Neurodiritti: proteggeranno la tua mente dalle neurotecnologie?

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  • Neuralink ha impiantato il dispositivo "Telepathy N1" in un tetraplegico nel 2024.
  • Il mercato delle neurotecnologie raggiungerà circa 50 miliardi di dollari entro il 2028.
  • In Cina, operai sono stati monitorati con EEG per incrementare la produttività.

Nei primi mesi del 2024, il panorama tecnologico è stato scosso da un annuncio che ha catturato l’attenzione globale: il 29 gennaio, Elon Musk, attraverso un post su X, ha rivelato l’impianto del dispositivo “Telepathy N1” di Neuralink nel cervello di un individuo affetto da tetraplegia. Questa notizia, seppur accolta con entusiasmo per le sue potenziali applicazioni terapeutiche, ha riacceso un dibattito già acceso sulle implicazioni etiche e legali delle neurotecnologie e sulla necessità di una nuova categoria di diritti: i neurodiritti.

Le neurotecnologie, strumenti progettati per interagire direttamente con l’attività cerebrale e del sistema nervoso, stanno rapidamente penetrando la nostra società, promettendo rivoluzioni in medicina, comunicazione e potenziamento cognitivo. La capacità di registrare o alterare l’attività neurale, misurabile con strumenti come l’elettroencefalogramma (EEG) o la risonanza magnetica funzionale (fMRI), apre orizzonti un tempo confinati alla fantascienza. Le applicazioni terapeutiche tradizionali comprendono i ben noti impianti cerebrali per trattare il Parkinson, così come la stimolazione magnetica transcranica (TMS), usata efficacemente contro forme persistenti di depressione. Accanto a queste pratiche consolidate emergono tecnologie innovative quali l’optogenetica, che permette l’uso della luce per modulare le attività neuronali, e la sonogenetica, capace di influenzare i neuroni tramite onde sonore. Attualmente, si stima che il valore del mercato delle neurotecnologie ammonti a circa 33 miliardi di dollari nel 2023; tale cifra potrebbe avvicinarsi ai 50 miliardi entro il 2028. Questa crescita anticipa un’era in cui i limiti fra intervento curativo e potenziamento neurologico tendono ad assottigliarsi.

Ciononostante, all’avanzamento tecnologico si accompagnano nuove sfide etiche. La mente umana, storicamente percepita come inviolabile territorio personale dell’individuo, ora corre seri rischi di essere soggetta a pratiche indiscriminate di manipolazione e sorveglianza. Ciò apre dibattiti cruciali su temi fondamentali quali privacy, autonomia e dignità individuale. In questo contesto delicato emergono i neurodiritti: principi giuridici imprescindibili volti alla protezione della salute mentale; essi includono diritti mai considerati prima dalla legislazione esistente: privacy mentale, libertà cognitiva, controllo dell’identità personale e integrità psicologica. La sfida è duplice: garantire che le innovazioni apportate dalle neurotecnologie non compromettano questi diritti fondamentali e prevenire la creazione di nuove disuguaglianze sociali, dove l’accesso al potenziamento cognitivo divenga un privilegio per pochi. Le istituzioni internazionali, come l’UNESCO e l’Unione Europea, sono già all’opera per definire un quadro normativo che possa guidare un’evoluzione etica e responsabile di queste tecnologie, con paesi come il Cile e la California che hanno già iniziato a incorporare i neurodiritti nelle loro costituzioni o legislazioni.

Neurodiritti e Privacy Neurale
Il Parlamento europeo ha promosso studi sull’impatto delle neurotecnologie sulla privacy mentale e l’integrità degli individui, evidenziando l’importanza di un quadro normativo robusto per la salvaguardia dei diritti umani nell’era digitale. [Bollettino Adapt]

Oltre la clinica: dal controllo emotivo alla fusione uomo-macchina

Il potenziale delle neurotecnologie si estende ben oltre il perimetro clinico, toccando aspetti profondi della vita sociale e lavorativa, non senza suscitare considerevoli preoccupazioni. Un esempio paradigmatico è il “caso Hangzhou”, in Cina, dove operai di fabbrica sono stati monitorati tramite caschi dotati di sensori EEG, capaci di rilevare stati emotivi come ansia, rabbia o depressione. L’obiettivo dichiarato era l’incremento della produttività, ma le implicazioni etiche su privacy mentale e autonomia dei lavoratori sono state immediatamente evidenti, scatenando un allarme sulla potenziale manipolazione emotiva e sulla creazione di ambienti lavorativi distopici. Questo episodio, seppur circoscritto a un contesto specifico, ha agito come un monito sulle derive di una sorveglianza cognitiva indiscriminata e ha posto in luce la fragilità delle attuali normative a fronte di tali ingerenze nella sfera più intima dell’individuo.

Parallela e altrettanto impattante è la parabola di Neuralink, l’azienda di Elon Musk, che con il suo impianto Telepathy N1 promette di facilitare la comunicazione diretta tra cervello e dispositivi elettronici. Se da un lato l’ambizione di Neuralink di restituire autonomia a pazienti con disabilità neurologiche gravi, come la tetraplegia, è lodevole e aprirebbe scenari di vita radicalmente migliorati (come dimostrato dal paziente di 29 anni, Noland Arbaugh, che ha riacquistato la capacità di giocare a scacchi e navigare in internet con il pensiero), dall’altro la visione a lungo termine dell’azienda mira al potenziamento cognitivo di individui sani. Qui si apre un abisso di questioni etiche: dalla sicurezza degli impianti (con possibili malfunzionamenti o la necessità di interventi di rimozione) alla “continuità di assistenza” garantita da aziende private, fino alla possibilità di estrapolare informazioni intime che invadano la privacy mentale degli utenti.

Il dibattito si intensifica osservando il fenomeno del “biohacking”, pratica che mira a modificare la fisiologia umana attraverso scienza e tecnologia. Dalle diete specifiche all’assunzione di nootropi (“smart drugs”) per migliorare le capacità cognitive, fino all’impianto di dispositivi sottocutanei (chip RFID, magneti) che estendono le percezioni umane, il biohacking incarna un’aspirazione transumanista al superamento dei limiti biologici. La nanorobotica, con dispositivi robotici su scala nanometrica, promette diagnosi ultra-precise, riparazione tissutale e persino la creazione di “bio-sensori” interni collegabili a intelligenze artificiali esterne. Questi progressi, pur offrendo prospettive mediche straordinarie (ad esempio, nella cura del cancro), sollevano questioni fondamentali sulla ridefinizione dell’identità umana e sui rischi di una “fusione organica” tra cervello biologico e computazione artificiale, come profetizzato da Ray Kurzweil. La prospettiva di un’umanità “post-umana”, ibrida tra carne e silicio, è ormai alle porte, rendendo la distinzione tra naturale e artificiale un’eco del passato.

Dilemma del superuomo: etica e disuguaglianze nel potenziamento cognitivo

Il concetto di potenziamento cognitivo, pur promettendo orizzonti di sviluppo umano senza precedenti, si scontra con dilemmi etici e sociali di primaria importanza. L’accesso a farmaci (come le “smart drugs” o nootropi) e macchine (interfacce cervello-computer, impianti cerebrali) capaci di migliorare memoria, attenzione e ragionamento, non è solo una prospettiva fantascientifica, ma una realtà in divenire, come attestato dal valore del mercato delle neurotecnologie. Questa corsa al “supercervello” rischia di creare un baratro di disuguaglianze, dove solo chi può permetterselo avrà accesso a un miglioramento delle proprie capacità cognitive, esacerbando le disparità sociali ed economiche già esistenti. L’esclusività di tali tecnologie potrebbe generare una “società a due livelli”, in cui il divario tra potenziati e non potenziati diventerebbe incolmabile, compromettendo i principi di giustizia e non discriminazione.

Parallelamente, la ridefinizione dell’identità personale e della responsabilità morale costituisce una delle sfide filosofiche più ardue. Se un individuo può controllare dispositivi esterni con il pensiero o, tramite nanorobot, ricevere aggiornamenti cognitivi, come si definisce il “sé”? L’ibridazione dell’uomo con la macchina, benché apra la strada a un recupero funzionale per chi è affetto da disabilità, pone la domanda se tale fusione possa compromettere la “natura autenticamente umana” dell’esperienza vitale. La capacità di pensare e agire senza la mediazione fisica, come nel caso di Neuralink, potrebbe alterare il “senso di agency”, ovvero la percezione di essere l’autore delle proprie azioni, intaccando la “body ownership” e il “libero arbitrio”. La possibilità di un “pensiero disincarnato” solleva interrogativi sulla natura della conoscenza e sulla socializzazione, tradizionalmente costruita sull’interazione fisica e sul “mirroring” tra individui.

La responsabilità, sia morale che legale, si fa nebulosa quando le azioni sono mediate da interfacce cervello-computer. Chi è responsabile per un’azione compiuta tramite una BCI: l’individuo, il dispositivo stesso o un eventuale malfunzionamento? E cosa dire delle manipolazioni esterne, come gli attacchi informatici (bio-hacking ostile), che potrebbero alterare i segnali cerebrali? Queste incertezze rendono urgente la definizione di un quadro etico e normativo che possa guidare lo sviluppo e l’applicazione delle neurotecnologie.

In questo contesto, la “gamification”, l’applicazione di elementi ludici a contesti non ludici, emerge come una tecnica di potenziamento cognitivo con potenzialità riabilitative significative. Utilizzata nel trattamento di disturbi neurocognitivi, come il Mild Cognitive Impairment (MCI) e l’esordio di Alzheimer, la gamification stimola memoria, attenzione e funzioni esecutive, offrendo un’alternativa coinvolgente alle riabilitazioni tradizionali. La realtà virtuale (VR), in particolare, promette vantaggi come la stimolazione multimodale e ambienti controllati, permettendo ai pazienti amnestici di imparare a orientarsi in modi impensabili con le terapie convenzionali. Tuttavia, anche qui, la complessità dell’attività videoludica rende difficile misurare l’effetto su una singola funzione cognitiva, e la mancanza di una cura farmacologica per molte di queste patologie rende la ricerca di tecniche riabilitative innovative e comprovate ancora più cruciale.

La via maestra: un nuovo codice etico per l’era neuro-digitale

In un’epoca in cui i confini tra l’umano e il tecnologico si dissolvono, e la mente stessa diventa un nuovo territorio da esplorare e, potenzialmente, da alterare, emerge una necessità pressante: quella di un nuovo codice etico, una “via maestra” per navigare l’era neuro-digitale. Non è solo una questione di regolamentazione, ma di una riflessione profonda che coinvolga filosofi, neuroscienziati, giuristi, politici e cittadini, per forgiare un futuro in cui il progresso sia al servizio della dignità umana.
L’istituzione dei neurodiritti non è un mero atto legislativo, ma una dichiarazione di intenti. Essa rappresenta l’affermazione che la mente, con le sue dinamiche cognitive e coscienziali, è un bene sacro, inviolabile e inalienabile. La privacy mentale, la libertà cognitiva, il controllo sull’identità personale e l’integrità psicologica devono essere i pilastri di questa nuova architettura giuridica. L’UNESCO, con la sua consultazione globale per una Raccomandazione sull’etica delle neurotecnologie, e le iniziative legislative in paesi come il Cile e la California, mostrano che la comunità internazionale è consapevole della posta in gioco. Questa non è una partita da giocare in solitudine, ma un coro a più voci che deve trovare armonia per un futuro condiviso.

Le implicazioni di questo progresso, non solo scientifico ma socio-antropologico, sono profonde. La nozione base di psicologia cognitiva ci insegna che il nostro cervello è un organo di incredibile plasticità, capace di riorganizzarsi e apprendere continuamente. Questa capacità, nota come plasticità neurale, è il fondamento su cui si basano molte delle speranze legate al potenziamento cognitivo. Se si può stimolare questa plasticità attraverso interventi mirati, si aprono prospettive di miglioramento della memoria, dell’attenzione e delle funzioni esecutive, specialmente in contesti di decadimento cognitivo o traumi. Da una prospettiva più avanzata della psicologia comportamentale, l’intera questione impone una riflessione sulla “modulazione del senso di agency”, ovvero la percezione di essere l’autore delle proprie azioni. Le neurotecnologie, eliminando la mediazione fisica tra pensiero e azione, possono alterare questa fondamentale esperienza, portando a interrogativi sulla responsabilità e la libertà individuale.
Il compito che ci attende è immane. Non si tratta solo di arginare i rischi di sorveglianza (come il caso Hangzhou) o di disuguaglianza nell’accesso (come la prospettiva di Neuralink), ma di comprendere e definire cosa significhi “sbloccare il potenziale umano”. Chi decide quale potenziale è desiderabile? E con quali criteri? La paura dell’ignoto non deve frenare il progresso, ma la consapevolezza delle sue implicazioni deve guidare ogni passo. L’innovazione deve essere responsabile e guidata da fini etici, altrimenti rischia di diventare uno strumento di controllo e non di emancipazione. È in questo incessante dialogo tra tecnica e umanità che si forgerà la coscienza collettiva di questo secolo. Non abbiamo un tempo illimitato, ma il presente per decidere. La nostra capacità di plasmare il mondo dipenderà dalla saggezza con cui amministreremo queste risorse, garantendo che il futuro sia al servizio dell’umanità e non un pericolo per la sua dignità.


Glossario:
  • Neurodiritti: Diritti legati alla protezione dell’attività cerebrale e della mente umana dalle ingerenze esterne.
  • Plasticità neurale: Capacità del cervello di adattarsi e modificarsi in risposta all’apprendimento e all’esperienza.
  • Biohacking: Pratica che tenta di migliorare le capacità umane tramite scienza e tecnologia.

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