- Nel 2016 la nfl ha ufficialmente riconosciuto la connessione tra lesioni e patologie psichiatriche.
- Studio di boston: 110 su 111 cervelli di ex giocatori nfl avevano cte.
- Nel rugby il 68% dei cervelli donati presentava la patologia.
L’ombra della CTE: un killer silenzioso negli sport di contatto
La recente e tragica vicenda avvenuta a Manhattan, con il caso di Shane Devon Tamura, ex giocatore di football americano di 27 anni, ha riacceso un faro di attenzione mediatica e scientifica sulla correlazione tra traumi cranici ripetuti negli sport di contatto e l’insorgenza di gravi patologie neurodegenerative e problemi di salute mentale. Tamura, responsabile di una sparatoria in un grattacielo a Park Avenue che ha causato cinque vittime, incluso il killer stesso, ha lasciato un biglietto d’addio in cui affermava di soffrire di encefalopatia traumatica cronica (CTE) e chiedeva che il suo cervello venisse analizzato. Questo evento, pur nella sua drammaticità, ha riportato in primo piano un dibattito che da anni impegna la comunità scientifica, in particolare negli Stati Uniti, riguardante i rischi a lungo termine per gli atleti che partecipano a discipline ad alto impatto.

La CTE, nota in passato come “demenza pugilistica” per la sua iniziale identificazione in atleti di boxe negli anni ’20, è una sindrome progressiva del cervello causata da una serie di commozioni cerebrali e colpi ripetuti alla testa. Come evidenziato dalle ricerche scientifiche in materia, la formulazione di una diagnosi definitiva per tale patologia è possibile esclusivamente dopo il decesso mediante l’analisi autoptica del tessuto cerebrale. Le manifestazioni cliniche sono frequentemente subdole e si sviluppano in modo graduale; esse comprendono un vasto raggio di disturbi quali problemi di concentrazione, demenza avanzata, confusione spaziale-temporale, deficit mnemonici significativi, stati depressivi marcati, difficoltà espressive e mutamenti rilevanti nella sfera della personalità.
Il dibattito accademico ha riguardato a lungo la relazione tra queste lesioni neurologiche e le patologie psichiatriche. È stato solo nel 2016 che la National Football League (NFL) ha riconosciuto ufficialmente tale connessione. Studi approfonditi hanno messo in luce come atleti – inclusi quelli non professionisti – praticanti sport caratterizzati da impatti elevati quali il football americano, la boxe, il rugby, l’hockey su ghiaccio e addirittura il calcio risultino essere maggiore soggetti alla CTE. Inoltre, uno studio pubblicato su “Archives of Clinical Neuropsychology” ha dimostrato che ex giocatori della NFL con episodi pregressi di commozione cerebrale mostrano performance cognitive inferiori anche decenni dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Recenti ricerche hanno svelato che le lesioni craniche multiple subite dagli atleti possono causare una perdita significativa di neuroni, accompagnata da infiammazione cerebrale, anche in età giovanile, anticipando l’insorgere della CTE. Questi dati sottolineano l’urgenza di sviluppare misure preventive più efficaci nei confronti degli sport di contatto, prospettando innovazioni nel campo delle diagnosi e delle terapie. [Nature]. La dottoressa Vanessa Raymont dell’Università di Oxford ha sintetizzato questa preoccupazione affermando che “più volte fai male al tuo cervello nel corso della vita, peggiore potrebbero essere le tue funzioni cerebrali con l’avanzare dell’età”. La progressione dei sintomi della CTE può essere particolarmente grave, con cambiamenti d’umore e irritabilità che possono iniziare tra i 30 e i 40 anni e l’insorgenza di demenza in età più avanzata.
Il caso di Tamura non è isolato. Studi condotti dall’Università di Boston su oltre 111 cervelli di ex giocatori professionisti di football americano hanno rilevato che ben 110 di essi mostravano segni evidenti di CTE. Risultati analoghi sono emersi nel pugilato, con un declino cognitivo accelerato e problemi di memoria e attenzione, e nel rugby, dove il 68% dei cervelli donati da ex atleti, professionisti e dilettanti, presentava la patologia, con un aumento del rischio del 14% per ogni anno di carriera aggiuntivo.
Sport | Percentuale di CTE | Numero di studiate |
---|---|---|
Football Americano | 60% | 92 |
Hockey su Ghiaccio | 37.5% | 16 |
Calcio | 17% | 23 |
Rugby | 15% | 15 |
Questi dati sottolineano una problematica sistemica che non può essere trascurata e richiedono un’attenta valutazione dei rischi associati alla pratica di questi sport, in particolare con un focus sugli impatti ripetuti alla testa.

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L’impatto sul cervello in sviluppo e le misure preventive
La questione dei traumi cranici negli sport di contatto assume una dimensione particolarmente critica quando si parla di giovani atleti, il cui cervello è ancora in piena fase di sviluppo. Uno studio pubblicato su “Neurobiology of Disease” ha monitorato per un anno 16 adolescenti (dai 15 ai 17 anni) che praticavano football americano, rivelando l’insorgenza di alterazioni microscopiche della sostanza grigia cerebrale, in particolare nelle aree frontali e occipitali, nonostante l’uso di caschi protettivi. Chunlei Liu, neuroscienziato della UC Berkeley, ha evidenziato che “anche colpi apparentemente innocui, ripetuti nel tempo, possono determinare cambiamenti nella struttura cerebrale, specialmente in un’età in cui il cervello è ancora in pieno sviluppo”. Sebbene non sia ancora chiaro se queste alterazioni siano reversibili, la cautela è d’obbligo, e i ricercatori esortano a monitorare costantemente lo stato cognitivo degli adolescenti impegnati negli sport di contatto. Il mondo del calcio presenta anch’esso insidie legate alla salute dei propri atleti, pur non manifestandosi con la stessa intensità della violenza in altri sport. In un’indagine condotta dall’“University College di Londra”, si è scoperto che quattro calciatori su sei esaminati post-mortem avevano evidenze di CTE insieme a segni riconducibili all’Alzheimer. Analogamente, una ricerca apparsa sulla rivista “Acta Neuropathologica” nel 2017, analizzando un campione di quattordici ex giocatori affetti da demenza, aveva già messo in luce come molti fossero portatori di specifici marcatori caratteristici della patologia neurologica in questione. Nel corso dell’anno corrente (2023), sono state divulgate due indagini al cospetto della “Società Radiologica del Nord America”, aumentando ulteriormente il fondamento scientifico relativo a questa correlazione: la prima degli studi menzionati ha monitorato per due anni circa centocinquantaquattro giocatori dilettanti; i risultati hanno dimostrato che coloro i quali si erano impegnati oltre il limite dei milleseicento colpi di testa mostravano notevoli mutamenti cerebrali e problemi nella capacità d’apprendimento verbale; la seconda ricerca, riguardante trecentocinquantatre sportivi, infine ha messo in risalto delle variazioni significative tra la materia grigia e quella bianca – indicatori frequentemente associabili ad affezioni neurodegenerative conclamate. Contemporaneamente vi è stato un studio proveniente dalla Svezia, pubblicizzato sulla prestigiosa rivista scientifica “The Lancet Public Health” quest’anno stesso, per comparare dati sull’argomento. 007 calciatori professionisti sono stati analizzati rispetto a un gruppo campione composto da 56.168 individui della popolazione generale; lo studio ha messo in luce un’incidenza significativamente maggiore dell’Alzheimer tra questi atleti. A seguito delle risultanze emerse da tali analisi, la Scozia si è distinta fin dal 2020 nell’introduzione del divieto dei colpi di testa nel calcio per le categorie giovanili sotto ai dodici anni; un passo decisivo teso alla salvaguardia dalla possibile insorgenza di infortuni cranici permanenti. L’approccio preventivo e l’attuazione scrupolosa dei protocolli protettivi devono considerarsi elementi essenziali nella tutela della salute degli sportivi. Questo si traduce nella necessità che gli sportivi professionisti adottino innovativi dispositivi protettivi come caschi all’avanguardia insieme al Q-Collar e avanzati sensori in grado di individuare eventuali urti subiti. Altrettanto fondamentale è promuovere strategiche metodologie operative destinate ad abbattere il numero delle collisioni ad alto rischio, affiancate da programmi formativi continui dedicati non solo agli allenatori ma anche al personale sanitario coinvolto. In ogni disciplina sportiva e su ogni gradino competitivo esiste un’urgenza didattica sui potenziali rischi associati all’attività fisica intensiva: porre attenzione sulla corretta gestione dei traumi cranici riveste un’importanza primaria nella salvaguardia della funzionalità cognitiva futura. L’CERVELLO, un’entità di incredibile complessità, presenta tuttavia una certa vulnerabilità e pertanto necessita di una protezione prioritaria. Questo aspetto è particolarmente rilevante nell’età evolutiva.
Protocolli di sicurezza e l’emergere di nuove minacce sportive
La recente casistica di infortuni nell’hockey su ghiaccio giovanile negli Stati Uniti, evidenziata da uno studio del Mount Sinai Hospital di New York pubblicato sulla rivista “Injury,” pone l’accento sulla necessità di un’analisi approfondita dei protocolli di sicurezza e della loro evoluzione. Dopo la pandemia di Covid-19, i pronto soccorsi americani hanno registrato un aumento preoccupante di traumi gravi tra i giocatori under 18, con una crescita dei traumi a testa e spalle e delle fratture, soprattutto agli arti superiori. Questo fenomeno ha portato a un incremento dei ricoveri ospedalieri, indicando una maggiore gravità degli infortuni.
La problematicità si estende anche a nuove discipline sportive, come il Runit, un “nuovo sport di contatto” nato in Australia e in fase di diffusione globale, che è soggetto a forti critiche da parte della comunità medica. Medici e specialisti hanno messo in guardia contro l’elevato rischio di lesioni gravi, data la natura di collisione diretta tra due atleti in piena corsa. Questa situazione mette in luce come anche il mondo dello sport estremo possa rivelarsi particolarmente pericoloso; essa sottolinea quindi la necessità continua di rivedere e modernizzare i protocolli legati alla sicurezza, non limitandosi alle attività tradizionali ma aprendo uno sguardo verso le nuove pratiche emergenti.
Un esempio emblematico della fragilità dei praticanti è quello che coinvolge Cyprien Sarrazin: membro dell’élite sciistica francese. Dopo aver subito un incidente drammatico sulle nevi bormine a dicembre del 2024—dove si è procurato un serio danno cerebrale accompagnato da ematoma intracranico acuto—si sono rese necessarie misure chirurgiche immediate. Il Dottor Stéphane Bulle del team francese menziona come l’atleta sia attualmente sotto osservazione: sebbene le sue condizioni siano soddisfacenti, mostra segni persistenti di affaticamento e presenta difficoltà comunicative; il percorso verso il completo recupero sarà lungo diversi mesi. Avendo già sofferto nel 2018 un grave incidente cranico insieme ad altri traumi precedentemente esperiti nel suo itinerario professionale, sul futuro ritorno alle competizioni agguerrite rimane alto il livello d’incertezza riguardo all’effettiva capacità di continuare nell’agonismo senza rischi ulteriori. Questa circostanza mette in luce quanto sia cruciale effettuare un’attenta analisi degli infortuni subiti, utilizzare idonei dispositivi protettivi e rispettare rigorosamente i protocolli necessari al recupero. Riflettendo su quanto sopra esposto, appare evidente come i dati esistenti rivelino una correlazione inequivocabile tra colpi ripetuti alla testa e un ventaglio ampio di gravissime problematiche neurodegenerative oltre che disturbi mentali. Pur continuando le indagini scientifiche per delineare appieno tali rapporti causali, le evidenze finora raccolte si dimostrano inequivocabili: è fondamentale adottare approcci prudenti ed essere sempre consapevoli. Gli sport da contatto offrono senza dubbio opportunità significative per lo sviluppo personale e il benessere complessivo; tuttavia necessitano dell’applicazione rigorosa di normative destinate a tutelare la salute del cervello degli atleti indipendentemente dall’età o dal livello competitivo.
Cervello: resilienza, vulnerabilità e l’imperativo della consapevolezza
La struttura cerebrale umana rappresenta una meravigliosa architettura biologica caratterizzata da doti straordinarie: riesce infatti ad adattarsi ed elaborare informazioni con efficienza; tuttavia presenta anche fragilità significative quando sottoposta a ripetuti eventi traumatici. La vicenda drammatica relativa a Shane Devon Tamura offre lo spunto per approfondire i profondi legami esistenti fra l’integrità fisica e la salute mentale, soprattutto nelle circostanze in cui il corpo viene sottoposto a continui stress fisici. Secondo i principi fondamentali della psicologia cognitiva e comportamentale, possiamo affermare che il cervello non riveste caratteristiche statiche bensì appare come un’entità dinamicamente interconnessa capace d’apprendere, evolversi ed adattarsi sulla scorta delle esperienze vissute. Un impatto traumatico a livello cranico ha la potenzialità di sconvolgere tale rete neuronale incorrendo nel rischio d’intaccare diverse funzionalità essenziali quali motricità, mnemoniche o meccanismi emotivi così come nella facoltà decisionale—elementi cardine per definire chi siamo insieme al nostro equilibrio psichico.
Le concussioni multiple subite negli sport di contatto tendono a creare un effetto progressivo cumulativo, compromettendo radicalmente l’adattabilità sia dal punto di vista cognitivo sia sotto l’aspetto comportamentale. A un livello più avanzato, la psicologia cognitiva e la neuropsicologia ci parlano di plasticità cerebrale e di riserva cognitiva. La plasticità è la capacità del cervello di riorganizzarsi e compensare i danni; la riserva cognitiva si riferisce alla “riscorta” di capacità che un individuo accumula attraverso l’istruzione, l’attività mentale stimolante e uno stile di vita sano, elementi che possono ritardare o mitigare l’espressione clinica di danni neurologici. Tuttavia, anche la più robusta riserva cognitiva può essere erosa da traumi persistenti, come quelli che portano alla CTE, dove l’accumulo della proteina tau altera irreversibilmente le vie neuronali. Questo tipo di danno non solo compromette le funzioni esecutive (pianificazione, problem solving, controllo degli impulsi), ma può anche esacerbare o innescare disturbi dell’umore come depressione o ansia, e alterazioni del comportamento che possono culminare in decisioni irrazionali o aggressive.
La vulnerabilità del cervello in sviluppo negli adolescenti è ancora più marcata, data la continua mielinizzazione delle regioni corticali e la maturazione delle connessioni interneuronali, rendendo i protocolli di sicurezza negli sport giovanili non solo consigliabili, ma imperativi. La riflessione personale che scaturisce da queste osservazioni è chiara: la consapevolezza sui rischi e l’adozione di misure preventive non sono un ostacolo allo spirito sportivo o alla ricerca di nuove sfide, ma piuttosto un atto di responsabilità, verso se stessi e verso gli altri. Siamo chiamati a riconsiderare il significato di “integrità” e “benessere” nello sport, estendendolo ben oltre la mera performance fisica. Non si tratta di demonizzare l’attività sportiva, che rimane un pilastro per la salute, ma di esigerne una pratica che rispetti la complessità e la fragilità del nostro organo più vitale. Il coraggio di affrontare una sfida sportiva dovrebbe sempre essere bilanciato dalla saggezza di proteggere il proprio capitale mentale, un bene inestimabile che, una volta compromesso, può avere ripercussioni profonde e durature sulla nostra intera esistenza. Che sia sul campo o nella vita, la preservazione dell’equilibrio cerebrale è, in fondo, la base di ogni vera vittoria.
- CTE (Encefalopatia Traumatica Cronica): Malattia neurodegenerativa causata da traumi cranici ripetuti, spesso associata a sintomi cognitivi e comportamentali.
- NFL (National Football League): Lega professionistica di football americano negli Stati Uniti.
- Microglia: Cellule immunitarie del cervello attivate in risposta a lesioni cerebrali.