- La ricerca di Daphna Joel su oltre 5.500 risonanze magnetiche rivela il "cervello mosaico".
- Le donne hanno il 40% di probabilità in più di sviluppare depressione.
- L'AI distingue i cervelli con un'affidabilità del 90% nelle fMRI.
Il superamento del paradigma binario del cervello: un mosaico in continua evoluzione
Le neuroscienze contemporanee stanno rivoluzionando la nostra comprensione del cervello umano, smantellando il decennale paradigma che lo suddivideva rigidamente in categorie “maschili” e “femminili”. Questa visione dicotomica, che ha storicamente alimentato stereotipi sulla base di presunte differenze innate nelle capacità cognitive ed emotive tra uomini e donne, si sta rivelando sempre più semplicistica e anacronistica. Ricerche pionieristiche, come quelle condotte dalla neuroscienziata israeliana Daphna Joel, basate sull’analisi di oltre 5.500 risonanze magnetiche, hanno dimostrato che l’idea di un cervello esclusivamente maschile o femminile è eccezionale. Al contrario, la maggior parte degli individui presenta un “mosaico cerebrale”, ovvero una combinazione unica di tratti che coesistono, alcuni più frequentemente osservabili negli uomini, altri nelle donne, e molti altri ancora condivisi indistintamente. Questa prospettiva è ulteriormente rafforzata dalle affermazioni della neuroscienziata italiana Martina Ardizzi, la quale sottolinea come la distinzione tra un cervello maschile e uno femminile sia più una costruzione culturale che una realtà supportata da solide evidenze scientifiche. L’implicazione di queste scoperte è ben lungi dall’essere puramente accademica; essa investe profondamente l’educazione, la pratica clinica e le narrazioni sociali, spingendoci a ripensare radicalmente l’interpretazione delle differenze di genere e il loro impatto sulla salute e sul comportamento umano.
Per anni, la credenza popolare e parte della comunità scientifica hanno sostenuto che il cervello maschile fosse intrinsecamente predisposto al ragionamento logico-matematico, mentre quello femminile eccellesse nelle abilità comunicative ed empatiche. Queste convinzioni erano spesso corroborate da lievi differenze anatomiche medie, come la dimensione complessiva del cervello, statisticamente più piccola nelle donne. Tuttavia, le neuroscienze attuali hanno inequivocabilmente smontato queste tesi, rivelando che tali discrepanze esistono unicamente come medie statistiche e non come categorie nette e separate. Pertanto, le capacità individuali non possono essere ridotte al sesso biologico, e il concetto stesso di cervello “maschio” o “femmina” emerge più come un costrutto culturale che come un dato scientifico immutabile.
La teoria del “mosaic brain” di Daphna Joel rappresenta un ibrido che descrive le interazioni tra biologia e ambiente. Il cervello, infatti, è un organo plastico, capace di modificarsi e adattarsi in risposta a esperienze e stimoli ambientali. Ardizzi evidenzia come le differenze nelle prestazioni cognitive, ad esempio in matematica, non siano un mero “destino biologico”, ma il risultato di opportunità educative e sociali. Se una bambina viene attivamente incoraggiata a esplorare le discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) o a potenziare il pensiero logico, il suo cervello si adatterà e svilupperà le reti neurali necessarie per tale crescita. Al contrario, percorsi educativi che non prevedono tali stimoli condurranno a configurazioni neurali differenti. Il cervello, quindi, si plasma in un dialogo costante con il contesto sociale, piuttosto che aderire a rigidi schemi sessuali predeterminati. Questo dibattito in evoluzione, animato anche da studi di Lise Eliot che dimostrano come molte differenze si attenuino o scompaiano in analisi più ampie e corrette per età e dimensioni cerebrali, evidenzia la complessità delle variazioni cerebrali, che non possono essere ridotte a binarismi semplicistici. Anche se alcuni studiosi, come Ruben Gur, riconoscono differenze funzionali medie, queste sono più assimilabili a normali variazioni corporee (come altezza o peso) che a distinzioni categoriali. Il consenso scientifico emergente è chiaro: le differenze cerebrali devono essere comprese nella loro piena complessità, superando ogni dualismo.
L’impatto dei pregiudizi di genere sulle diagnosi e i trattamenti in salute mentale
Di notevole rilevanza sono il sesso biologico insieme all’identità di genere nel contesto dello sviluppo cerebrale così come nell’invecchiamento; entrambi i fattori incidono profondamente sull’insorgenza e sulla progressione di una varietà di disturbi neurologici e psichiatrici. La letteratura evidenzia chiaramente che le donne tendono a essere più inclini alla depressione, all’ansia e ai disturbi alimentari. Al contrario, si osserva che certe condizioni come l’autismo o il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD) risultano essere più comuni negli uomini; queste manifestazioni cliniche sono frequentemente associate a sintomi ed esiti sesso-specifici.
Recentemente è emersa una nuova frontiera nella ricerca con l’impiego dell’intelligenza artificiale: modelli innovativi basati su deep learning, capaci di distinguere tra cervelli maschili e femminili tramite analisi approfondite dei dati provenienti dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI). Questi approcci avanzati hanno rivelato un’affidabilità sorprendente oltre il 90%, illuminando differenze sessuali significative e replicabili nell’organizzazione funzionale del cervello stesso. Le zone che hanno mostrato i divari più significativi comprendono la corteccia cingolata posteriore, il precuneo insieme alla corteccia prefrontale ventromediale. Queste strutture si collegano con il sistema della condizione di default (DMN), una complessa rete neurale dedicata all’elaborazione delle informazioni autocentrate e ai processi introspectivi. Contestualmente, si è constatata l’esistenza di variazioni legate al sesso all’interno dello striato e nelle reti limbiche; tali aree rivestono un’importanza cruciale per meccanismi come l’apprendimento associativo e una rinnovata risposta alle ricompense.
Risulta essenziale rimarcare come il DMN assieme allo striato e alla rete limbica siano spesso colpiti da disfunzioni in diverse condizioni psichiatriche nonché nei vari gradi di neurodiversità; tra queste vi sono autismo, depressione cronica, dipendenze varie, schizofrenia, oltre alla malattia di Parkinson. Tali sindromi cliniche mostrano tutti tratti sesso-specifici, suggerendo chiaramente che gli scostamenti rilevati potrebbero offrire spunti rilevanti nella comprensione dei fattori predisponenti a queste affezioni così come nel concepimento di interventi terapeutici più efficaci. Le conclusioni emerse da tali indagini pongono in evidenza l’importanza fondamentale del sesso biologico nella strutturazione del cervello, suggerendo la necessità di sviluppare biomarcatori distintivi correlati al sesso all’interno dei disturbi neurologici e psichiatrici.
È però essenziale differenziare con precisione i fattori legati al sesso biologico rispetto a quelli influenzati dal concetto di genere. L’Istituto della Medicina chiarisce che il termine “sesso” designa una categorizzazione biologica fondata su caratteristiche degli organi riproduttivi; al contrario, il “genere” include aspetti come autorappresentanza e interazioni socialmente costruite attraverso esperienze personali ed elementi contestuali, formando così gli stereotipi. Gli studi svolti sui cervelli adulti devono necessariamente tener conto della dimensione legata al genere poiché questo costituisce un costrutto multidimensionale. La sua natura è influenzata da criteri culturali variabili nel tempo, come pure dalle realtà individualistiche che diversificano notevolmente secondo le popolazioni e i territori. Di conseguenza, risulta vitale adottare una prospettiva intersezionale – comprendente l’intreccio fra settore sociale, contenente gender identity; compatibilità sessuale; etnie varie; condizioni economiche – quando si affrontano tematiche relative alla salute pubblica: ciò si rivela particolarmente rilevante nel campo della salute mentale. Studi futuri dovrebbero esplorare l’accuratezza dei modelli proposti in gruppi demografici diversificati e di varie età, correlando la funzione cerebrale con l’identità di genere, il sesso biologico e i livelli ormonali specifici.
In questo contesto, il mondo della salute mentale affronta ancora delle sfide legate a diagnosi e trattamenti influenzati da pregiudizi e stereotipi. Ad esempio, nel campo delle identità transgender e non conformi, si è superata la concezione del transessualismo come psicopatologia, ma permangono dilemmi nell’inquadramento diagnostico. Il protocollo ONIG del 2009 promuove un’ottica depatologizzante, riconoscendo le identità e le esperienze di vita delle persone transgender e gender nonconforming (TGNC) come valide. Tuttavia, è complesso stabilire criteri di inclusione per i percorsi di transizione. Si valuta la capacità di autodiscernimento e l’individuazione di incongruenza di genere, ma ciò solleva l’ambiguità tra il disagio legato all’identità di genere e altre problematiche identitarie, come la diffusione o l’identità “liquida” che potrebbe prognosticare disturbi depressivi o psicotici.
Un esempio di come gli stereotipi di genere possano influire sulla salute mentale maschile emerge dal mese di Movember, un movimento globale che promuove la salute maschile, in particolare la prevenzione del cancro alla prostata e del cancro ai testicoli, e la consapevolezza sulle questioni di salute mentale negli uomini. La campagna Movember 2024 è specificamente orientata a destrutturare gli stereotipi che rendono la salute mentale un tabù per gli uomini, contribuendo a una sottodiagnosi delle problematiche psicologiche maschili, che spesso culminano in un più alto tasso di suicidi rispetto alle donne. Questa iniziativa si propone con l’obiettivo primario d’incoraggiare il dialogo tra gli uomini riguardo ai loro disturbi relativi alla salute mentale; ciò avviene attraverso un processo volto a dissipare quella vergogna collettivamente percepita così come l’invalidazione legata all’espressione delle emozioni.
D’altro canto, si nota una prevalenza maggiore nei problemi psichici tra le giovani donne della Generazione Z nel periodo successivo alla pandemia da Covid-19. Un sorprendente 40% ha affermato d’essere stata colta da stati depressivi: questo mette in risalto il legame diretto tra isolamento sociale e sentimenti d’abbandono – condizioni ad elevata incidenza sulla depressione nonché sulla mortalità cardiovascolare femminile. Tali statistiche sottolineano quanto sia urgente promuovere efficaci pratiche sanitarie tenendo conto degli approcci basati sul genere, i quali considerino variabili fondamentali quali sintomatologia psicologica specifica ma anche diagnosi approfondite oltre ai trattamenti appropriati. Il concetto stesso della medicina ‘di genere’ cerca quindi una via verso una giustizia terapeutica che assicuri pari opportunità assistenziali integrandole con i differenti profili biologici o identitari degli individui stessi. È proprio in questo contesto che il contributo delle neuroscienze diviene rilevante – a patto però sia esente da bias preconcetti; lavori precedenti sui generi richiederebbero quindi meno fragilità verso stereotipi convenzionali ed opposte semplificazioni categoriali.
Il neurosessismo e la costruzione culturale delle differenze
Il neurosessismo, termine coniato dalla filosofa della scienza Cordelia Fine nel 2008, descrive la tendenza a legittimare idee preconcette sulle differenze tra i sessi attraverso la ricerca neuroscientifica. Senza negare l’esistenza di differenze neurobiologiche, Fine e la neuroscienziata Gina Rippon hanno analizzato criticamente studi sulle differenze cerebrali legate al sesso, evidenziando come gli stereotipi culturali abbiano influenzato la metodologia stessa della ricerca. Un esempio emblematico è una ricerca dell’Università di Yale del 1995, che utilizzava la risonanza magnetica funzionale per misurare le aree cerebrali deputate al linguaggio.
Rispondendo a tali miti scientifici, purtroppo senza fondamento solido, si perpetua una narrazione ingannevole riguardo alle differenze cerebrali tra i sessi; ciò ha portato a errate interpretazioni sul funzionamento psichico umano in contesti sia professionali sia relazionali. Non si può affermare che tali caratteristiche siano esclusivamente maschili; anzi, esse variano considerevolmente da individuo a individuo. Errori metodologici insieme a una generosa sottovalutazione dei campioni sono stati messi in luce da Fine in numerosi studi, mettendo in evidenza il modo in cui frequentemente le conclusioni vengono formulate attraverso l’analisi limitata a un singolo istante della intricata storia cerebrale personale. Questo porta a una visione riduttiva del comportamento umano; lo si percepisce infatti come se fosse predeterminato ed invariabile, separato dal contesto ambientale.
Alla luce delle argomentazioni espresse da Fine e Rippon, risulta evidente che esiste una confusione significativa intorno al concetto di genere. Spesso viene interpretato come qualcosa di intrinsecamente naturale piuttosto che riconosciuto quale costrutto sociale. Tale sovrapposizione errata tra sesso biologico e genere mette ancora più in rilievo l’importanza della preparazione specializzata per chi studia i comportamenti umani. L’ampliamento delle competenze riguardanti gli studi sul genere servirebbe chiaramente ad attenuare l’influenza degli stereotipi ed evitare semplificazioni binarie; offrirebbe così prospettive analitiche più profonde, superando pertanto le visioni essenzialistiche dominanti nel dibattito contemporaneo.
Per la definizione di nuove linee guida, è fondamentale considerare che la configurazione cerebrale non è necessariamente predittiva di un comportamento specifico. La predisposizione biologica influenza il comportamento in modi più complessi e vari. Inoltre, è cruciale abbandonare l’idea di un cervello “maschile” e uno “femminile” distinti: la realtà cerebrale è un mosaico di caratteristiche che variano da individuo a individuo. Il comportamento, infine, deriva da un’interazione altamente complessa tra fattori multilivello (biologici, contestuali, individuali) che si influenzano reciprocamente. La plasticità cerebrale dimostra che le predisposizioni possono essere modificate dall’ambiente. Ad esempio, la maggiore abilità matematica può dipendere dal fatto che un individuo sia socialmente più incoraggiato a studiare la materia, piuttosto che da una mera questione ormonale.
Il neuromito delle differenze nette tra cervello maschile e femminile è ancora profondamente radicato nella società, alimentato da media, libri scientifici datati e intellettuali nostalgici. Questo fenomeno evidenzia la difficoltà ad abbandonare la classificazione del comportamento umano in categorie rigide e ad accettare la complessità di ogni individuo.
In questa linea di pensiero rientrano anche le riflessioni di Lucia Ciccia, epistemologa e femminista, che ripercorre tre secoli di ricerche in cui metodi statistici poco ortodossi, stereotipi sociali e pressioni politiche hanno supportato la giustificazione del binarismo sessuale e del patriarcato. In particolare, Ciccia ha esplorato come le differenze biologiche tra “uomini” e “donne” siano state storicamente costruite per legittimare l’inferiorità femminile. La scienza, nel corso dei secoli, ha sempre cercato di “corroborare” l’incapacità innata della donna, escludendola dalla produzione del sapere scientifico stesso. L’argomentazione si è evoluta dalla frenologia del XVIII secolo, che correlava la forma del cranio alle facoltà mentali, fino alla scoperta dei neuroni e all’attuale neuroscienza, che continua a rappresentare un’autorità scientifica capace di appoggiare la categorizzazione binaria e gerarchizzata dei sessi.
Ciccia critica la ricerca neuroscientifica per il suo bias di utilizzare prevalentemente cavie maschili, per evitare le fluttuazioni ormonali delle femmine, implicando erroneamente che il maschio sia il riferimento “universale”. Questo approccio solleva dubbi sull’applicabilità dei risultati agli umani e sull’attendibilità di studi che affermano differenze come la capacità visuo-spaziale, spesso correlata ai livelli di testosterone, con campioni statistici molto ridotti e risultati contraddittori. Nonostante le raccomandazioni del National Institutes of Health (NIH) degli Stati Uniti dal 2014 di includere il sesso come variabile biologica, persista la tendenza a riprodurre pregiudizi classici sessisti e androcentrici. Il cervello, infatti, si caratterizza per un’alta plasticità che lo rende unico per ogni individuo e incapace di essere categorizzato meramente per sesso. Le differenze più consistenti sono associate ai compiti riproduttivi, ma anch’esse presentano sovrapposizioni e sono influenzate dalla pratica socio-culturale. Pertanto, non è possibile separare l’influsso biologico da quello culturale nel cervello, che è un “mosaico” dove biologia ed esperienza si intrecciano.
Questa dicotomia tra biologia ed esperienza è ciò che permette di chiarire come le capacità cognitive, come la lettura di una mappa o il multitasking, non sono necessariamente un destino biologico. Se le donne sono percepite come più abili nel multitasking, ciò potrebbe derivare dal loro ruolo storico nell’ambito domestico, piuttosto che da una predisposizione cerebrale innata. Analogamente, le differenze di genere possono ripercuotersi nell’architettura cerebrale, diventando “programmazioni culturali” che influenzano le condotte individuali.
La via verso una ricerca neuroscientifica più inclusiva e consapevole
La dinamica intricata esistente tra biologia ed esperienza nella configurazione del cervello umano richiede una valutazione meticolosa delle strategie di indagine neuroscientifica attualmente in uso. Adottare un approccio multidisciplinare, superando le mere opposizioni binarie fra discipline varie come psicologia cognitiva e comportamentale, medicina e sociologia, diviene quindi necessario per trattare questioni vitali riguardanti i traumi subiti dall’individuo, così come quelli associati alla salute mentale.
Nel contesto della psicologia sia cognitiva che comportamentale emerge con chiarezza il fatto che la percezione, lungi dall’essere un atto passivo improntato all’assimilazione puramente degli stimoli esterni, si configura piuttosto quale costruzione attiva. Questa è modulata dalle aspettative personali dell’individuo, assieme a precedenti esperienze vissute e a distorsioni cognitive particolari. Applicando tale paradigma allo studio delle discrepanze cerebrali in relazione al genere, risulta imprescindibile constatare come anche i ricercatori stessi siano suscettibili agli stessi pregiudizi cognitivi comuni a tutti gli individui. La tendenza a cercare conferme alle proprie ipotesi preesistenti (il cosiddetto bias di conferma) può involontariamente orientare la progettazione degli esperimenti e l’interpretazione dei dati, portando a conclusioni che rispecchiano più gli stereotipi sociali che una realtà oggettiva.
In un’ottica più avanzata, la teoria della plasticità cerebrale è fondamentale. Questa non è solo una nozione di base sulla capacità del cervello di modificarsi, ma rappresenta un potente strumento per decostruire gli stereotipi. Se il cervello è costantemente in dialogo con l’ambiente, l’esperienza e la cultura, allora performance cognitive e comportamentali diverse tra i sessi non possono essere attribuite a differenze biologiche immutabili. Al contrario, queste potrebbero essere il riflesso di percorsi di vita, opportunità educative e pressioni sociali divergenti che hanno letteralmente modellato il tessuto neuronale.
Questo ci invita a una riflessione personale profonda: quanto delle nostre “certezze” sulle differenze tra uomini e donne è realmente basato su evidenze inconfutabili e quanto invece è il frutto di un’interiorizzazione inconsapevole di pregiudizi culturali che hanno plasmato non solo la nostra percezione della realtà, ma forse anche, in un certo senso, il nostro stesso cervello? Accettare la complessità del mosaico cerebrale significa aprirsi alla possibilità che ogni individuo sia una combinazione unica di tratti e capacità, e che le etichette binarie siano riduttive e dannose. Solo riconoscendo e affrontando i nostri bias, tanto individuali quanto collettivi, potremo costruire una scienza e una società più giuste, inclusive e capaci di promuovere un benessere mentale autentico per tutti.
- Neurosessismo: Critica all’applicazione fuorviante delle neuroscienze per sostenere idee stereotipate sui generi.
- Plasticità cerebrale: Capacità del cervello di modificarsi in risposta a esperienze e apprendimenti.
- STEM: Acrónimo per Science, Technology, Engineering, Mathematics.
- ADHD: Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività.
- Approfondimento sul concetto di 'Gender Mosaic' elaborato dalla Prof. Daphna Joel.
- Approfondimento con Martina Ardizzi, neuroscienziata, sul tema del cervello e genere.
- Approfondimento sul concetto di 'cervello mosaico' discusso al BrainForum 2016.
- Pagina Wikipedia di Daphna Joel, per approfondire il suo lavoro scientifico.