tradursi in comportamenti di evitamento, sfiducia, silenzio emotivo o ipercontrollo. Un genitore traumatizzato può essere iperallertato o distante, trasmettendo al figlio la percezione che il mondo sia pericoloso o che le emozioni non siano benvenute. I bambini assorbono questi modelli affettivi, anche in assenza di racconti espliciti del trauma. Ad esempio, un figlio che ha assistito a violenze domestiche può sviluppare profonde paure o un senso di impotenza, che a sua volta può influenzare il suo futuro stile genitoriale. Allo stesso modo, l’abbandono o la perdita di un genitore in giovane età, anche se non verbalizzato, può condizionare l’attaccamento e generare ansia da separazione nei figli o una distanza emotiva per paura di perdere chi si ama. La tossicodipendenza o le malattie mentali gravi in famiglia possono indurre nei figli un’ipervigilanza e una tendenza a “monitorare” gli stati d’animo degli adulti, portando a uno stile genitoriale rigido o caotico.

Un esempio calzante per distinguere la trasmissione intergenerazionale da un’influenza diretta genitore-figlio è quello dei genitori iperprotettivi che, attraverso i loro comportamenti, possono trasmettere le loro paure ai figli, rendendoli ansiosi. In questi casi, i bambini sono considerati “sopravvissuti al trauma primario” in modo indiretto. Nel caso della trasmissione transgenerazionale, invece, il bambino eredita il dolore e la sofferenza dei genitori traumatizzati pur non entrando direttamente in contatto con l’evento traumatico. È come se la prole dei sopravvissuti al trauma fosse “programmata” per esprimere una specifica risposta cognitiva ed emotiva in situazioni difficili, generando, ad esempio, un attacco di panico anche in assenza di una minaccia reale. Questa “cortocircuitazione cerebrale” causa una maggiore vulnerabilità allo stress.

La ricerca scientifica, soprattutto attraverso studi su modelli animali, ha dimostrato come i cambiamenti indotti dallo stress nella metilazione del DNA possano essere ereditati. L’esperimento di Dias e Ressler del 2014, in cui topi maschi condizionati a temere un odore specifico hanno avuto cuccioli (F1 e F2) che mostravano ansia allo stesso odore senza averne mai fatto esperienza diretta, è un esempio paradigmatico. La trasmissione epigenetica si manifesta nell’ipermetilazione di un gene olfattivo ereditato dalla prole. Tali ricerche, pur richiedendo cautela nel trasferimento dei risultati all’essere umano, avvalorano l’ipotesi secondo cui gli effetti del trauma, piuttosto che l’esperienza in sé, possano propagarsi attraverso le generazioni mediante meccanismi privi di connessione al genoma. Queste dinamiche hanno il potere di alterare non solo la funzionalità del DNA, ma anche il processo della trascrizione genica. Si tratta di una disciplina in continua espansione che mette in discussione le nostre precedenti nozioni relative all’ereditarietà e alle conseguenze durature causate da esperienze traumatiche.

Cosa ne pensi?
  • 💡 Interessante come l'articolo evidenzi la responsabilità verso le future generazioni......
  • 🤔 Ma siamo sicuri che l'epigenetica sia l'unica spiegazione? Forse sottovalutiamo......
  • 💔 La trasmissione del trauma è un fardello pesante, ma la resilienza......

Resilienza e superamento del trauma: percorsi individuali e comunitari

Nell’ambito dell’impatto duraturo che i traumi possono esercitare sulle vite delle persone e delle collettività stesse emerge con forza il concetto fondamentale della resilienza. Quest’ultima è intesa come quella predisposizione umana alla riadattabilità quando ci si trova davanti a eventi avversi quali traumi o stress rilevanti. Essa rappresenta un meccanismo flessibile che riconosce il dolore senza negarlo; al contrario, lo accetta per trasformarlo in opportunità. È importante sottolineare che questa virtù non assume forma uniforme ma variegata secondo le influenze culturali proprie degli individui coinvolti e agisce su tre piani distintivi: personale, familiare ed evolutivo.

Sul piano personale caratterizzante della resilienza sono molteplici gli elementi psicosociali implicati nel suo nutrimento. L’adozione consapevole delle capacità operative attive, ad esempio, permette agli individui d’interagire con le sfide cercando soluzioni anziché subendole passivamente; inoltre, mantenere relazioni socialmente nutrienti diventa essenziale per ricevere sostegno nei periodi turbolenti (soprattutto crisi acute). In aggiunta alla dimensione sociale va considerata anche l’importanza della bellezza del prendersi cura della propria salute fisica; azioni quotidiane orientate all’esercizio corporeo e alla pratica della mindfulness fortificano ulteriormente questa strategia anti-stress. L’adozione di una bussola morale personale e la pratica del perdono (verso gli altri e verso se stessi) sono stati identificati come elementi cruciali per il processo di guarigione e resilienza post-traumatica. La testimonianza di Amanda Lindhout, rapita nel 2008 in Somalia, evidenzia l’importanza di strategie cognitive come la distrazione, il reframing e la flessibilità mentale, unita al supporto sociale e al perdono, come elementi chiave per la sopravvivenza e la ripresa dopo un’esperienza estrema.

Glossario:
  • Epigenetica: branca della biologia che studia le modifiche all’espressione genica che non alterano la sequenza del DNA.
  • Metilazione: aggiunta di un gruppo metilico al DNA che può silenziare l’espressione genica.
  • PTSD (Disturbo da Stress Post-Traumatico): disturbo psicologico che può seguire eventi traumatici.
  • Resilienza: si tratta della capacità di adattarsi e recuperare dinanzi a ostacoli o esperienze traumatiche.

L’importanza della psicoterapia emerge chiaramente all’interno di questo processo. Le terapie validate scientificamente per il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), come la terapia d’esposizione prolungata insieme alla terapia cognitiva per l’elaborazione dei traumi, perseguono l’obiettivo specifico di sviluppare queste proprietà resilienti nei soggetti trattati. Non si mira solamente ad alleviare i sintomi, bensì a incoraggiare forme attive di coping mentre si rafforzano gli aspetti cognitivi, comportamentali ed esistenziali che promuovono una maggiore resilienza. Recenti ricerche condotte da Vinkers et al. (2021) hanno dimostrato come la Desensibilizzazione e Rielaborazione tramite Movimenti Oculari (EMDR) possa avere effetti sul piano epigenetico nei soggetti affetti da PTSD; ciò implica che, affrontando direttamente le ferite emotive, è possibile non solo permettere all’individuo una reintegrazione nella propria vita, ma anche interrompere il perpetuo trasferimento epigenetico degli effetti negativi del trauma sulle generazioni successive. Non si può ridurre la resilienza a un mero attributo individuale; essa deve essere intesa come una qualità collettiva. Con il termine resilienza comunitaria, ci si riferisce all’abilità con cui un gruppo affronta sfide significative – siano esse disastri naturali, crisi economiche o tensioni sociali – mostrando capacità d’adattamento. I principali aspetti che compongono tale resilienza comprendono: da un lato, l’aumento della coesione sociale, essenziale per favorire solidarietà tra i membri; dall’altro lato, l’importanza della partecipazione attiva, con i membri coinvolti nelle decisioni strategiche e nella ricezione di adeguati piani di supporto psicosociale.

Inoltre, è emerso in uno studio che concetti quali il personalismo, il familismo e il respeto rivestono particolare importanza nell’ambito della resilienza comunitaria all’interno delle popolazioni latinoamericane. Questi fattori evidenziano quanto sia determinante la cultura nel forgiare strategie efficaci per affrontare le difficoltà. La progettazione di programmi formativi dedicati alla resilienza, unitamente a interventi focalizzati, si rivela cruciale nel favorire tale abilità tanto nell’immediato antefatto al trauma quanto in fase successiva. Tali iniziative fungono da strumenti vitali per la prevenzione su diversi livelli. È fondamentale adottare una strategia multilivello e multidisciplinare, poiché solo attraverso questa sinergia si potrà acquisire una comprensione profonda della resilienza, elemento indispensabile in un contesto globale caratterizzato da continui rischi e difficoltà.

Oltre la condanna: la plasticità del futuro e la nostra responsabilità

La concezione secondo cui il trauma può essere trasmesso attraverso generazioni, tanto sul piano biologico quanto su quello comportamentale, rischia di instillare un senso di fatalismo quasi schiacciante; sembrerebbe evocare un destino segnato fin dalla nascita. Tuttavia, lo stesso ambito scientifico da cui emergono tali interpretazioni ci offre un barlume d’ottimismo: la plasticità epigenetica. Questa nozione sottolinea che le alterazioni apportate all’epigenoma non devono necessariamente permanere nella loro forma originale; al contrario, possono subire modifiche o addirittura ripristinarsi con l’avvenire dell’assenza delle condizioni ambientali avverse o mediante l’acquisizione di nuovi approcci nelle situazioni difficili da affrontare. La predisposizione ad adattarsi prontamente alle varie sollecitazioni esterne è essenzialmente benefica e rappresenta il nucleo stesso della resilienza umana.

Un chiaro esempio viene dai risultati ottenuti dai ricercatori Dias e Ressler sui roditori da laboratorio: non solo hanno evidenziato come sia possibile ereditare una reazione inquietante verso specifici odori, ma hanno dimostrato altresì come questa risposta pavloviana possa venire completamente neutralizzata. Infatti, dopo aver indotto nei topi maschi una condizione avversa legata alla paura del profumo dei fiori ciliegio – legno dolce immediatamente associabile al male – gli scienziati li hanno poi esposti repetutamente a quell’aroma innocuo senza alcun trauma (scossa elettrica). Di conseguenza, i tratti epigenetici associati alla paura sono scomparsi dal loro materiale genetico procreativo. Di conseguenza, anche i loro cuccioli non manifestavano più l’accresciuta sensibilità. Questo dato è rivoluzionario: suggerisce che, se un organismo “disimpara” l’associazione trauma-stimolo, la generazione successiva potrebbe essere protetta dalle sue conseguenze.

Trasponendo questo concetto all’essere umano, si apre una riflessione profonda sulla potenza della psicoterapia e degli interventi di supporto. Diverse ricerche come quella di Jimenez et al. (2018) suggeriscono che gli interventi terapeutici possano influenzare il nostro epigenoma e contribuire a interrompere la trasmissione intergenerazionale del trauma. Questa idea invita a un atteggiamento proattivo nella cura e nell’elaborazione delle ferite storiche, non solo per il bene dei singoli, ma anche per quello delle generazioni future.

La presenza di fattori di protezione – come relazioni significative, un’educazione consapevole, un ambiente sicuro, la scoperta di un talento o l’appartenenza a una comunità – rafforza ulteriormente questa prospettiva. Non ereditiamo solo il dolore, ma anche risorse, capacità e meccanismi di resilienza. La nostra coscienza e la possibilità di agire su noi stessi ci conferiscono il potere di scegliere come prenderci cura di ciò che ci è stato affidato, come trasformare ciò che non vogliamo più trasmettere.

Il trauma, nella sua essenza più basilare, è una rottura. Una rottura delle aspettative, della fiducia, della continuità di un’esistenza percepita come sicura. La nozione avanzata dell’epigenetica del trauma aggiunge uno strato di complessità sbalorditivo: ci dice che questa rottura può avere ripercussioni che trascendono la nostra stessa vita, lasciando un’eco silenziosa nelle cellule dei nostri discendenti. Questo ci spinge a una riflessione profonda: che significato ha “guarire” se le ferite possono continuare a incidere su chi verrà dopo di noi? Significa forse che la vera cura non è solo trovare pace per sé stessi, ma attivare un processo di riparazione che si estende nel tempo, un atto di amore e responsabilità verso un futuro collettivo. La consapevolezza di questa eredità invisibile non deve essere una condanna, ma un invito potente all’azione: a spezzare i cicli di sofferenza non solo per il nostro bene, ma per alleggerire il carico di chi ancora deve nascere. La nostra capacità di elaborare, di integrare, di perdonare – anche se stessi – diventa un ponte verso una nuova “programmazione” di resilienza, un gesto di speranza che attraversa le generazioni e trasforma l’ombra del passato in una luce per il futuro.


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