- Il film è stato proposto per rappresentare la Giordania agli Oscar 2026.
- La regista Cherien Dabis è stata riconosciuta nel 2022 per la sua autentica rappresentazione culturale.
- Dabis ha inserito un episodio traumatico vissuto all'età di 8 anni nel film.
Il cinema come testimone del trauma intergenerazionale palestinese
La regista e attrice americana palestinese Cherien Dabis porta sul grande schermo, con il suo terzo lungometraggio “Tutto quello che resta di te” (titolo originale “All that’s left of you”), una narrazione profonda e commovente delle vicende palestinesi, vista attraverso gli occhi di tre generazioni di una singola famiglia. Il film, proposto per rappresentare la Giordania agli Oscar 2026 e presentato al Sundance Film Festival, esplora le cicatrici lasciate da decenni di conflitto, dalla Nakba del 1948 alle Intifada del 1988, focalizzandosi sugli impatti emotivi e psicologici più che sugli eventi storici in sé. L’opera si pone come un’esplorazione del significato dell’identità palestinese e della lotta per preservare la propria dignità di fronte alle continue invasioni e alla fragilità della propria esistenza.
La narrazione del vissuto e la psicologia del conflitto
L’interpretazione della realtà palestinese proposta da Cherien Dabis rivela un’intensa consapevolezza riguardo alle ripercussioni emotive del conflitto e dell’esilio. È stato reso evidente dalla regista l’intento di ridurre l’importanza delle questioni politiche alla semplice cornice in cui si inseriscono i fatti storici; ciò permette al dramma umano e familiare di emergere con prepotenza. Il fulcro della sua opera rimane orientato verso gli individui: viene così messa in risalto la complessità delle interazioni umane colpite dagli strascichi dei traumi vissuti. Rappresentativo è il cammino del personaggio Sharif: inizialmente delineato negli anni ’40 dall’interpretazione vivace ed esuberante affidata ad Adam Bakri nell’ambito della sua vita professionale quale imprenditore affascinante e genitore giocoso; quindi riappare successivamente tramite Mohammad Bakri con un carattere sensibilmente trasformato dalla dura esperienza. Abbracciando attraverso tre generazioni gli stessi legami familiari palestinesi, Dabis intende chiaramente mostrare le ripercussioni durature subite dopo episodi tragici come la Nakba – offrendo al contempo una lente critica attraverso cui esplorare lo stato contemporaneo delle cose.
Questo focus sull’aspetto psicologico del trauma permette al cinema di Dabis di superare la mera cronaca degli eventi per addentrarsi nelle complesse dinamiche di sopravvivenza e adattamento di un popolo.
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- Non sono convinto, il film rischia di essere troppo unilaterale... 😕...
- Interessante l'analisi del trauma intergenerazionale, ma è giusto focalizzarsi solo su questo aspetto?... 🤔...
Memoria, identità e l’esperienza personale della regista
Il lungometraggio di Cherien Dabis è profondamente radicato nella sua esperienza personale e familiare, rendendolo un’opera altamente biografica seppur universale nel suo messaggio. La maggiore fonte di ispirazione è stata la figura di suo padre, al quale “non è mai stato permesso di tornare nell’unica casa che avesse mai conosciuto” se non dopo dieci anni e ottenendo la cittadinanza straniera. Questa sofferenza paterna è il cuore pulsante del film, anche se Dabis sottolinea che la tematica è talmente trasversale che “sarebbe difficile trovare un palestinese che non si riconosce in questa storia”.
Un episodio particolarmente significativo e traumatico, risalente all’età di otto anni, è stato inserito nel film: un blocco al confine tra la Giordania e la Cisgiordania durato dodici ore, marcato da perquisizioni umilianti e urla dei soldati, durante il quale ha percepito l’assoluta vulnerabilità dei suoi genitori. Questo evento le ha fatto comprendere per la prima volta il vero significato dell’essere palestinese e l’incapacità dei genitori di proteggere i propri figli.
Resilienza e la forza dell’umanità come atto di resistenza
Di fronte al genocidio in corso, come descritto dalla regista stessa, l’interrogativo sulla speranza si fa pressante. Cherien Dabis non nasconde la difficoltà di parlare di speranza in un contesto di brutale violenza e impotenza collettiva, tuttavia evidenzia un punto fermo: la necessità umana di speranza per sopravvivere. È proprio in questa speranza che risiede la resilienza del popolo palestinese, alimentata dall’umanità e dalla crescente consapevolezza globale. La regista cita una potente frase pronunciata da un imam nel film: “Anche la tua umanità è resistenza, è la sola cosa che nessuno può portarti via”. Questa affermazione racchiude il messaggio più profondo del film e della visione di Dabis: in un mondo dove la politica sembra fallire, l’umanità diventa l’ultima risorsa e l’unica fonte di speranza.
La forza dello spirito umano, la capacità di mantenere la propria dignità e la propria identità culturale anche sotto attacco, rappresentano la vera vittoria. Sul piano della psicologia del trauma, il lavoro di Dabis richiama i concetti di “traumatic bonding” e “memoria collettiva”. Il trauma non è solo un evento singolo, ma un processo complesso che si inscrive nella psiche individuale e collettiva, condizionando le relazioni e la percezione del mondo.
La narrazione, quindi, non è solo una forma d’arte, ma un vero e proprio atto terapeutico e politico, capace di sfidare l’oblio e di affermare la persistenza di un popolo e della sua cultura. In un’ottica di psicologia cognitiva, il cosiddetto “re-framing” del trauma attraverso la narrazione può trasformare la percezione della vittimizzazione in un’affermazione di sopravvivenza e di forza.
- Traumatic bonding: connessione emotivamente intensa tra il traumizzato e il traumatizzante, spesso vista nelle relazioni abusanti.
- Memoria collettiva: il fenomeno attraverso il quale ricordi, esperienze e identità condivise vengono tramandati tra generazioni.
La riflessione che questo film ci offre è quanto sia cruciale riconoscere e valorizzare l’umanità in ogni individuo, specialmente in contesti di estrema sofferenza. Ricordiamoci che la capacità di empatizzare e di ascoltare le storie degli altri non è solo una virtù personale, ma un atto fondamentale per la costruzione di una società più giusta e compassionevole, dove la speranza e l’umanità possano sempre trionfare sulle tenebre del conflitto.