Sedazione e suicidi: la crisi nelle carceri italiane nel 2025

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  • Il 12% dei detenuti ha diagnosi di patologie psichiatriche gravi.
  • Oltre il 20% della popolazione carceraria usa psicotropi.
  • A Trento, l'uso di psicofarmaci raggiunge il 70%.
  • Solo 6,76 ore settimanali di psichiatra ogni 100 detenuti.
  • Nel 2024 si sono registrati 91 suicidi in carcere.
  • Affollamento al 220% a San Vittore, Milano.
  • Recidiva in Italia al 68%: il sistema fallisce.

L’allarme del Consiglio d’Europa e la sedazione farmacologica nelle carceri italiane

Un’indagine condotta recentemente dal Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) sotto l’egida del Consiglio d’Europa ha portato alla luce gravi problematiche riguardanti il sistema penitenziario italiano e i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Fra i principali problemi riscontrati emerge l’impiego esteso della sedazione farmacologica con psicofarmaci nei confronti dei detenuti; tale pratica si colloca all’interno di uno scenario già critico caratterizzato da sovraffollamento e violazioni dei diritti umani. Questo campanello d’allarme formulato circa quattro mesi orsono rivela un contesto dove la questione della salute mentale negli istituti penali assume toni urgenti e intricati.

Il diritto al benessere fisico e psichico costituisce uno dei diritti inviolabili dell’essere umano; ciò è stato esplicitamente affermato nel corso degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale nel 2015. Ciononostante, si osserva come le condizioni nelle carceri italiane si discostino significativamente da tali standard etici fondamentali. Attualmente si stima che approssimativamente il 12% degli individui reclutati nell’ambito detentivo abbia ricevuto diagnosi di patologie psichiatriche severamente compromettenti: tale dato tende a crescere progressivamente. Il fenomeno descritto rivela una duplice criticità: da un lato si osservano individui che giungono all’interno delle strutture penitenziarie già afflitti da malattie pregresse. Queste problematiche sono frequentemente collegate a situazioni di marginalità sociale, come difficoltà economiche e droghe; dall’altro vi è la manifestazione di disturbi psichiatrici nei detenuti causati dal profondo impatto psicologico generato dalla condizione detentiva.

La nota organizzazione per i diritti umani Antigone ha evidenziato che più del 20% della popolazione carceraria utilizza farmaci psicotropi — comprendenti antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e antipsicotici. Questo quadro diventa ancor più preoccupante in certe istituzioni penitenziarie; ad esempio, nella struttura modenese si arriva al sorprendente 44%, mentre a Trento il tasso raggiunge addirittura il 70%. [Il Sole 24 Ore]. Un dato significativo emerge dal fatto che il 40% dei detenuti fa uso di sedativi o ipnotici. Tali statistiche suggeriscono un utilizzo dei farmaci ben oltre i confini terapeutici; infatti, la prescrizione degli psicofarmaci sembra potersi convertire in uno strumento di sedazione collettiva, configurandosi come una soluzione abituale—sebbene raramente sia l’unica disponibile—quando mancano opzioni valide.

In questo contesto critico si evidenzia anche la drammatica insufficienza nel supporto offerto dalla salute mentale: solo 6,76 ore alla settimana sono allocate per ogni gruppo di cento detenuti a disposizione dello psichiatra e solo 20,6 ore per quanto riguarda gli psicologi. [Epiprev.it]. Questa dotazione è insufficiente per garantire un supporto efficace: i colloqui sono spesso brevi, i percorsi terapeutici discontinui e i casi più gravi rischiano di essere trascurati. In molte strutture, la presenza di personale specializzato è limitata a pochi giorni o addirittura a poche ore a settimana, rendendo impossibile un’assistenza continuativa e personalizzata. Questo quadro di deprivazione si riflette in una morbilità psichiatrica elevata tra i detenuti, come evidenziato da studi recenti. Il carcere, lungi dall’essere un luogo di cura, finisce per essere un ambiente che aggrava le condizioni di salute mentale, o addirittura le scatena in chi non ne soffriva prima. La situazione è tale che si può parlare di “mal di sbarre”, una condizione che compromette la salute fisica e mentale dei detenuti, con diritti negati e una crescente incidenza di suicidi.

An abstract and stylized image inspired by neoplasticism and constructivism, illustrating themes of mental health and incarceration in a modern artistic way.
Rappresentazione artistica delle tematiche centrali affrontate nel contesto carcerario italiano.

Pratiche di resistenza farmacologica e le loro conseguenze sulla salute mentale

L’abuso di psicofarmaci nelle carceri non è solo un problema di somministrazione, ma anche una forma di “resistenza” da parte dei detenuti alle condizioni di detenzione, con ripercussioni devastanti sulla loro salute mentale a lungo termine. Il fenomeno, spesso definito “tutti sedati per resistere alla prigione”, rivela come gli psicofarmaci vengano utilizzati dai detenuti per affrontare l’ansia, la depressione, i disturbi del sonno e la sensazione di perdita del senso del tempo, tutti effetti comuni della reclusione. Questi comportamenti di automedicazione, o di accettazione passiva di terapie farmacologiche non sempre mirate, contribuiscono a una regressione cognitiva e a una sociofobia che rendono ancora più difficile il percorso di riabilitazione e reinserimento sociale.

Le conseguenze di tali pratiche sono profonde e multifattoriali. Dal punto di vista cognitivo, l’uso prolungato e spesso incontrollato di psicofarmaci può portare a un deterioramento delle funzioni cerebrali, compromettendo la capacità di attenzione, memoria e ragionamento. L’uso prolungato della sedazione ha effetti profondamente deleteri sul piano emotivo: essa tende ad appianare le reazioni affettive degli individui coinvolti nel sistema carcerario, generando uno stato d’apatia che ostacola l’elaborazione delle loro personali esperienze. Tale fenomeno è comunemente definito anestesia emotiva, poiché ritarda o frena significativamente il processo necessario per affrontare i traumi vissuti precedentemente all’incarcerazione nonché quelli derivanti dalla detenzione stessa. Sul versante comportamentale emerge poi una preoccupante dipendenza dagli psicofarmaci: questa conduzione porta a complicazioni ulteriori quali la ricerca incessante dell’aumento della dose prescritta o conflitti aperti con gli agenti penitenziari; al termine della pena sorge poi l’ingravescente difficoltà nell’abbandono dei farmaci stessi — fattore che incrementa esponenzialmente il rischio d’impatto su futuri comportamenti devianti.

Inoltre, alle criticità sopra citate si sommano significative lacune sanitarie unite a problematiche strutturali efferate nel panorama penitenziario italiano: oltre un terzo degli istituti visitati dall’associazione Antigone affonda le radici in costruzioni antecedenti al 1950; alcuni edifici addirittura datano a prima del 1900! La qualità abitativa è compromessa da celle soffocanti durante il periodo estivo ed estremamente fredde nei mesi invernali — completamente sprovviste sia dei sistemi appropriati per garantire climatizzazione adeguata sia dell’acqua calda nella quasi metà delle strutture esaminate. Inoltre, c’è da notarsi che ben un quarto degli istituti manca perfino degli spazi fondamentali dedicabili ad attività lavorative o riabilitative: tutti fattori questi che contribuiscono alla creazione di un contesto assolutamente tossico dal punto di vista psicosociale e igienico-sanitario. La situazione del sovraffollamento non fa altro che esacerbare un contesto già precario: fino al termine del mese di aprile dell’anno 2025, il numero dei detenuti nel territorio italiano ha raggiunto la cifra di 62.000, mentre gli spazi disponibili secondo le normative vigenti sono limitati a circa 51.000 posti. In diverse strutture penitenziarie, tra cui San Vittore situata a Milano, si registrano tassi d’affollamento che hanno oltrepassato un inquietante 220%. [Antigone 2025]. Questo significa che le persone vivono in condizioni disumane, spesso in celle sovraffollate e senza privacy, con un impatto devastante sulla loro psiche.

A dramatic and powerful representation of a prison cell, emphasizing the harsh and cramped conditions experienced by inmates, with dim lighting and minimalist furnishings.
Rappresentazione visiva delle condizioni carcerarie e della vita all’interno delle celle.

L’isolamento, i suicidi e la retorica della rieducazione

L’intersezione tra carenze strutturali, sovraffollamento e la scarsità d’assistenza psichiatrica genera una spirale perniciosa manifestata drammaticamente dal crescente numero di suicidi all’interno delle istituzioni penitenziarie. Nel corso del 2024 si è assistito al picco storico degli atti autolesionistici registrati nel Paese: ben 91 suicidi. I dati relativi ai primi sette mesi del 2025 confermano questa tendenza inquietante con già 37 casi. Ciò mette a nudo la considerevole vulnerabilità presente all’interno della comunità carceraria italiana; essa è predominata da giovani individui, stranieri o detenuti che attendono giudizio per crimini non gravi. Un episodio recente accaduto presso il carcere di San Vittore mostra quanto sia grave questo fenomeno: un ragazzo di appena ventidue anni ha deciso tragicamente di togliersi la vita nella sua cella. Questo triste evento testimonia come gli atti suicidi tendano ad aumentare nel momento iniziale della detenzione; infatti, quel periodo risulta essere il più devastante psicologicamente mentre il supporto ricevuto dagli operatori risulta limitato.

Le origini profonde di tale crisi affondano le radici nella concezione stessa del sistema penitenziario italiano, incapace ancora oggi di aderire efficacemente alla dimensione rieducativa sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Sebbene il modello teorico sia orientato al reinserimento sociale, la quotidianità delle carceri racconta una realtà ben diversa, in cui la logica punitiva prevale spesso su quella riabilitativa. In questo contesto, l’isolamento, pur essendo destinato a ragioni disciplinari, sanitarie o di protezione, si trasforma troppo spesso in una vera e propria punizione. I provvedimenti di isolamento, limitati a un massimo di 15 giorni consecutivi, sono in aumento. Le celle destinate all’isolamento sono anguste, prive di arredi, con scarsa ventilazione; in alcuni casi, i detenuti sono lasciati senza materasso, nudi e senza bagno.

Statistiche sui suicidi in carcere:
  • 2022: 84 suicidi
  • 2023: 68 suicidi
  • 2024: 91 suicidi

Gli effetti di queste condizioni estreme sono devastanti: ansia, depressione, disturbi del sonno, regressione cognitiva, sociofobia e perdita del senso del tempo. In tali contesti, parlare di rieducazione appare come pura retorica. Il tasso di recidiva in Italia, che si attesta al 68%, con più di due detenuti su tre che tornano a delinquere dopo aver scontato la pena, è la prova tangibile del fallimento del sistema attuale nel promuovere un reale cambiamento. Nonostante le numerose iniziative e sollecitazioni sul tema, come gli scioperi della fame di magistrati e legali per i diritti dei detenuti, le riforme faticano a tradursi in azioni concrete. Il decreto carceri, approvato per ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di detenzione, è ancora bloccato dopo oltre un anno, a dimostrazione di un’inerzia istituzionale e di un clima culturale ostile. L’opinione pubblica, che spesso percepisce il carcere come un mondo distante e riguardante solo “chi ha sbagliato”, contribuisce a una riluttanza politica nell’investire in indulti per reati minori, misure alternative, rieducazione, reinserimento, formazione di personale e riqualificazione degli spazi. Investire in queste strutture e programmi è sicuramente impegnativo dal punto di vista economico e manca spesso di consenso popolare; tuttavia, tali investimenti sono cruciali per garantire un sistema penitenziario più equilibrato ed efficace. È importante comprendere che i diritti dei detenuti non devono essere visti come una minaccia ai diritti dei cittadini in libertà; piuttosto, il fallimento nella riabilitazione all’interno degli istituti penali provoca conseguenze deleterie per l’intero tessuto sociale, creando un ciclo di perpetua punizione priva di senso.

Oltre la sedazione: modelli alternativi e una riflessione sul trauma

Nonostante il quadro desolante, esistono modelli alternativi, anche in Italia, che dimostrano come sia possibile una via diversa. Il carcere di Bollate, nel Milanese, si distingue per un impianto partecipativo: i detenuti lavorano, studiano, gestiscono un ristorante aperto al pubblico e collaborano alla redazione di un giornale interno. Questo “carcere aperto” basa la sua filosofia sulla responsabilizzazione e sull’acquisizione di competenze. I risultati sono eloquenti: tassi di recidiva bassissimi, attestati sul 7%, condizioni di vita migliori e tensioni più contenute. Tuttavia, l’estensione di esperienze simili richiede risorse, personale qualificato e una visione politica stabile, ostacoli che rallentano l’adozione di questi modelli virtuosi.

A livello europeo, mentre molti Paesi continuano a costruire carceri sempre più grandi, emergono anche modelli di detenzione su piccola scala che mettono in discussione l’efficacia delle grandi strutture penitenziarie. In Scandinavia, per esempio, le celle assomigliano a stanze universitarie e le relazioni tra detenuti e operatori si basano sulla fiducia, contribuendo a mantenere la recidiva al di sotto del 20% [Studie recenti]. La Norvegia e la Svezia implementano con successo le “open prison”, fondate sul principio della responsabilizzazione. La rete europea Rescaled, che promuove il superamento del modello tradizionale, evidenzia sviluppi significativi anche altrove. In Belgio e Lituania, si stanno diffondendo le “transition house”, strutture aperte a basso livello di sicurezza, pensate per accompagnare i detenuti verso il rilascio, offrendo un’alternativa concreta al modello punitivo che ancora predomina in molti Stati.

Questi modelli innovativi si contrappongono agli archetipi storici come l’Auburn system, nato nello Stato di New York nel XIX secolo, che prevedeva lavoro in silenzio di giorno e isolamento notturno, o il Pennsylvania system dell’Eastern State Penitentiary, basato sull’isolamento totale del detenuto in una cella singola. Già all’epoca, quest’ultimo modello mostrava effetti devastanti sull’equilibrio psichico, generando rabbia e frustrazione, e non favorendo il reinserimento sociale. Oggi, l’Eastern State Penitentiary è un museo, testimonianza dei fallimenti di un approccio esclusivamente punitivo.

La questione della detenzione e della salute mentale ci porta a riflettere su nozioni fondamentali della psicologia. A livello di psicologia cognitiva, l’ambiente carcerario, soprattutto quello caratterizzato da isolamento e deprivazione sensoriale, può innescare profonde distorsioni nella percezione e nell’elaborazione delle informazioni. La perdita del senso del tempo, la riduzione degli stimoli e la mancanza di interazioni sociali significative alterano la capacità di organizzare il pensiero e di mantenere una visione realistica della propria situazione e del futuro. Questo porta a forme di regressione cognitiva, dove le capacità intellettive e decisionali possono deteriorarsi significativamente.

Da un punto di vista della psicologia comportamentale, le condizioni carcerarie estreme creano un terreno fertile per lo sviluppo di comportamenti di coping maladattivo. L’uso diffuso di psicofarmaci, sia prescritti che auto-somministrati in una sorta di “resistenza” passiva, rappresenta un tentativo di gestire il dolore emotivo e lo stress insostenibile. Tuttavia, questi comportamenti, sebbene possano offrire un sollievo temporaneo, impediscono l’elaborazione autentica dei traumi e la costruzione di strategie di adattamento più sane. Si crea un ciclo vizioso in cui la sedazione impedisce al detenuto di affrontare le radici del proprio disagio, perpetuando uno stato di dipendenza e passività piuttosto che promuovere proattività e resilienza.

Il tema dei traumi è centrale. Il carcere non è solo un luogo di detenzione fisica, ma spesso un ambiente che riacutizza traumi preesistenti, soprattutto per individui già fragili, oppure ne genera di nuovi. La salute mentale in tale contesto è costantemente sotto attacco. L’isolamento, in particolare, può essere equiparato a un trauma psicologico che intacca profondamente l’identità e la dignità umana, scatenando ansia, depressione e disturbi post-traumatici. La medicina correlata alla salute mentale, in questi scenari, dovrebbe andare oltre la mera somministrazione di farmaci, che, se non accompagnata da un supporto psicoterapeutico adeguato, rischia di trasformarsi in una “manica stretta”, una soluzione palliativa che non affronta le cause profonde del disagio. L’approccio della psicologia cognitiva avanzata evidenzia quanto sia determinante il modo con cui interpretiamo le nostre esperienze per mantenere un buon equilibrio psichico. Nelle carceri – ambienti segnati dalla scarsità di controllo personale ed intrisi d’incertezza – gli individui incarcerati possono sviluppare schemi cognitivi disfunzionali. Questi schemi conducono a una visione del mondo tinta da pessimismi esagerati circa qualsiasi avvenimento si verifichi intorno a loro; conseguentemente si accentuano stati d’animo legati all’impotenza e alla disperazione. A tutto ciò si aggiunge un deficit quasi totale riguardo stimoli positivi o spazi in cui poter costruire significativi obiettivi esistenziali. Ciò porta a una riflessione profonda: molti istituti penitenziari italiani falliscono miseramente nel compito educativo per cui sono designati; piuttosto diventano luoghi dove i traumi vengono perpetuati invece che curati efficacemente. Per ribaltare questa spirale malsana risulta cruciale intraprendere una vera rivoluzione culturale e politica. Solo riconoscendo la dignità intrinseca dei detenuti ed investendo attivamente nella salvaguardia della loro salute mentale possiamo promuovere modelli improntati sulla riabilitazione efficace, sul coinvolgimento diretto delle persone interessate oltre al recupero del contatto umano essenziale. Solo così potremo passare da una logica punitiva a una veramente riparativa, nell’interesse non solo dei detenuti, ma di tutta la società.

Glossario:
  • REMS: Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture che sostituiscono gli ospedali psichiatrici giudiziari.
  • CPR: Centri di Permanenza per il Rimpatrio, luoghi di detenzione per migranti irregolari.
  • Sovraffollamento: Condizione in cui il numero di detenuti supera la capienza massima delle carceri.
A serene and hopeful depiction of rehabilitation in a prison context, featuring inmates engaged in constructive activities.
Rappresentazione di un ambiente carcerario positivo che promuove la riabilitazione e il reinserimento sociale.

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