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Alpinismo e trauma: come la memoria emotiva influenza la sicurezza in montagna

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  • Il 20% dei pazienti ricoverati per incidenti montani manifesta sintomi da Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSTPT).
  • Oltre il 30% degli intervistati ha mostrato segni di patologie mentali post-stress da incidenti.
  • Il metodo EMDR facilita la riabilitazione emotiva tramite movimenti oculari distintivi.

Il complesso legame tra trauma e memoria: una lente sugli incidenti in montagna

Il recente aumento delle operazioni da parte del Soccorso Alpino ha rinnovato l’attenzione sulla safety nelle montagne; tuttavia vi è un elemento fondamentale che spesso viene trascurato: l’importanza della memoria emotiva insieme ai modelli di paura già presenti quando ci si trova ad affrontare situazioni estremamente pericolose. In questo contesto si sviluppa una riflessione profonda sulla psicologia umana, mettendo in luce come le esperienze traumatiche precedenti—anche se estranee al mondo dell’alpinismo—possano avere ripercussioni notevoli sulla nostra abilità nel fronteggiare il panico, nonché sul processo decisionale durante incidenti o circostanze critiche tra le vette.

Le memorie associate ai traumi hanno caratteristiche distintive rispetto a quelle normali: manifestano un’invasività netta e una durabilità invariata nel tempo. Contrariamente ai ricordi comuni che tendono a sbiadire con l’andare del tempo, gli episodi traumatici rimangono saldamente impressi nell’intelletto, dando vita ad esperienze sensorialmente vivaci, accompagnate da flashback allarmanti o sogni perturbanti che riaffiorano ciclicamente.

Uno studio realizzato dalla Università Medica di Innsbruck ha evidenziato che approssimativamente il 20% dei pazienti che vengono ricoverati in ospedale per incidenti avvenuti in montagna presenta manifestazioni legate al Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSTPT), con una particolare incidenza a distanza di sei mesi dall’accaduto. [Eurac Research]. Questo fenomeno è dovuto a una serie complessa di meccanismi neurobiologici e psicologici che “fissano” l’esperienza traumatica, rendendola drammaticamente reale e presente ogni volta che viene riattivata.

Immaginiamo, ad esempio, la scena di un escursionista che, affrontando un passaggio esposto in quota, viene assalito da un’ondata di panico irrazionale, apparentemente sproporzionata rispetto alla situazione oggettiva. È plausibile che tale reazione sia una manifestazione di una memoria traumatica riattivata, magari legata a un evento passato che ha generato in lui un senso di impotenza o di estrema vulnerabilità, anche se non direttamente collegato all’ambiente montano. La psicologia ha da tempo riconosciuto che il trauma non si limita a un ricordo cosciente dell’evento. Esistono infatti forme di “non conoscenza”, in cui l’esperienza traumatica è disconnessa dalla consapevolezza, ma continua a permeare le strategie di difesa e adattamento dell’individuo. Si parla di dissociazione, dove il soggetto non “ricorda” ma “rivive” il trauma, o di frammenti di ricordi decontestualizzati e apparentemente privi di senso, che possono manifestarsi attraverso comportamenti ripetitivi o schemi relazionali disfunzionali. Queste manifestazioni non consapevoli del trauma sono particolarmente pericolose in contesti ad alto rischio come l’alpinismo, dove una frazione di secondo può fare la differenza tra la vita e la morte. Le amnesie traumatiche, che comportano l’assenza totale o parziale del ricordo di un evento traumatico, sono state osservate in seguito a incidenti gravi, disastri naturali, traumi di guerra o abusi. Questo suggerisce che, in alcune circostanze, l’oblio stesso è un meccanismo difensivo che la psiche attiva per proteggersi da una sofferenza insopportabile. Tuttavia, come ben evidenziato dalla comunità scientifica, la sofferenza “rimossa” non è mai veramente dimenticata; rimane latente nell’inconscio, pronta a riemergere sotto forma di manifestazioni somatiche o risposte emotive esagerate.

L’impatto degli schemi di paura sul cervello e sul comportamento

La relazione tra memoria, trauma ed emozioni è intrinsecamente legata alla formazione degli “schemi di paura”. Questi schemi, come evidenziato dalla ricerca nel campo della psicotraumatologia, sono risposte automatiche e predefinite che il cervello sviluppa in seguito a esperienze significative. Bruce Perry ha efficacemente descritto lo sviluppo del cervello come “uso dipendente” (use-dependent development), un concetto che si allinea con l’idea di neuroplasticità: i neuroni che si attivano insieme, si collegano insieme. Questo significa che, se un circuito neurale viene ripetutamente attivato in risposta a determinate situazioni, esso può diventare uno schema predefinito, una risposta quasi automatica.

La fondamentale differenza nell’evoluzione di questi schemi risiede nell’ambiente primario in cui un individuo cresce e si sviluppa. Se una persona si sente sicura, amata e supportata, il suo cervello si specializza in funzioni come l’esplorazione, il gioco, la cooperazione e l’apprendimento sociale. Le sinapsi che governano queste attività si rafforzano, creando percorsi neurali che favoriscono la resilienza, la curiosità e la capacità di affrontare le sfide con un senso di fiducia. Al contrario, se un individuo vive in un ambiente caratterizzato da paura, abbandono o insicurezza, il suo cervello diventa “esperto” nella gestione di questi sentimenti negativi. I circuiti neurologici associati all’ansia, alla reattività al pericolo e alla difesa si rafforzano, preparando l’organismo a reagire con strategie di sopravvivenza (lotta, fuga, congelamento) che, sebbene utili in un contesto di pericolo reale, possono diventare disfunzionali e limitanti nella vita quotidiana o in situazioni che richiedono lucidità e calma.

Questa plasticità cerebrale, se da un lato permette l’adattamento e l’apprendimento, dall’altro può cronicizzare risposte emotive disfunzionali come la paura e l’ansia. In contesti estremi come l’alpinismo, dove la percezione del pericolo è intrinseca e spesso oggettiva, uno schema di paura preesistente può essere facilmente innescato. Un rumore improvviso, un cambiamento climatico repentino, un piccolo scivolone o anche solo la vista di un vuoto possono fungere da stimoli (trigger) che riattivano intere sequenze di reazioni corporee ed emotive associate a un trauma pregresso. Ad esempio, la “paura dell’abbandono” può tradursi in una dipendenza affettiva eccessiva nei confronti del compagno di cordata, o in una incapacità di prendere decisioni autonome quando la situazione lo richiede. Similmente, uno schema di “sottomissione” può portare a cedere alle decisioni altrui anche quando il proprio istinto suggerisce prudenza, per paura del giudizio o del conflitto.

La comprensione di questi schemi è fondamentale non solo per la psicopatologia ma anche per l’ottimizzazione delle performance umane in ambienti ad alto stress. Il passaggio da situazioni di sicurezza e amore all’esperienza di paura e abbandono modella profondamente l’architettura neurale, influenzando la percezione del mondo, le interazioni sociali e la capacità di regolare le proprie emozioni.

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  • Non sono d'accordo! 😠 Ridurre la sicurezza in montagna a......
  • Punto di vista interessante 🤔, ma trascura l'importanza della......

La psicotraumatologia nell’alpinismo: un bisogno crescente

La crescente consapevolezza dell’impatto psicologico degli incidenti e delle esperienze estreme ha portato a una maggiore richiesta di supporto specialistico nel campo della psicotraumatologia, anche in ambiti specifici come l’alpinismo. Sebbene non esista ancora un registro consolidato di “psicoterapeuti specializzati in traumi e alpinismo” in Italia, la ricerca di professionisti qualificati in trauma psicologico e disturbo post-traumatico da stress (DPTS) è in aumento. Piattaforme che aggregano specialisti in neuropsicologia e psicologia clinica offrono accesso a un’ampia rete di psicologi e psicoterapeuti con expertise nel trattamento dei traumi.

Molti di questi professionisti utilizzano approcci terapeutici all’avanguardia come la Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC), l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e la DBR (Deep Brain Reorienting), che si sono dimostrate efficaci nel rielaborare le memorie traumatiche e nel ridurre l’intensità delle risposte emotive disfunzionali. Il metodo EMDR, noto per la sua straordinaria capacità di facilitare la riabilitazione emotiva, impiega tecniche mirate tramite movimenti oculari distintivi che appaiono favorire una sinergia tra le varie dimensioni dell’esperienza traumatica—le emozioni, i pensieri e le percezioni fisiche.

Risulta sempre più essenziale l’intervento congiunto degli psicologi e dei professionisti della salute mentale nei gruppi operativi dei soccorsi alpini e negli ambienti dedicati al recupero post-traumatico. La finalità principale consiste nell’assistere il paziente nella riscoperta della propria narrazione personale, bruscamente interrotta a causa dell’evento traumatico; tale processo non si limita alla mera eliminazione dei sintomi acuti bensì punta a una radicale ricostruzione identitaria, mirando a inglobare l’esperienza traumatica all’interno della vita individuale con intenti costruttivi.

Un’indagine recente sull’adattamento psichico dopo eventi critici

Indagini recenti hanno dimostrato come oltre il 30% degli intervistati abbia manifestato segni clinici corrispondenti a patologie mentali indotte dallo stress conseguente agli incidenti in montagna; tuttavia sorge l’aspetto sorprendente: anche oltre il 30% delle persone ha riferito un incremento della propria forza interiore grazie all’accaduto.[Loscarpone]. Questo tema introduce l’esplorazione dell’importanza cruciale nell’identificazione tempestiva dei sintomi da PTSD e nell’implementazione di forme specifiche di sostegno. A tal proposito, Hermann Brugger sottolinea con enfasi come sia essenziale agire rapidamente per impedire che brutti ricordi possano radicarsi profondamente; ciò può essere fatto facendo leva sulle esperienze precedenti insieme alla resilienza degli individui coinvolti nelle attività sportive alpine.

La Federazione Italiana Psicologi dello Sport (FIPsiS) comprende nel proprio elenco professionisti qualificati che non solo hanno competenze nella psicologia sportiva, ma presentano anche una conoscenza tangibile o un interesse approfondito riguardo alle sfide psicologiche connesse con l’esercizio fisico ad alta intensità nei contesti estremi come la montagna. Tali esperti sono capaci di fornire assistenza significativa non soltanto durante il processo di recupero dopo eventi traumatici, ma anche nella sfera della prevenzione; infatti, il loro intervento si rivela utile nel guidare gli alpinisti verso una migliore comprensione e gestione delle proprie paure, mentre si promuove uno sviluppo accentuato della consapevolezza circa le proprie risposte emotive durante circostanze rischiose. In questo ambito in continua trasformazione, l’unione di forze tra professionisti della psicologia, operatori nel campo dei soccorsi e appassionati della montagna potrebbe generare approcci innovativi, mirati alla salvaguardia e al miglioramento del welfare di coloro che affrontano l’elemento montano.

Superare le impronte del passato: percorsi di resilienza

Gli incidenti in montagna, con la loro intrinseca dramaticità e le estenuanti operazioni di soccorso, ci ricordano quanto sia fragile l’equilibrio umano di fronte alla potenza della natura. Ma al di là dell’immediatezza dell’evento, si cela un mondo interiore complesso, dove le paure del passato possono proiettarsi sul presente, amplificando il rischio e rendendo più arduo il recupero. Comprendere la memoria emotiva e gli schemi di paura non è solo un esercizio accademico, ma una necessità pratica per chi opera in contesti ad alto rischio e per chiunque si trovi ad affrontare situazioni emotivamente intense. A livello di psicologia cognitiva, è fondamentale comprendere che la memoria non è una semplice registrazione di fatti, ma un processo dinamico e ricreativo, influenzato profondamente dalle nostre emozioni. Un trauma blocca questo processo di integrazione, fissando il ricordo in uno stato frammentato e isolato, che riemerge intrusivamente. A un livello più avanzato, la Schema Therapy ci insegna che molti dei nostri comportamenti disfunzionali, inclusi quelli manifestati sotto stress estremo, affondano le radici in “schemi maladattivi precoci”, convinzioni profonde e spesso inconsapevoli formatesi nell’infanzia a causa di bisogni emotivi insoddisfatti. Questi schemi possono includere la paura dell’abbandono, la sottomissione o l’incapacità di esprimere i propri bisogni, e possono determinare responsi disregolate e irrazionali in contesti di pericolo, anche se l’evento scatenante non è direttamente collegato al trauma originale.

La consapevolezza di questi schemi è il primo passo verso la loro trasformazione. Richiede coraggio guardarsi dentro, riconoscere le proprie vulnerabilità e chiedere aiuto quando le orme del passato sembrano intrappolarci. La montagna, con la sua maestosa indifferenza, può essere una maestra crudele, ma anche una fonte inesauribile di apprendimento e di crescita. Riconoscere l’influenza della nostra storia emotiva sulla nostra capacità di affrontare le sfide non è un segno di debolezza, ma di profonda resilienza e saggezza. Solo comprendendo come il nostro passato modella il nostro presente, possiamo davvero scegliere il nostro futuro, anche di fronte all’ignoto delle vette.

Glossario:

  • Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS): condizione psicologica che può seguire eventi traumatici, caratterizzata da flashback, evitamento e alterazioni dell’umore.
  • Neuroplasticità: indica l’sorprendente capacità del cervello di riorganizzarsi, generando nuove connessioni neuronali come risposta a diverse esperienze e stimoli esterni.
  • Schema Therapy: un metodo terapeutico incentrato su come i modelli disfunzionali di pensiero e comportamento, nati nell’infanzia, influenzino la vita dell’individuo.
  • EMDR: questa è una strategia clinica che utilizza movimenti oculari per diminuire l’intensità emozionale associata ai traumi passati.

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