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Trauma vicario: come le notizie influenzano la salute mentale di psichiatri e cittadini

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  • Il 30% degli operatori sanitari presenta sintomi di stress traumatico secondario.
  • Psichiatra Samah Jabr a Gaza, esempio di trauma vicario da contatto costante con dolore.
  • Tra il 7,3% e il 40% dei lavoratori in terapia intensiva sperimenta fatica.

L’attuale scenario mediatico si distingue per un incessante fluire d’informazioni che stimola una profonda riflessione sull’effetto dell’esposizione continua a eventi traumatici – come le guerre o i disastri naturali – sulla psiche collettiva del genere umano. Tale condizione rivela ciò che potremmo definire un’epidemia silenziosa, manifestantesi tramite meccanismi quali il trauma vicario, la fatica per compassione, ed infine la soppressione emotiva. Fenomeni questi esplorati inizialmente nel contesto delle cure dirette ma ora proiettati nelle esperienze quotidiane di moltissime persone grazie alla pervasività delle informazioni digitali.

Il veloce alternarsi d’immagini strazianti ed narrativi riguardanti la sofferenza umana provoca frequentemente nei soggetti sensazioni d’impotenza profonda associabili all’angoscia. Questo stato d’animo tende ad erodere il benessere psicologico sia a livello personale sia sociale. Anche gli individui non direttamente coinvolti negli incidenti rischiano così l’insorgere dei sintomi riconducibili al disturbo post-traumatico da stress (PTSD). A tale proposito sono stati documentati segni quali ansia persistente, problematiche legate al sonno, irritabilità accentuata unitamente a difficoltà nella capacità concentrativa. Inoltre, molti studi nel campo della psicologia clinica attestano questa situazione preoccupante.

A man overwhelmed by news on multiple screens, surrounded by newspapers, medical symbols, and a skull, illustrating vicarious trauma and information overload.

Il trauma indiretto, noto anche come trauma vicario, è un processo di cambiamento continuo che si verifica in seguito alla testimonianza o all’ascolto della sofferenza e dei bisogni altrui. Non si tratta di un evento singolo, ma di una trasformazione progressiva che altera la percezione del mondo e di sé, portando a una ridefinizione delle proprie credenze e valori. Questo fenomeno è stato ampiamente documentato tra professionisti come psicologi, operatori sanitari e giornalisti, ma la sua portata si sta estendendo alla popolazione generale a causa della saturazione informativa.

Un’importante ricerca ha dimostrato che anche i familiari di persone traumatizzate o i professionisti in contatto diretto con storie di sofferenza possono sperimentare una serie di effetti psicologici negativi che impattano profondamente la loro salute mentale, i legami affettivi e le prestazioni lavorative[National Library of Medicine]. Un esempio emblematico è rappresentato dalla condizione della psichiatra Samah Jabr a Gaza, responsabile del’Unità di salute mentale presso il Ministero della Salute palestinese, la cui esperienza è stata riportata il 25 novembre 2024. Il suo lavoro quotidiano è un toccante esempio di come il contatto costante con il dolore altrui possa forgiare la psiche.

Ricerche recenti: Il trauma vicario non solo compromette il benessere emotivo di chi ne è colpito, ma può anche portare a disturbi psicologici come depressione e ansia. È cruciale iniziare un percorso di guarigione attraverso la terapia. Professioni a rischio: Medici, psicologi e assistenti sociali sono tra le categorie più vulnerabili.Evidenza: Il 30% degli operatori sanitari presenta sintomi di stress traumatico secondario, mentre il % può riferirsi a un’alta incidenza di affaticamento da compassione nei professionisti.

Allo stesso modo, una recente analisi ha messo in evidenza come l’empatia possa essere utilizzata come meccanismo di avvicinamento o, al contrario, di allontanamento, evidenziando il sottile equilibrio tra la partecipazione emotiva e la necessità di preservare il proprio equilibrio psicologico. Il trauma, in tutte le sue manifestazioni, incluse quelle dirette e quelle mediate, si presenta come una forzante potenzialmente distruttiva che sollecita l’adozione di risposte adattative a livello sia personale che collettivo. È essenziale analizzare i processi sottostanti a queste dinamiche per progettare misure preventive e sistemi di sostegno efficaci, capaci di ridurre gli impatti negativi derivanti dall’esposizione continuativa al dolore.

Empatia logorante: dalla compassione alla desensibilizzazione

Il concetto di “fatica da compassione” (compassion fatigue) è emerso inizialmente nei contesti sanitari, dove medici e infermieri, confrontati quotidianamente con il dolore e la sofferenza dei pazienti, mostravano una progressiva insensibilità. Questo fenomeno, descritto come il “costo dell’assistenza”, si basa sull’idea che l’esposizione prolungata a situazioni traumatiche agisse come una forma di trauma indiretto, prosciugando le energie emotive dei professionisti. Tuttavia, le ricerche di neuroscienze, come quelle condotte da Olga Klimecki e Tania Singer, hanno messo in discussione questa interpretazione, suggerendo che non è la compassione in sé a essere logorante, bensì il disagio empatico, ovvero la sofferenza provata nel sentirsi impotenti di alleviare il dolore altrui, un concetto che ha trovato conferma in uno studio del 2024 che evidenzia l’emergere di sintomi da affaticamento da compassione tra i professionisti della salute[State of Mind].

A doctor looking stressed and overwhelmed while comforting a patient in a hospital bed, surrounded by medical equipment and symbolic hearts, representing empathy burnout.

Il disagio empatico si manifesta quando le persone sperimentano indignazione, mortificazione e impotenza di fronte a guerre, violenze e discriminazioni diffuse nel mondo. Può portare all’inazione o a un’apparente indifferenza, non per apatia, ma per la difficoltà di affrontare la portata della sofferenza e la percezione dell’inutilità dei propri sforzi. Anche gesti semplici come donare in beneficenza o sensibilizzare sui social media possono apparire insufficienti di fronte alla vastità del dolore, spingendo verso un atteggiamento compensatorio di distacco emotivo. Un articolo dell’8 maggio 2024 ha descritto il fenomeno dell'”empathy burnout”, un’angoscia o apatia che le persone provano in risposta alle notizie pervasive. Questo sentimento di esaurimento emotivo si caratterizza per cinismo, irritabilità e distacco, riducendo la capacità di provare compassione. Le stime indicano che tra il 7,3% e il 40% dei lavoratori in terapia intensiva e dal 25% al 70% dei professionisti del settore sperimentano vari gradi di fatica da compassione.

La ricerca di Klimecki del 2014 ha fatto luce su come l’addestramento all’empatia, concentrato sulla condivisione del dolore altrui, possa aumentare gli affetti negativi e attivare regioni cerebrali associate alla sofferenza, come l’insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore. Tale meccanismo, se prolungato e non gestito, può indurre un ritiro dal dolore e un desiderio di fuga. Al contrario, l’addestramento alla compassione ha mostrato come focalizzarsi sul riconoscere i sentimenti degli altri e offrire conforto attivo attivi una rete neurale diversa, associata all’affiliazione e alla connessione sociale. La compassione, quindi, permette di superare il sovraccarico emotivo e di trovare la motivazione reale per aiutare il prossimo, evidenziando un barlume di speranza collegato alla capacità di affrontare il dolore altrui attraverso la connessione e l’azione.

Glossario:

  • Fatica da Compassione: esaurimento emotivo e mentale associato all’assistenza di persone in sofferenza.
  • Disagio Empatico: sofferenza provata mani da una sensazione di impotenza di fronte alla sofferenza altrui.
  • PTSD: Post-Traumatic Stress Disorder, disturbo da stress post-traumatico che si sviluppa dopo aver vissuto o assistito a eventi traumatici.

La desensibilizzazione emotiva rappresenta, in questo quadro, l’estrema conseguenza dell’esposizione continua a contenuti traumatici. Come sottolineato il 6 anni fa in una riflessione sul non provare immediata compassione di fronte a notizie dolorose, siamo costantemente bombardati da informazioni negative, e questo può condurre a una sorta di “difesa psicologica” in cui l’intensità della risposta emotiva diminuisce. Questo meccanismo, sebbene possa apparire come un adattamento funzionale per proteggere la psiche da un sovraccarico insopportabile, nasconde il rischio di un’indifferenza patologica, compromettendo la capacità di empatia e di connessione umana. Il punto non è ignorare il dolore, ma sviluppare una “compassione attiva” che permetta di agire senza logorarsi, come suggerito in un articolo del 4 marzo 2024. La Compassion-Focused Therapy (CFT), illustrata il 16 marzo 2024, si propone di diminuire l’autocritica, i sentimenti di vergogna e lo stress. Essa fornisce metodi atti alla regolazione delle emozioni e mira a convertire le esperienze di disagio in opportunità che favoriscano il benessere individuale.

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Navigare l’iper-connettività: coping, resilienza e mindfulness

Nell’attuale era della connessione continua, diventa imprescindibile sviluppare modalità efficaci per gestire eventi altamente stressanti così da salvaguardare l’integrità della salute mentale. In tale scenario si delineano le strategie di coping insieme alla resilienza, elementi chiave per consentire all’individuo una ristrutturazione costruttiva della propria esistenza quando si confronta con prove onerose o esperienze traumatiche. La nozione stessa del coping concerne le reazioni degli individui rispetto a contesti avversi: un tema approfondito dalla ricerca psicologica nel corso degli anni.

Si possono identificare varie forme nella pratica del coping; vi è innanzitutto il coping emotivo, caratterizzato dall’elaborazione delle emozioni vissute; dall’altra parte troviamo il coping centrato sul problema, mirante a concretizzare soluzioni tangibili alle sfide affrontate – come illustrato dettagliatamente il 7 dicembre 2024. Una metodica utile nell’affrontarli potrebbe consistere nell’elencazione delle attività da intraprendere secondo priorità ben definite ed adoperandosi su ciascuna con rigore organizzativo; suggerimento accolto anche dal documento del 2 dicembre 2024.

Infine, la significativa operazione psichica detta resilienza svolge un ruolo cruciale poiché consente alla persona non solo d’incontrarsi con momenti complicati ma altresì d’adattarsi proattivamente. Non è una qualità innata, ma una capacità che può essere coltivata e rafforzata attraverso diverse pratiche. Uno studio del 2 luglio 2021 ha dimostrato come la resilienza umana dipenda da un’interazione complessa di sistemi biologici, psicologici, sociali ed ecologici.

A person meditating by a serene lake surrounded by mountains, symbolizing peace, resilience, and mindfulness amidst natural beauty.

La promozione della salute mentale è intrinsecamente legata allo sviluppo di questa capacità, come discusso il 23 novembre 2023 in un articolo che evidenzia il potere della gestione dello stress, dell’accettazione di sé, delle relazioni sane e del significato nella vita. La mindfulness e la consapevolezza, in particolare, sono strumenti potenti per sviluppare una maggiore resilienza emotiva e mentale. Gli psicologi insegnano strategie che includono la pratica della mindfulness e della meditazione, l’attività fisica regolare, la connessione con gli altri, la priorità del sonno e l’adozione di una dieta equilibrata.

I servizi di salute mentale giocano un ruolo cruciale nel promuovere la recovery e la resilienza, helping le persone a superare le difficoltà legate alle malattie psichiatriche. L’adozione di un approccio informato sul trauma (“Trauma-Informed Care”), di cui si è parlato il 18 febbraio 2022, riconosce la frequenza delle esperienze traumatiche nelle persone con disturbi mentali e mira a evitare che le cure stesse possano rinforzare ulteriori traumi. La consapevolezza che il trauma infantile aumenta la probabilità di molti problemi di salute mentale e fisica in età adulta, come depressione e PTSD, sottolinea l’importanza di interventi tempestivi e di supporto lungo tutto il ciclo di vita.

La costruzione di una solida rete di supporto sociale, la ricerca di significato nelle esperienze difficili e lo sviluppo di competenze di problem-solving sono tutti fattori che contribuiscono a rafforzare la resilienza e a promuovere un benessere psicologico duraturo.

Il ponte tra dolore e consapevolezza: una prospettiva per il futuro

Nell’ampio orizzonte dell’esperienza umana mentale si delinea una sfida fondamentale: l’affrontare il dolore—sia esso vissuto in prima persona o recepito tramite narrazioni altrui accompagnate da un perpetuo flusso mediatico—rappresenta un elemento essenziale della nostra esistenza. La psicologia cognitiva, concentrandosi sui meccanismi con i quali organizziamo ed elaboriamo informazioni sensoriali ed emotive, ci mostra come non siamo semplicemente dei recettori passivi. Invero, la mente opera continuamente per strutturare ed interpretare ciò che osserviamo.

Ciò implica che la modalità con cui interpretiamo ed interiorizziamo eventi traumatici risulta influenzata da fattori specifici: schemi mentali già instaurati, aspettative precostituite quanto anche dalle esperienze precedenti. Di fronte a un bombardamento incessante di sofferenze altrui, i nostri modelli cognitivi tendono ad attivarsi; questo può accadere anche con dinamiche disfunzionali, aumento dell’ansia, della paura o generando percezioni d’impotenza. Un’analisi più dettagliata offre spunti dalla psicologia comportamentale, che mette in luce l’impatto significativo dell’ambiente circostante sulle nostre reazioni emotive e comportamento personale. L’esposizione ripetuta a stimoli avversivi, come le notizie di violenza e distruzione, può innescare processi di condizionamento che alterano le nostre reazioni. Pensate alla desensibilizzazione emotiva: inizialmente, una notizia di una calamità può provocare un forte impatto, ma con il tempo, la costante ripetizione di queste informazioni può attenuare la nostra reazione, quasi come se la novità si esaurisse e subentrasse una sorta di “abitudine” al dolore.

Questo non è un segno di indifferenza morale, ma piuttosto una complessa reazione psicologica di autoprotezione, in cui il sistema nervoso cerca di ridurre l’attivazione per evitare un sovraccarico. È come se il cervello, per non collassare sotto il peso dell’orrore, costruisse una barriera, un filtro protettivo. Tuttavia, questa barriera può diventare troppo spessa, isolandoci dalla realtà del dolore altrui e compromettendo la nostra capacità di connessione empatica.

La sfida, quindi, non è ignorare, ma imparare a modulare la nostra risposta, a navigare tra la sensibilità necessaria per la compassionee la resilienza indispensabile per la sopravvivenza psichica. Riflettere su questi meccanismi ci spinge a interrogarci sul ruolo che ciascuno di noi ha, non solo come spettatore, ma come agente attivo nella costruzione di un mondo più consapevole e compassionevole. Come possiamo, individualmente e collettivamente, trovare un equilibrio tra l’essere informati e l’essere travolti, trasformando il disagio in una forza motrice per il cambiamento positivo?

Professione a Rischio Sintomi Comuni Strategie di Coping
Medici e Infermieri Ansia, depressione, burnout Supporto psicologico, ‘mindfulness’
Psicologi e Psichiatri Evitamento e disconnessione emotiva Training alla compassione, supervisione
Forze dell’Ordine Stress cronico, irritabilità Tecniche di rilassamento
Assistenti Sociali Insonnia, isolamento Interventi di autocura

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