- Venditti accusa i magistrati di «due bias cognitivi» nel caso Garlasco.
- L'errore di attribuzione ha fatto interpretare la calma di Stasi come colpevolezza.
- Il «bias di conferma» ha polarizzato l'opinione pubblica sul caso.
- L'AIP promuove il dialogo tra giuristi e psicologi.
- Kahneman distingue il «Sistema 1» (intuitivo) dal «Sistema 2» (analitico).
- Le Linee Guida del 2010 richiedono una valutazione delle testimonianze.
Il caso Venditti e i “bias cognitivi” che scuotono la giustizia
Il panorama giudiziario italiano è stato recentemente investito da un dibattito acceso, innescato dalle dichiarazioni dell’ex PM di Pavia Mario Venditti, coinvolto nel controverso caso di Garlasco. Venditti ha sollevato l’accusa di “due bias cognitivi” a carico dei magistrati che lo indagano, un’affermazione che ha riportato prepotentemente al centro dell’attenzione il ruolo delle distorsioni cognitive all’interno del sistema giudiziario. Il suo ricorso, depositato al Tribunale del Riesame il 2 ottobre 2025, attraverso l’avvocato Domenico Aiello, definisce l’attuale attività investigativa come una “dispendiosa attività di parte in aperto contrasto con un giudicato”, suggerendo una ricerca di “una verità diversa dalla condanna di Stasi” che ha già definito il caso in passato.
Questa presa di posizione non è isolata, ma si inserisce in un contesto più ampio dove la psicologia cognitiva e le neuroscienze sono sempre più chiamate a chiarire i meccanismi decisionali di giudici, avvocati e inquirenti. La questione sollevata da Venditti non è solo un dettaglio procedurale, ma investe direttamente la validità e l’imparzialità del giudizio, in un sistema che, per sua natura, dovrebbe tendere alla massima oggettività. La difesa dell’ex procuratore ha sottolineato una presunta “distorsione della funzione requirente”, riportando il dibattito dagli aspetti strettamente giuridici a quelli puramente cognitivi e psicologici. Le accuse di Venditti, infatti, fanno eco a una crescente consapevolezza, sia nel mondo accademico che tra gli operatori del diritto, riguardo a come le “trappole mentali”, o bias cognitivi, possano inconsciamente alterare l’interpretazione dei fatti e, di conseguenza, l’esito dei processi.
I bias cognitivi sono “scorciatoie mentali” che portano a conclusioni affrettate e errate. Un esempio è l’errore fondamentale di attribuzione, che induce le persone a valutare comportamenti altrui come frutto di caratteristiche personali, trascurando il contesto. Così, nel caso Garlasco, la tranquillità di Alberto Stasi è stata interpretata come segno di colpevolezza, piuttosto che come possibile risposta a un trauma. Un altro bias rilevante è il bias di conferma, che spinge a cercare informazioni che supportano le credenze esistenti, ignorando evidenze contrarie. Questo bias ha contribuito a polarizzare l’opinione pubblica sul caso, rendendo difficile un dibattito obiettivo.
Infine, il “bias di retrospettiva” ha distorto la memoria, suggerendo che la colpevolezza di Stasi fosse ovvia dopo la condanna, alterando così la percezione della prevedibilità degli eventi. La concomitanza di questi bias ha contribuito a creare un ambiente in cui la ragione e l’analisi oggettiva delle prove sono state messe a dura prova, evidenziando la vulnerabilità del sistema giudiziario, e della società in generale, a queste distorsioni cognitive che possono influenzare l’esito di vicende cruciali.
Il delitto di Garlasco: un caso emblematico di bias cognitivi in azione
Il delitto di Garlasco, che ha visto la condanna di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, rappresenta un esempio lampante di come i bias cognitivi possano influenzare profondamente sia la percezione pubblica che l’andamento di un’indagine e di un processo. La teoria dell’attribuzione, pilastro della psicologia sociale, ci insegna che tendiamo a spiegare i comportamenti altrui attraverso fattori interni (disposizionali) o esterni (situazionali). Nel caso specifico di Stasi, un “errore fondamentale di attribuzione” è emerso con forza: la sua apparente calma e la mancanza di espressione emotiva sono state interpretate dal pubblico come indicatori diretti di una personalità “fredda”, “insensibile” o addirittura “colpevole”. Questo, a discapito di un contesto di shock, dolore profondo e incredulità che avrebbe potuto giustificare una vasta gamma di reazioni emotive, compreso un senso di intorpidimento o dissociazione. La pervasiva tendenza a sovrastimare le cause interne e a sottovalutare l’impatto delle circostanze esterne ha creato una narrazione potente e difficilmente scalfibile, che ha permeato il dibattito mediatico per anni.
A questo si è aggiunto il “bias di conferma”. Una volta che l’opinione pubblica si è formata un’idea iniziale sulla colpevolezza o innocenza di Stasi, questo bias ha agito come un acceleratore, portando le persone a cercare, interpretare e ricordare solo le informazioni che supportavano le loro convinzioni preesistenti, ignorando o minimizzando le evidenze contrastanti. Il dibattito mediatico è diventato un campo di battaglia dove innocentisti e colpevolisti selezionavano selettivamente notizie, testimonianze e interpretazioni che rafforzassero le proprie tesi, rendendo difficile un confronto basato su fatti oggettivi e completi.
Infine, il “bias di retrospettiva”, noto anche come fenomeno del “l’avevo detto”, ha distorto la memoria degli eventi passati. Dopo la condanna definitiva di Alberto Stasi, molte persone hanno affermato che la sua colpevolezza era sempre stata chiara e inconfutabile, nonostante le complessità delle prove e le incertezze che avevano caratterizzato il processo per anni. Questo bias ha fatto apparire le conclusioni come ovvie e inevitabili, alterando la percezione della prevedibilità degli eventi. La concomitanza di questi bias ha contribuito a creare un ambiente in cui la ragione e l’analisi oggettiva delle prove sono state messe a dura prova.
L’impatto dei bias cognitivi sul sistema giudiziario italiano
Il problema delle distorsioni cognitive non è affatto nuovo nel dibattito scientifico e filosofico, ma la sua rilevanza nel contesto giudiziario ha acquisito una nuova urgenza. Studi di diverse discipline – dalla filosofia all’economia, dalla logica alla psicologia – hanno iniziato a convergere sull’analisi di come questi fenomeni possano influenzare il ragionamento dei giudici e degli altri attori del sistema, minacciando il buon andamento della giustizia. In Italia, sebbene l’ambito legale e forense non sia tradizionalmente il più battuto da queste ricerche, l’attenzione sta crescendo. L’Associazione Italiana di Psicologia Sperimentale (AIP) e il Centro di ricerca sulla giustizia dei minori e della famiglia “Enzo Zappalà” dell’Università di Catania hanno promosso incontri volti a creare un dialogo aperto e costruttivo tra giuristi e psicologi per discutere costrutti teorici comuni, come “idoneità a rendere testimonianza”, “capacità di intendere e volere”, “danno” e “dolo”. Questi termini, pur presenti nel linguaggio giuridico, assumono valenze e significati psicologici profondamente diversi, e la conoscenza delle risultanze della ricerca psicologica è fondamentale per una loro interpretazione più calibrata.
La psicologia ha dimostrato che i processi di memoria sono costruttivi e ricostruttivi, non meramente riproduttivi, e sono condizionati da molteplici fattori che intervengono nella fase di codifica e recupero. Questa consapevolezza è cruciale per la valutazione delle testimonianze, specialmente quelle che provengono da soggetti vulnerabili come minori o anziani, e che, secondo le Linee Guida Nazionali per l’Ascolto del Minore Testimone del 2010, richiedono una valutazione articolata che consideri sia le capacità cognitive generali (memoria, attenzione, comprensione linguistica, discriminazione realtà/fantasia) sia quelle specifiche (abilità di organizzare e riferire un ricordo in relazione alla complessità narrativa e semantica, e alla presenza di influenze suggestive). L’esperto, in questo senso, può supportare la decisione giudiziaria contribuendo alla formazione di “massime di esperienza” psicologiche, ma il giudizio finale rimane prerogativa del giudice.
Un’altra area critica è quella del “dolo eventuale”, dove le ricerche cognitive sfidano la presunzione di razionalità implicita nelle teorie giuridiche. Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002, ha distinto tra “Sistema 1” (pensiero rapido, automatico, intuitivo) e “Sistema 2” (pensiero lento, deliberato, analitico). Se il modello giuridico del “bilanciamento” si sovrappone al Sistema 2 in decisioni prese senza pressione temporale, le situazioni di emergenza o stress stimolano il Sistema 1, che si basa su euristiche (scorciatoie mentali) e può essere soggetto a bias ed errori di giudizio. Questo ha profonde implicazioni per l’accertamento dell’intenzionalità dell’agente, suggerendo la necessità di un approccio più integrato che tenga conto della complessità dei processi decisionali umani.
La “giustizia predittiva” e l’uso di algoritmi predittivi, sebbene ancora oggetto di acceso dibattito, potrebbero offrire un contributo nel mitigare gli effetti dei bias. Tuttavia, la diffidenza verso questi metodi nasce dalla preoccupazione per la loro “opacità” e per il rischio che possano riprodurre bias di vario tipo se basati su dati storici iniqui. Il contesto medico, dove approcci simili sono sperimentati da decenni, fornisce un utile termine di paragone per valutare tali proposte in modo più equilibrato. La sfida è dunque duplice: da un lato, aumentare la consapevolezza sui bias cognitivi attraverso la formazione e l’istruzione; dall’altro, esplorare soluzioni tecnologiche che supportino, senza sostituirlo del tutto, il giudizio umano, affrontando le problematiche etiche e metodologiche che ne derivano.
Prevenire le distorsioni: neuroscienze, formazione e nuove prospettive
Il contrasto agli effetti delle illusioni cognitive in sede giudiziaria richiede un approccio multifattoriale, che abbracci sia la consapevolezza individuale sia strategie strutturali. Non esiste una teoria unica e consolidata per la prevenzione e la riduzione dei bias, ma l’essere coscienti della loro esistenza e delle condizioni che li facilitano è, al momento, il rimedio più efficace. Inserire nei curricula universitari e nella formazione professionale elementi di logica, ragionamento critico e calcolo delle probabilità è un passo necessario, sebbene da solo non sufficiente per prevenire fallacie ed errori nell’attività quotidiana.
La collaborazione interdisciplinare è un altro pilastro fondamentale. Attraverso iniziative come quelle condotte dalla Scuola IMT Alti Studi Lucca, che vede lavorare insieme gruppi di ricerca in neuroscienze forensi e in economia comportamentale, si può ottenere una visione complessiva dei problemi rilevanti a livello sociale, cognitivo, neurale e persino genetico. Questo approccio olistico permette di esplorare non solo gli aspetti puramente psicologici, ma anche le basi biologiche e neurali dei processi decisionali.
Per quanto riguarda le tecniche di “debiasing”, l’idea del “nudge” (la “spinta gentile”), popolarizzata dal premio Nobel Richard Thaler (2017), propone di correggere e indirizzare i comportamenti senza costrizione, bensì manipolando “a fin di bene” gli aspetti rilevanti del contesto di scelta. Sebbene sollevi problemi etici legati al “paternalismo libertario”, l’applicazione di queste tecniche, già sperimentate in ambito sanitario (come la Nudge Unit Toscana per la Salute – NUTS), nel settore legale e giudiziario costituisce una sfida stimolante.
Allo stesso modo, l’utilizzo delle “frequenze naturali” (es. “immaginando 100 persone simili all’imputato, 10 commetteranno ancora un reato”) favorisce il ragionamento probabilistico corretto, diminuendo i giudizi fallaci. Queste tecniche, se applicate con la collaborazione tra studiosi e professionisti del diritto, potrebbero rappresentare un passo significativo verso un sistema giudiziario più equo e affidabile.
Conclusioni
Cari lettori, il cammino della giustizia è intrinsecamente intrecciato con la complessità della mente umana. Abbiamo esplorato come le “trappole mentali”, o bias cognitivi, agiscano incessantemente, influenzando le nostre percezioni e, di conseguenza, le decisioni dei professionisti del diritto. La consapevolezza di questi meccanismi non è un esercizio accademico, ma una necessità impellente per garantire l’equità. Un concetto fondamentale della psicologia cognitiva è l’euristica della rappresentatività: la tendenza a giudicare la probabilità di un evento in base a quanto esso sia rappresentativo di una categoria, ignorando dati statistici più oggettivi. Pensate a come un testimone possa, inconsciamente, sovrapporre un ricordo frammentario a uno “schema” di evento già presente nella sua mente, alterando la ricostruzione dei fatti. Un concetto più avanzato, di psicologia comportamentale, ci porta al bias di dotazione: la tendenza ad attribuire un valore maggiore a ciò che si possiede, o che si crede di possedere, semplicemente perché è nostro o è stato convalidato dalle nostre prime convinzioni. Questo può manifestarsi in un’indagine quando un inquirente, avendo formulato una prima ipotesi, valuta le prove successive con un peso maggiore se queste confermano la sua idea iniziale, anche se alternative più plausibili emergono.
Riflettere su queste dinamiche significa riconoscere la nostra stessa umanità, con i suoi limiti e potenzialità. Non si tratta di minare la fiducia nella giustizia, ma di renderla più solida, più trasparente, più consapevole delle sue fondamenta cognitive. Ogni passo verso questa maggiore consapevolezza è un contributo a un sistema che, riconoscendo la propria complessità, può aspirare a una giustizia sempre più giusta, in cui la ragione e l’emozione, la logica e la psicologia, possano congiungersi in un’armonia più coerente e umana.
- Bias Cognitivi: Distorsioni sistematiche nel processo di pensiero e decisione.
- Errore Fondamentale di Attribuzione: Tendenza a valutare i comportamenti altrui come risultati di tratti personali, ignorando il contesto.
- Sistema 1/Sistema 2: Teoria proposta da Kahneman sul funzionamento della mente, dove il Sistema 1 è veloce e intuitivo, mentre il Sistema 2 è lento e analitico.
- Giustizia Predittiva: Uso di algoritmi per prevedere comportamenti o esiti giudiziari.
- Nudge: “Spinta gentile” per influenzare decisioni senza coercizione.