Bambini palestinesi: come il trauma continuo ne influenza la psiche

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  • Il 40% dei bambini palestinesi mostra sintomi di PTSD.
  • Solo il 15% dei bambini palestinesi riceve supporto psicologico.
  • Il Soleterre Children Center è stato inaugurato a luglio 2025.
  • Il centro offre supporto psicologico e farmaci chemioterapici.
  • Oltre 1.200 colloqui psicologici individuali per 400 bambini.

Il panorama della salute mentale infantile nei territori palestinesi è segnato da un’emergenza silenziosa, ma devastante. In un contesto di conflitto prolungato, i bambini palestinesi sono esposti a un trauma cronico che gli specialisti definiscono “sindrome palestinese” o Continuous Traumatic Stress Disorder (CTSD), una condizione distinta dal più noto Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) per la sua natura persistente e pervasiva. Questa sindrome non è una conseguenza di un singolo evento traumatico, ma piuttosto l’esito di una quotidianità assediata da bombardamenti, incursioni notturne, demolizioni di abitazioni, arresti arbitrari e la costante minaccia di perdere familiari e amici.
Un recente report del Mental Health & Psychosocial Support Network (2025) ha rivelato che quasi un bambino palestinese su due (40%) presenta sintomi riconducibili al PTSD, manifestando difficoltà di concentrazione nel 58% dei casi e isolamento o mutismo selettivo in quasi il 40%. Questi dati sono allarmanti, specialmente se si considera che solo il 15% dei bambini palestinesi riceve un qualche tipo di supporto psicologico, e che l’intera Palestina, con 5,5 milioni di abitanti, conta appena 250 psicologi, ovvero un rapporto di 1 psicologo ogni 22.232 persone.

Statistiche allarmanti:
  • 40% dei bambini palestinesi presenta sintomi riconducibili al PTSD.
  • 58% hanno difficoltà di concentrazione.
  • Solo 15% riceve supporto psicologico.
  • Rapporto psicologi/popolazione: 1 ogni 22.232.

La “normalizzazione della violenza” è uno degli aspetti più insidiosi di questa sindrome. Crescere in un ambiente dove la violenza è una componente strutturale della vita quotidiana porta i bambini a interiorizzare l’idea che la paura e la perdita siano esperienze inevitabili e normali. Questo non è un semplice adattamento, ma una profonda alterazione della percezione della realtà, che mina alla base la costruzione di un sano senso di sicurezza e fiducia nel mondo. I traumi si manifestano attraverso incubi, regressioni improvvise, ansia da separazione, e la perdita della capacità di giocare o di fidarsi. Il danno più profondo risiede nella convinzione che la vita abbia un valore inferiore in certi luoghi, che la violenza sia un destino ineludibile.
Il dottor Leo Venturelli, esperto in psicologia infantile, ha dichiarato:

“In tutti i quadri di guerra, i bambini soffrono come o peggio degli adulti. Il trauma può diventare acuto o cronico.”

Questa condizione è aggravata quando i bambini, già affetti da patologie croniche come il cancro, devono affrontare checkpoint e vessazioni per ricevere le cure, trasformando il percorso terapeutico stesso in un ulteriore fattore traumatico. La violenza si insinua così nel corpo e nella memoria, compromettendo l’idea stessa di futuro.

Strategie di intervento e il ruolo di Soleterre

Di fronte a un quadro così drammatico, emergono modelli di intervento che cercano di affrontare la complessità del trauma infantile in contesti di conflitto. Progetti come il Soleterre Children Center in Cisgiordania rappresentano un approccio strutturale e mirato a fornire supporto psicologico a bambini affetti da traumi complessi e collettivi. Inaugurato pochi mesi fa (Luglio 2025) e situato a breve distanza dall’Ospedale di Beit Jala, il centro offre un presidio stabile, un luogo sicuro per restituire cura, sicurezza e la possibilità di esprimere il dolore.

Informazioni sul Soleterre Children Center:
  • Inaugurato: Luglio 2025
  • Posizione: Vicino all’Ospedale di Beit Jala, unico per le cure oncologiche pediatriche in Cisgiordania.
  • Servizi offerti: Supporto psicologico, approvvigionamento di farmaci chemioterapici. L’importanza della questione è elevata poiché l’Ospedale di Beit Jala rappresenta l’unica struttura rimasta in Cisgiordania dedicata alle cure oncologiche per i più giovani. Soleterre non solo offre il suo supporto attivo all’ospedale, ma assicura anche (fino ad ora) la continuità nel trattamento mediante la fornitura regolare dei farmaci necessari alla chemioterapia.
    I metodi terapeutici adottati puntano alla rielaborazione delle esperienze traumatiche legate alla paura, alla perdita e alla violenza sistematica. In questo contesto, pratiche come la psicoterapia orientata al trauma da una prospettiva psicoanalitica, giochi terapeutici ed espressione artistica hanno una rilevanza centrale. Sottolineando principalmente l’importanza dell’instaurazione di un clima percettibile di fiducia e sicurezza nella vita dei bambini; essenziali affinché possano intraprendere il loro percorso emotivo. L’intero iter richiede pazienza e impegno costante, puntualmente ostacolato dalle atrocità della guerra.
    I risultati ottenuti si evidenziano attraverso piccole conquiste, ma dalla portata significativa: sogni ritrovati da parte dei bambini; una madre capace ora di narrare senza cadere nel pianto. A volte bastano pochi incontri per aprire uno spiraglio, altre volte sono necessari mesi, ma la condizione imprescindibile è la presenza di professionisti stabili, formati e sostenuti nel lungo termine.
    L’intervento psicologico nei contesti di conflitto non si limita al trattamento del PTSD, ma si estende alla gestione di un “trauma cronico” che richiede diagnosi più accurate e trattamenti brevi ed efficaci. Secondo il dottor Venturelli:

    “È fondamentale non solo trattare il trauma, ma anche garantire un accesso continuo e stabile alle cure.”

    L’approccio psicosociale, come quello promosso da Soleterre in collaborazione con VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo) e sostenuto da diverse entità e personalità, include oltre 1.200 colloqui psicologici individuali per 400 bambini affetti da patologie croniche, il supporto ai familiari e al personale ospedaliero, terapie di gruppo, spazi sicuri per attività educative e ludiche, e formazione continua per operatori sanitari e psicosociali. Il consolidamento della rete dedicata alla protezione e alla cura si realizza tramite una serie di incontri istituzionali con i vari stakeholder presenti sul territorio. Tali strategie non hanno come obiettivo l’eliminazione del dolore; piuttosto, aspirano a rendere il dolore stesso oggetto di riflessione e narrazione. Questo processo implica la trasformazione della paura in un linguaggio accessibile, favorendo la riattivazione delle capacità individuali di autoregolarsi e contribuendo così alla ricostruzione della fiducia personale, un rinnovato senso di sicurezza e ai legami affettivi fondamentali che sostengono ogni individuo.

Cosa ne pensi?
  • ❤️ Un articolo toccante che mette in luce una realtà straziante......
  • 😡 È inaccettabile che i bambini debbano subire tutto questo......
  • 🤔 La normalizzazione della violenza: un meccanismo di difesa o...?...

Le sfide e il confronto con altri contesti di conflitto

Affrontare le sfide lavorative nei contesti bellicosi della Cisgiordania implica una serie di difficoltà colossali. La mancanza dei farmaci necessari per le terapie oncologiche, per esempio, può convertire quella che sarebbe una semplice diagnosi trattabile in un destino tragico e fatale; spesso l’accesso alle cure dipende da reti private piuttosto complesse. Le problematiche relative ai passaggi controllati dai militari rendono già critica l’accessibilità alle risorse sanitarie stesse; aggiunte all’assenza cronica dei mezzi materiali fondamentali, unitamente all’instabilità endemica della scena politica locale, trasformano ogni istante operativo nella vita dei professionisti sanitari in una vera gara contro il tempo.
Questi operatori del settore sanitario esprimono una dedizione impressionante nelle loro mansioni quotidiane; tuttavia non possono evitare gli oneri psicologici considerevoli derivanti da tali circostanze avverse. Riuscire a mantenere una fornitura continuativa delle terapie necessarie diviene dunque essenziale per permettere ai piccoli pazienti di ricevere tempestivamente le sostanze mediche vitali: ciò malgrado un apparato sanitario pubblico configurato quasi come se fosse contrario al principio fondamentale della salute universale.
In riferimento al confronto tra la questione palestinese e altri scenari conflittuali – come quello ucraino o diversi ambiti geografici dell’Africa –, è evidente l’emergere sia delle analogie sia delle divergenze riguardo alla modalità con cui i minori affrontano ed elaborano le esperienze traumatiche vissute. Uno studio realizzato tra minorenni rifugiati sul suolo britannico ha rivelato infatti come oltre il 25% degli stessi presentasse forme cliniche pertanto riconducibili ad alcune patologie psichiatriche più diffuse rispetto ad analoghi dati registrati nella popolazione infantile locale inglese. Questo evidenzia come le esperienze traumatiche influenzino il benessere psicologico nell’infanzia, sia nei contesti di conflitto diretto che in quelli di migrazione forzata.
I traumi si manifestano in modi distintivi: in Ucraina, i bambini affrontano la perdita di un passato stabile e l’impatto immediato del conflitto; in Cisgiordania, la cronicità dell’occupazione e le minacce costanti definiscono il trauma.
In provincia di Gaza, i bambini vivono un dramma simile. Dalla guerra in corso, i bambini non solo hanno subito gravi traumi psicologici ma anche danni fisici e necessità mediche non soddisfatte. L’UNICEF ha riportato un aumento notevole nel numero di bambini che necessitano di supporto psicologico, con oltre 460 milioni di bambini in zone di conflitto nel mondo.
La cura psicologica in questi contesti non è un lusso, ma una priorità assoluta. Senza di essa, le altre forme di aiuto si riducono a mera sopravvivenza. È come “rattoppare” un corpo lasciando che l’anima vada in pezzi. La possibilità di accedere a cure adeguate per i traumi non deve mai risultare una concessione elitaria; questo assunto diventa ancora più imperativo in situazioni estreme in cui tali risorse sono frequentemente negate o impedite.
Un fanciullo segnato da esperienze traumatiche privo dell’assistenza necessaria avrà una percezione distorta del mondo circostante come qualcosa di minaccioso e può cadere nell’errore di ripetere atti violenti inflittigli. Di contro, ricevere supporto psicologico rappresenta uno spazio cruciale per l’elaborazione delle proprie emozioni: consente opportunità ricostruttive e pianta i semi di prospettive future favorevoli. Questo processo è tanto politico quanto clinico; si tratta di riaffermare la valenza e la dignità intrinseca a ciascun fanciullo nel momento in cui le loro voci possono facilmente restare silenziate dal resto della società.

Normalizzazione del Trauma: una prospettiva psicologica

La “normalizzazione della violenza” tra i bambini palestinesi si configura quale fenomeno emblematico del modo in cui l’intelletto umano – specialmente quello ancora in fase evolutiva – possa adattarsi a situazioni estreme, subendo però conseguenze devastanti sulla propria struttura psichica. Dalla prospettiva della psicologia cognitiva emerge chiaramente come continui traumi quali bombardamenti o lutti influiscano su una trasformazione radicale dei modelli mentali.
Per cercare un equilibrio e stabilità all’interno di un panorama caotico, il cervello tende progressivamente ad assimilare tali atti brutali non più come eccezioni sporadiche ma piuttosto come aspetti normativi e previsti del quotidiano. Tale dinamica porta al manifestarsi dell’assuefazione, associata al fatalismo, producendo effetti tangibili nella forma delle risposte emozionali; queste tendono infatti alla desensibilizzazione, comportando una caduta nelle reazioni emotive verso fatti atroci che normalmente susciterebbero intenso dolore.
Pertanto il giovane individuo impara sempre più rapidamente ad accettare la paura quale compagna costante del vivere quotidiano ed è indotto nell’erronea convinzione che la violenza costituisca una condizione invariabile; lo spingerebbe infine verso l’idea errata secondo cui vi siano luoghi dove persino il valore della vita è compromesso. Dalla prospettiva della psicologia comportamentale emerge che la normalizzazione della violenza si concretizza in una varietà di interventi disadattivi. Il mutismo selettivo, così come l’isolamento sociale e fenomeni regressivi, rappresentano forme specifiche di coping messe in atto dai bambini per far fronte a contesti percepiti come continuamente minacciosi. Tali reazioni possono rivelarsi temporaneamente difensive, ma portano alla compromissione dello sviluppo delle essenziali competenze sociali ed emotive, ostacolando quindi le loro abilità relazionali e l’espressione delle emozioni necessarie per formare legami sani.
Il perpetuo stato d’animo definito da un’esperienza ricorrente dell’“impotenza appresa”, dove qualsiasi tentativo d’influenza sull’ambiente appare inefficace, tende a indurre un’apatia generalizzata e un forte calo motivazionale che è deleterio per il benessere psichico dell’individuo.
Riguardo agli aspetti connessi alla salute mentale e alle scienze mediche correlate, si fa riferimento al concetto di Continuous Traumatic Stress Disorder (CTSD), identificato anche come “sindrome palestinese”, il quale fornisce uno strumento analitico utile per decifrare le peculiarità insite in tali esperienze traumatiche. A differenza del PTSD, che si sviluppa a seguito di un evento traumatico ben definito, il CTSD deriva da un’esposizione prolungata e ininterrotta a stressori cronici e cumulativi. Questo non è un “post-trauma”, ma un trauma radicato nel presente continuo. Ciò significa che le terapie devono andare oltre la semplice elaborazione di un ricordo traumatico specifico; esse devono mirare a ripristinare un senso di sicurezza di base, una fiducia nel mondo che è mai stata pienamente sviluppata o che è stata sistematicamente erosa.
L’intervento non è solo clinico, ma anche profondamente psicosociale, volto a ricostruire non solo l’individuo, ma l’intero tessuto relazionale e comunitario. Un letto caldo, un pasto, la presenza stabile di un adulto, la continuità delle cure mediche (come nel caso dei farmaci chemioterapici) diventano elementi terapeutici fondamentali, perché per un bambino che non ha mai conosciuto la normalità, anche la più piccola azione di cura e stabilità può rappresentare un primo passo verso la riappropriazione di un’infanzia negata.

Riflessioni psicologiche:
  • Sindrome Palestinese: CTSD è diverso dal PTSD; un trauma continuo.
  • Impatto della guerra: I bambini si sentono impotenziati e privi di controllo.
  • Interventi necessari: Approccio psicosociale è fondamentale per la cura.

La riflessione che emerge è profonda: cosa significa normalità e come la definiamo quando la quotidianità è permeata dalla violenza? Siamo davvero in grado di comprendere la portata del danno psicologico che la normalizzazione dell’ingiustizia infligge alle giovani menti, non solo nel contesto palestinese, ma in ogni angolo del mondo dove il conflitto diventa la norma? L’importanza del supporto psicologico, anche in contesti di privazione estrema, risiede proprio nel suo essere un atto di resistenza umana, un’affermazione del valore intrinseco della vita e della dignità della persona, capace di seminare la speranza in terreni apparentemente sterili.

Glossario

Glossario:
  • PTSD: Disturbo da Stress Post-Traumatico, condizione mentale che può svilupparsi in seguito all’esperienza di eventi traumatici.
  • CTSD: Continuous Traumatic Stress Disorder, sindrome caratterizzata da esposizione prolungata a esperienze traumatiche.
  • Gioco-terapia: Utilizzo del gioco come strumento terapeutico nei bambini per esplorare ed esprimere emozioni.
  • Arte-terapia: Uso dell’arte per il trattamento terapeutico e la crescita personale attraverso l’espressione creativa.

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