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Psicofarmaci e capitalismo: come sopravvivere alla pressione sociale?

- 264 milioni di persone soffrono di disturbi d'ansia, aumento del 15% dal 2005.
- Uso di antidepressivi aumentato del 65% negli USA.
- 80% degli attori sperimenta ansia da prestazione.
L’aumento esponenziale dell’ansia e della depressione nelle società moderne, accanto all’intensificarsi dell’impiego di psicofarmaci, pone interrogativi fondamentali riguardo al nesso fra
salute mentale e condizione socioeconomica. Un’indagine esaustiva implica che l’attuale configurazione del sistema capitalistico possa agire come un catalizzatore per numerosi tipi di sofferenza psichica. La concezione secondo cui la salute mentale si configuri esclusivamente come una problematica personale
relativa ad alterazioni chimiche nel cervello è contestata da vari punti di vista; questi ultimi mettono in luce l’importanza cruciale delle circostanze sociali e professionali.
Il discorso prevalente tende a medicalizzare le esperienze disagiate introducendo soluzioni farmaceutiche come rimedi immediati e individualizzati. Tale visione — spesso incentivata dall’industria farmaceutica
— distoglie l’attenzione dalle radici sistematiche verso quelle intrinseche all’individuo stesso. Di conseguenza, la responsabilità della sofferenza viene attribuita al singolo individuo anziché ai fattori esterni derivanti da un contesto economico dominato dalla competizione sfrenata; ciò genera
individualismo, intensificando ulteriormente gli imperativi culturali riguardanti il lavoro sempre più pressante. Il concetto di “realismo capitalista”, coniato da Mark Fisher, descrive proprio questa sensazione diffusa di impossibilità nel concepire alternative al sistema attuale, una sorta di barriera invisibile
che limita il pensiero e l’azione, contribuendo a un senso di rassegnazione e impotenza.
Secondo la World Health Organization, circa 264 milioni di persone nel mondo soffrono di disturbi d’ansia, con un aumento del 15% dal 2005. Negli Stati Uniti, l’uso di antidepressivi è aumentato del 65% negli ultimi anni e dal 2017 al 2018 il 19% degli adulti ha sperimentato un disturbo mentale, un incremento significativo rispetto all’anno precedente.
La sconfitta delle opposizioni al capitalismo, come lo sciopero dei minatori del 1984 nel Regno Unito, ha rafforzato la percezione che “non ci sia alternativa”, uno slogan che si trasformato in una “profezia che si autoavvera”. Nel contesto attuale emerge una narrazione pervasiva che esalta la
benestanza materiale, percepita erroneamente come fulcro della felicità personale nonché del trionfo sociale. Questa visione induce uno stato cronico d’sconforto esistenziale, assieme a una spinta competitiva fortemente individualista. Laddove il cosiddetto “successo” rimane irraggiungibile
per molti, vi è una tendenza ad attribuire esclusivamente al soggetto le cause dei propri insuccessi: ne deriva così un ciclo debilitante fatto di difficoltà psichiche acute quali frustrazione o depressione.
In concomitanza con ciò si manifesta anche una progressiva burocratizzazione sia nel campo professionale sia in quello educativo: questa trasformazione accresce l’alienazione percepita dagli individui. La costante domanda di valutazioni autoimposte insieme alla sorveglianza esasperata sui risultati produce tensioni incessanti e avvilimento psicologico; questo clima crea
preoccupazioni relative alle performance stesse. Il predominio accordato alla logica del profitto rispetto al welfare umano appesantisce ulteriormente tale situazione fino all’esaurimento delle capacità innovative personali, costringendo quindi i lavoratori a orientarsi solo verso il soddisfacimento delle necessità materiali quotidiane. Figure ammirate per la loro capacità di “fare soldi” vengono spesso elevate a modelli di successo, rinforzando l’idea che il valore di un individuo risieda nella sua capacità di accumulare ricchezza, contribuendo a creare una “realtà depressa” imposta artificialmente.
L’impatto della cultura del lavoro tossica
La cultura del lavoro ha subito profonde trasformazioni sotto l’influenza del capitalismo neoliberista. Concetti come “flessibilità” sono diventati spesso sinonimo di precarietà e sfruttamento, con orari di lavoro indefiniti e una costante pressione a essere “sempre connessi” e produttivi.
Questa “cultura tossica” incide direttamente sulla salute mentale dei lavoratori, generando alti livelli di stress cronico, ansia e burnout. La mancanza di riconoscimento, i comportamenti abusivi, la scarsa comunicazione e la sfiducia reciproca all’interno degli ambienti lavorativi possono minare la motivazione e il benessere del personale, portando a un aumento
dell’assenteismo e a una diminuzione della produttività a lungo termine.
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Segnali di burnout e prestazione
I segnali di burnout includono l’inefficienza crescente, l’affaticamento emozionale, e la distanza cinica dai colleghi, i quali possono intensificare le sensazioni di inutilità e impotenza negli ambienti di lavoro. È fondamentale riconoscere l’aumento delle malattie mentali nel contesto di un’economia neoliberista che impone severe condizioni di lavoro.
L’esposizione prolungata a un ambiente lavorativo negativo può avere ripercussioni severe sulla salute fisica e mentale. I sentimenti di inutilità, incapacità e sopraffazione sono comuni in coloro che vivono in una condizione di costante pressione e negatività. Il fenomeno del burnout, riconosciuto dall’OMS, è diventato una vera e propria “patologia della contemporaneità”, che colpisce fasce sempre più ampie della popolazione, inclusi i giovani lavoratori (“Gen Z”). L’aumento dell’uso di psicofarmaci in questi contesti di alta pressione evidenzia una risposta sistemica a un problema che è sociale anziché individuale.
Le problematiche di salute mentale si intrecciano con quelle economiche e le politiche neoliberiste. Queste ideologie spesso medicalizzano la sofferenza umana, ignorando il contesto sociale e le vere cause della crisi economica e della salute mentale.
L’ansia da prestazione e la pressione sociale
L’ansia da prestazione è un fenomeno diffuso che colpisce persone di ogni età ed è strettamente legata alla pressione sociale e alle aspettative elevate, sia autoimposte che provenienti dall’esterno. In un sistema che valorizza la performance, il successo individuale e la costante competizione, l’ansia di “non essere all’altezza” o di “fallire” diventa un sentimento pervasivo. Questa pressione può derivare da esperienze passate di fallimenti o giudizi negativi, ma è amplificata in contesti sociali e lavorativi che richiedono una costante dimostrazione di valore.
Le statistiche sull’ansia da prestazione
Secondo uno studio del 2012 condotto da Gordan Goodman, circa l’80% degli attori ha sperimentato ansia da prestazione almeno una volta nel corso della propria carriera, con audizioni che spesso generano un’ansia maggiore rispetto alle performance stesse.
I giovani adulti sembrano essere particolarmente afflitti dall’ansia da prestazione. Cresciuti in una società iperconnessa e focalizzata sull’apparenza e sul successo immediato, si trovano ad affrontare una pressione sociale senza precedenti. L’elevata pressione esercitata dai genitori, dagli insegnanti e dalla società in generale, accostata a una profonda
preoccupazione per il fallimento, si traduce nella creazione di un contesto altamente favorevole allo sviluppo dell’ansia da prestazione.
Tattiche per gestire l’ansia performativa
Fortunatamente, esistono approcci efficaci atti a gestire questa forma di ansia. I giovani possono giovarsi notevolmente dal miglioramento delle loro abilità attraverso una meticolosa preparazione abbinata all’accettazione del sé, rimarcando come la sconfitta faccia parte integrante della creatività. Risulta essenziale promuovere
spazi supportivi in cui discutere liberamente riguardo alle proprie ansie e inquietudini diventa consuetudine. Le famiglie, insieme ai mentori, rivestono un’importanza cruciale nell’accompagnare i ragazzi mentre navigano queste sfide emotive.
Ripensare la salute mentale e l’azione collettiva
Affrontare le problematiche legate alla salute mentale in un’ottica critica richiede di andare oltre la mera medicalizzazione e di considerare le cause sistemiche alla radice del disagio. Non si tratta di negare l’esistenza di fattori biologici o di sminuire l’importanza del supporto medico e farmacologico quando necessario, ma di riconoscere che il contesto socioeconomico gioca un ruolo cruciale nel determinare la prevalenza e la manifestazione dei disturbi mentali.
Riconoscere il parallelismo tra l’incremento dei disturbi mentali e i nuovi modelli di valutazione delle prestazioni
lavorative è il primo passo per “ripoliticizzare” la malattia mentale. Il malessere individuale non è solo un problema personale, ma un sintomo di un sistema che genera stress, ansia e insicurezza. Invece di indirizzare il disagio verso l’autocolpevolizzazione, è necessario direzionarlo verso la vera causa: il Capitale.
La richiesta di una massiccia riduzione della burocrazia, delle autovalutazioni e dei meccanismi di controllo sul lavoro rappresenta una possibile via per alleviare la pressione sui lavoratori e contrastare l’alienazione. L’idea di un’austerità che non implichi sacrifici per i più deboli, ma una redistribuzione controllata dei beni e delle risorse, contraddice l’imperativo capitalista alla crescita continua e suggerisce la possibilità di un sistema economico più equo e sostenibile.
Interventi efficaci
Tra le idee per la riforma si sottolineano anche le politiche di salute mentale che affrontano le disuguaglianze sociali e le barriere all’assistenza sanitaria, in particolare in contesti di povertà. L’incoraggiamento della comunità e il rafforzamento dei legami sociali possono contribuire a creare un ambiente più collaborativo e accogliente.
La “rivoluzione umana” di un singolo individuo, come suggerito dal filosofo buddista Daisaku Ikeda, può contribuire a un cambiamento nel destino di una nazione e dell’umanità intera. Per attuare questa rivoluzione, però, è necessario affrontare con coraggio la realtà individuale e sociale, combattendo la tendenza a rinchiudersi nel “piccolo io” e promuovendo l’azione collettiva. La creazione di una nuova entità politica si rivela essenziale per affrontare le sfide attuali, poiché rappresenta la chiave per concepire e plasmare un avvenire alternativo.
Oltre la diagnosi: la riflessione sul benessere
Nel variegato ed intricato ambito della salute mentale, frequentemente l’attenzione viene rivolta alla patologia e alla conseguente
etichettatura. Tuttavia, è essenziale riconoscere un aspetto centrale proveniente dalla psicologia cognitiva e comportamentale: quello relativo ai sistemi cognitivi e ai comportamenti appresi che influenzano il nostro stato di benessere. In uno scenario socioculturale segnato da forti tensioni e incertezze, come quello delineato in precedenza, diviene fondamentale analizzare in quale modo percezioni personali del mondo circostante si connettano alle reazioni comportamentali instaurate dalle situazioni esterne.
L’approccio all’
ansia da prestazione deve necessariamente essere poliedrico; diversi studi suggeriscono che sia possibile affinare le strategie individuali mediante tecniche quali il rilassamento profondo o la pianificazione meticolosa, assieme allo sviluppo di abilità resilienti. È altresì evidente quanto sia determinante il supporto nella gestione delle problematiche legate all’ansia; pertanto, educare i giovani riguardo a tali questioni risulta vitale.
In aggiunta a ciò, operando contro le disparità sociali tramite politiche miranti a una maggiore equità, non solo si perseguirà l’obiettivo di realizzare una società equa, ma si conseguiranno anche effetti positivi sullo
benessere mentale collettivo nei vari gruppi sociali. Detto ciò, è fondamentale continuare a riflessioni sulla nostra identità al di là dei ruoli sociali e delle aspettative esterne.
Tipo di Trattamento | Efficacia |
---|---|
SSRI e SNRI | Primo approccio, reddito variabile nel lungo termine |
Benzodiazepine | Risultati immediati, rischio di dipendenza |
Neuroesteroidi | Nuove prospettive promettenti per l’ansia |
Farmaci a base di cannabinoidi (CBD) | In fase iniziale di studio, risultati promettenti |
Terapie psicologiche | Risultati variabili, necessità di integrazione con trattamenti farmacologici |
La riflessione su chi siamo al di là dei ruoli sociali e delle aspettative esterne, unita alla costruzione di un senso di valore intrinseco, diventa un processo fondamentale per contrastare gli effetti tossici di un ambiente che ci spinge costantemente a “fare” piuttosto che a “essere”. È utile porsi una domanda: quale parte del nostro dissapore proviene dalla percezione di doverci conformare a certe aspettative per ottenere l’
approvazione altrui o raggiungere il successo, rispetto a quella che corrisponde alla nostra reale essenza? Potrebbe darsi che il percorso verso una migliore
bellezza psichica inizi precisamente dal mettere in discussione quelle convinzioni limitanti che ci incatenano, dando spazio così alla riscoperta della nostra genuina umanità.
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