Salute mentale dietro le sbarre: L’inchiesta esclusiva sulle carceri italiane

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  • Il 15% dei detenuti in Italia ha diagnosi psichiatriche gravi.
  • A Modena, il 44% dei detenuti assume psicofarmaci.
  • Solo il 12% dei detenuti ha accesso a trattamenti psichiatrici adeguati.
  • Nel 2024 si sono verificati 91 suicidi nelle carceri italiane.
  • Il tasso di recidiva è del 68%.

Il sistema penitenziario italiano si trova ad affrontare una crisi profonda e multifattoriale, con la gestione della salute mentale dei detenuti che emerge come una delle criticità più pressanti. La percentuale di reclusi con diagnosi psichiatriche gravi è in costante aumento, attestandosi attualmente al 15% della popolazione carceraria totale, il che corrisponde a circa 9.000 detenuti.

Ultimo rapporto di Antigone del 2024

Questa cifra preoccupante rivela una realtà complessa, stratificata in due direttrici principali. Da un lato, vi sono individui che entrano negli istituti di pena già affetti da patologie pregresse, spesso esacerbate da condizioni di marginalità sociale, dipendenza economica e povertà. Dall’altro, un numero significativo di detenuti sviluppa disturbi psichici direttamente all’interno delle mura carcerarie, come una reazione diretta e inevitabile all’impatto psicologico devastante della reclusione.

I dati raccolti da associazioni impegnate nella tutela dei diritti dei detenuti, come Antigone, dipingono un quadro allarmante. Oltre il 20% dei detenuti in Italia fa regolarmente uso di psicofarmaci, tra cui antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e antipsicotici. Questo dato, di per sé significativo, assume contorni ancora più drammatici in alcune strutture. A Modena, la percentuale di detenuti che assumono psicofarmaci raggiunge il 44%, mentre a Trento si tocca un vertiginoso 70%. Ancora più allarmante è il fatto che il 40% dell’intera popolazione carceraria italiana faccia uso di sedativi o ipnotici. Questa massiccia somministrazione di farmaci non si limita spesso al solo scopo terapeutico, ma si configura, in assenza di alternative concrete, come un vero e proprio strumento di sedazione collettiva.

L’assistenza psicologica e psichiatrica all’interno delle carceri è gravemente carente. Si registrano appena 6,76 ore settimanali di psichiatra ogni 100 detenuti e 20 ore per gli psicologi. Questi numeri sono insufficienti per garantire un supporto adeguato e continuativo. Si stima che solo il 12% delle persone detenute abbia accesso a trattamenti psichiatrici adeguati, secondo il Ventesimo rapporto di Antigone.

Proposta di riforma: Un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e l’implementazione di screening costanti per individuare e curare le patologie croniche e infettive sono misure urgenti richieste dal Garante dei detenuti.

A queste carenze sanitarie si sommano le disfunzioni strutturali degli edifici. Oltre un terzo degli istituti visitati da Antigone è stato costruito prima del 1950, e molti addirittura prima del 1900. Le celle sono spesso prive di un adeguato sistema di climatizzazione, risultando roventi d’estate e gelide d’inverno. L’acqua calda è assente in quasi la metà delle strutture carcerarie, e un quarto delle carceri non dispone di spazi per attività ricreative o lavorative. Il sovraffollamento completa questo quadro desolante. Al 30 aprile 2025, i detenuti in Italia erano circa 62.000, a fronte di una capienza regolamentare di soli 51.000 posti. In alcuni istituti, come San Vittore a Milano, il tasso di affollamento ha superato il 220%, creando condizioni di vita disumane e insostenibili. Questo ambiente ostile e deprivante contribuisce in modo significativo all’esacerbarsi del disagio psichico, trasformando il carcere in un luogo che, anziché rieducare, finisce per aggravare le condizioni psicologiche dei reclusi.

Sovraffollamento, suicidi e l’illusione della rieducazione

Alla base dell’emergenza rappresentata dal sovraffollamento carcerario c’è una dimensione allarmante del sistema penitenziario italiano; essa agisce da vero e proprio catalizzatore per fenomeni devastanti. Le statistiche riguardanti i suicidi nelle strutture detentive costituiscono indubbiamente una testimonianza cruda della tragedia presente: nel 2024 abbiamo assistito a ben 91 suicidi, cifra record nella storia italiana. I dati relativi ai primi sette mesi del 2025 confermano tale dramma con ulteriori 37 decessi, suggerendo chiaramente che le difficoltà non accennano a diminuire. L’identità tipica dei soggetti protagonisti degli atti estremi consiste prevalentemente in giovani extracomunitari o individui coinvolti per infrazioni minori che si trovano ad affrontare uno stato d’isolamento severissimo e impressionante proprio nei momenti iniziali della loro detenzione; assistiamo quindi a eventi particolarmente drammatici nei quali i livelli d’intervento psicosociale risultano fortemente sottodimensionati o addirittura assenti. Un caso emblematico riguarda la morte per impiccagione avvenuta recentemente presso San Vittore, coinvolgendo un giovane ventiduenne: ciò mette ulteriormente in luce come lo smarrimento possa facilmente sopraffare anche le menti meno mature tra queste mura.

L’articolo 27 della Costituzione pone l’accento sulla funzione rieducativa della pena; tuttavia la realtà carceraria offre uno scenario ben diverso. Sebbene il modello ideale miri al reinserimento sociale, il contesto operativo tende a privilegiare un’impostazione punitiva, nella quale l’aspetto riabilitativo viene frequentemente trascurato. L’incapacità del sistema penale di implementare concretamente i principi espressi dalla Costituzione contribuisce all’affermazione di pratiche punitive anziché curative e integrative, risultando così in ulteriore emarginazione degli individui coinvolti. Tale disconnessione tra formulazioni teoriche e applicazioni pratiche è fortemente correlata all’elevatissimo tasso di recidiva registrato nel paese: il 68% dei detenuti torna infatti a commettere reati dopo aver espiato la propria condanna.

La strategia dell’isolamento—una misura normalmente associata a epoche passate—continua ad essere utilizzata massicciamente nel contesto penitenziario italiano per vari motivi, come discipline interne o esigenze sanitarie o protettive. Purtroppo questa metodologia sfocia spesso in quello che può essere percepito come un vero atto punitivo nei confronti dei detenuti. I provvedimenti di isolamento, che per legge non dovrebbero superare i 15 giorni consecutivi, sono in aumento. Le celle destinate all’isolamento sono spesso anguste, prive di arredi essenziali, con scarsa ventilazione e condizioni igieniche precarie. In situazioni estreme, i detenuti possono essere lasciati senza materasso, in condizioni di nudo o senza accesso a servizi igienici adeguati. Gli effetti di questa pratica sulla salute mentale sono devastanti e ben documentati: ansia cronica, depressione severa, gravi disturbi del sonno, regressione cognitiva, sociofobia e una completa perdita del senso del tempo. In queste circostanze disumane, parlare di rieducazione diventa una mera retorica, svuotata di ogni significato concreto e praticabile.

Nel 2024, il tasso di suicidi in carcere in Italia è stato pari a 14,8 casi ogni 10.000 detenuti, rispetto a un tasso di suicidi in libertà di 0,59 ogni 10.000 abitanti.

Il ritorno alla criminalità, con un tasso di recidiva così elevato, è la testimonianza più eloquente del fallimento di un sistema che non riesce a rieducare né a reintegrare.

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  • Finalmente un articolo che mette in luce la vera emergenza carceraria... 👍...
  • Trovo inaccettabile che si parli sempre di 'rieducazione' quando... 😠...
  • E se il problema non fosse 'chi ha sbagliato' ma 'cosa ha sbagliato'... 🤔...

Modelli alternativi: esperienze europee e sfide italiane

Nonostante le criticità, esistono modelli alternativi, anche in Italia, che dimostrano la possibilità di un approccio diverso e più efficace alla detenzione. Il carcere di Bollate, nel Milanese, rappresenta un esempio virtuoso, basato su un impianto partecipativo e sulla responsabilizzazione dei detenuti. Qui, i reclusi non solo lavorano e studiano, ma gestiscono anche un ristorante aperto al pubblico e collaborano alla redazione di un giornale interno. Questo “carcere aperto” si fonda sull’acquisizione di competenze e sulla creazione di un senso di responsabilità, con risultati concreti e misurabili. I tassi di recidiva a Bollate sono estremamente bassi, attestandosi intorno al 7%, a dimostrazione che condizioni di vita migliori e una riduzione delle tensioni possono portare a risultati riabilitativi significativi. Tuttavia, estendere esperienze simili a livello nazionale richiede investimenti consistenti in risorse, personale qualificato e, soprattutto, una visione politica stabile e lungimirante.

Guardando oltre i confini nazionali, in Europa si stanno sviluppando modelli di detenzione che mettono in discussione l’efficacia delle grandi strutture penitenziarie. Mentre molti Paesi continuano a costruire carceri sempre più grandi, crescono anche le esperienze di detenzione su piccola scala. In Scandinavia, per esempio, sono attivi modelli basati su celle simili a stanze universitarie e su relazioni di fiducia tra detenuti e operatori. Questo approccio ha contribuito a ridurre la recidiva a meno del 20%. Norvegia e Svezia sono pionieri delle “open prison”, carceri aperte che enfatizzano la responsabilizzazione individuale come principio fondamentale. La rete europea Rescaled, impegnata nel superamento del modello tradizionale di detenzione, ha mappato sviluppi interessanti in altri Paesi. In Belgio e Lituania, ad esempio, si stanno diffondendo le “transition house”, strutture aperte a basso livello di sicurezza, progettate per accompagnare i detenuti nel delicato percorso di reinserimento nella società al momento del rilascio. Tali modelli testimoniano come sia non soltanto realizzabile ma altresì più produttivo adottare una metodologia rivolta all’essere umano ed orientata alla riabilitazione al fine di contenere la recidiva ed agevolare un effettivo reinserimento sociale.

Gli approcci innovativi, dunque, offrono una forte opposizione rispetto all’attuale impostazione punitiva ancora prevalente in numerosi Stati americani; quest’ultima viene comunemente rappresentata dalle Supermax – quelle istituzioni penitenziarie ad alta sicurezza caratterizzate da forti misure repressive focalizzate sulla segregazione dei detenuti. Inoltre, essi si distaccano significativamente da concezioni storiche del sistema penale statunitense quali l’Auburn system, sviluppatosi nello stato di New York nella prima metà del XIX secolo; tale schema prescriveva ai prigionieri l’obbligo di eseguire le proprie attività lavorative collettivamente mantenendo però il silenzio durante le ore quotidiane per poi essere rinchiusi in isolamento notturno sotto questa presunzione che gli impieghi stessi, unitamente a severità, potessero favorire forme redentive dell’individuo. Diverso è il Pennsylvania system, elaborato presso l’Eastern State Penitentiary a Philadelphia sin dal 1829; qui venne implementata un’esclusione radicale: ciascun carcerato doveva risiedere all’interno della propria cella individualmente, senza alcuna forma d’interazione umana, accanto solamente a una Bibbia ed avendo accesso molto limitato sia alla luce solare sia all’aria fresca. Il design architettonico dell’edificio stesso si manifestava attraverso sette braccia articolate in un disegno radiale, con al centro una preminente torre direzionale. Questa concezione scaturiva da un pensiero di natura religiosa, suggerendo che l’isolamento assieme al silenzio potessero stimolare momenti di profonda introspezione e pentimento personale. In realtà però, i risultati deleteri del suddetto isolamento iniziarono a farsi sentire già in epoca precoce riguardo all’equilibrio psicologico degli individui reclusi.

Testimonianze giunte nel tempo evidenziarono come tale approccio producesse sentimenti di insoddisfazione profonda – dalla rabbia alla frustrazione – impedendo in modo significativo qualsiasi tentativo reale di reintegrazione nella società civile. Il complesso carcerario dell’Eastern State Penitentiary cessò infine le proprie operazioni nel 1971 ed attualmente funge da museo volto ad educare l’opinione pubblica sui temi della giustizia penale e sui tragici effetti delle politiche detentive disumane. In questo senso, la morale storica risulta inequivocabile: l’isolamento protratto (unitamente alla privazione sensoriale) rappresenta una minaccia tangibile per la salute psicologica degli individui ed ostacola qualsiasi forma utile ai fini della riabilitazione sociale.

Oltre la retorica: per una giustizia riparativa

Le riforme legislative, pur non mancando sulla carta, faticano a tradursi in azioni concrete. Il decreto carceri, approvato con l’obiettivo di ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di detenzione, è ancora fermo dopo oltre un anno dalla sua approvazione. Questa inerzia istituzionale è aggravata da un clima culturale ostile. L’opinione pubblica tende a percepire il carcere come un mondo distante, che riguarda solo “chi ha sbagliato” e deve pagare il proprio debito con la società. Questa visione punitiva e stigmatizzante porta i governi a essere riluttanti a investire in un settore che non genera consenso politico.

Eppure, le soluzioni esistono e sono note: indulti per reati minori, un maggiore utilizzo di misure alternative alla detenzione, un investimento significativo nella rieducazione e nel reinserimento sociale, la formazione di personale qualificato e la riqualificazione degli spazi carcerari. Tutto ciò richiede denaro, tempo e una ferma volontà politica, ma rappresenta l’unica via per un sistema penitenziario che sia veramente costituzionale e umano. Le questioni inerenti ai diritti delle persone detenute non devono essere percepite come contrapposte a quelli dei cittadini liberi; piuttosto appaiono manifestazioni di un legame intrinseco. Un sistema penitenziario improntato esclusivamente sulla punizione genera un ciclo vizioso: gli ex-detenuti tendono a riprendere il loro cammino dal medesimo luogo da cui erano partiti. Ciò provoca effetti deleteri su tutta la comunità sociale nel suo insieme, erodendo sia la sicurezza che il benessere collettivi. Pertanto ogni forma di giustizia deve trascendere il mero atto punitivo; richiede anche elementi fondamentali quali riparazione e riabilitazione per risultare autenticamente efficiente e umana.

Esplorando il campo della psicologia cognitiva, risulta imprescindibile analizzare l’impatto devastante che un ambiente carcerario presenta – definito da gravi privazioni sensoriali, oltre a una scarsissima offerta di stimoli e opportunità di interazione sociale – sui processi cognitivi cruciali dell’individuo umano: memoria, attenzione e abilità decisionali subiscono tutte profonde alterazioni dovute a tale contesto penalizzante. Tali privazioni possono indurre fenomeni quali regressione cognitiva, ostacolando pertanto in modo significativo la capacità dei soggetti scarcerati nell’affrontare le sfide del mondo esterno all’uscita dal carcere stesso. Inoltre, dal prisma della psicologia comportamentale, emerge preoccupante l’imp.iego consistente degli psicofarmaci come sedativi tali da causare forme acute tanto fisiche quanto psichiche d’assuefazione; ciò implica una progressiva tendenza dell’individuo ad eludere confronti con emozioni personali o stati d’animo attraverso una dipendenza sostanziale dagli agenti chimici volti a gestire lo stato psico-emotivo interno. Questo impedisce lo sviluppo di strategie di coping autonome e resilienti, necessarie per una vera riabilitazione.

Una nozione più avanzata nell’ambito della salute mentale correla l’ambiente carcerario ai fenomeni di trauma complesso. A differenza del trauma singolo, il trauma complesso deriva da esposizioni prolungate a situazioni avverse, disorganizzanti e prive di vie di fuga, come quelle vissute in prigione. Questo può portare a profondi disturbi dell’attaccamento, della regolazione emotiva, della percezione di sé e della relazione con gli altri, al punto che il soggetto può sviluppare una forma di “adattamento alla prigione” che lo rende disfunzionale e non autonomo una volta fuori. La somministrazione di farmaci, in questo contesto, può mascherare i sintomi senza affrontare le radici traumatiche, ritardando o impedendo il processo di guarigione e reintegrazione. È quindi essenziale spostare il focus dalla mera sedazione alla creazione di ambienti che promuovano la resilienza, l’autoconsapevolezza e la rielaborazione dei traumi, per non trasformare un luogo di pena in un generatore di ulteriore sofferenza e disordine sociale.

La riflessione che emerge è chiara: la concezione di giustizia deve evolvere. Non possiamo continuare a considerare il carcere come un luogo separato dalla società, dove “chi ha sbagliato” viene semplicemente confinato. È un luogo che plasma le persone, e il modo in cui le plasmiamo ha un impatto diretto sul nostro futuro collettivo. Investire nella riabilitazione e nella salute mentale dei detenuti significa investire nella sicurezza e nella qualità della vita dell’intera comunità.

Glossario

Glossario:
  • ATSM: Articolazione per la Tutela della Salute Mentale, sezioni all’interno delle carceri italiane dedicate ai detenuti con condizioni psichiatriche.
  • REMs: Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture destinate a detenuti con disturbi psichiatrici.
  • Opg: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, strutture chiuse in Italia per il trattamento di soggetti con patologie psichiatriche, aboliti nel 2017.

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