- Dal conflitto, 54 soldati israeliani si sono tolti la vita.
- Il 43% dei 12.000 soldati in riabilitazione soffre di PTSD.
- Previsti 14.000 soldati feriti nel 2024, il 40% con disturbi mentali.
Un aspetto inquietante si configura attorno alla questione della guerra a Gaza, evidenziando un significativo incremento nei casi di disturbo post-traumatico riscontrato nei soldati dell’esercito israeliano. I membri delle forze armate, dopo aver affrontato situazioni ad alto rischio e profondamente traumatiche, sono frequentemente afflitti da conseguenze psicologiche durevoli. Questi sintomi rappresentano una dimensione silenziosa e spesso trascurata del conflitto, richiedendo urgentemente attenzione sia medica che sociale.
Il conflitto in corso nella Striscia di Gaza, iniziato nell’ottobre 2023, ha scatenato un’ondata di problematiche psicologiche senza precedenti tra le forze armate israeliane, evidenziando una crisi di salute mentale la cui reale portata sta emergendo solo ora. I dati più recenti rivelano un quadro allarmante, con migliaia di soldati che necessitano di trattamenti riabilitativi e un numero crescente di suicidi che getta una luce sinistra sul costo umano di questa guerra prolungata.
Sin dall’avvio delle operazioni belliche sul terreno israelo-palestinese è stato evidente un significativo aumento nella domanda di servizi psichiatrici elaborato dal Ministero della Difesa locale. Attualmente si stima che siano stati diretti verso il Dipartimento dedicato alla Riabilitazione almeno dodicimila soldati; fra questi ultimi emerge prepotentemente una porzione – parliamo approssimativamente del 43% – afflitta da disturbi riconducibili al Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), superando quindi cinquemila unità. Inoltre, una fascia importante dei reduci – pari al 14% – riporta danni fisici gravi o moderati: tra loro risultano ben ventitré episodi documentabili per gravi lesioni craniche, sessanta amputazioni e infine dodici persone colpite da cecità permanente. Il fatto indicativo è rappresentato dal dato secondo cui il 66% dei soldati sottoposti a riabilitazione è composto da riservisti; tali individui vengono frequentemente richiamati alle armi con brevi notifiche e possiedono un insieme variegato di esperienze civili tale da rendere ancor più arduo l’adattamento ai traumi causati dal conflitto.
Le prospettive a lungo termine destano uguale apprensione: alla conclusione dell’2024, è atteso che circa 14.000 soldati feriti riceveranno assistenza medica e sorprendentemente, il 40% di loro potrà sperimentare disturbi della sfera mentale. Queste valutazioni continuano fino all’2030, con una previsione pessimistica per oltre 100.000 soldati bisognosi d’interventi riabilitativi—quantità nella quale più della metà avrà bisogno del trattamento mirato per il PTSD. Tali cifre rivelano non solo gravi disagi personali ma anche una crisi nazionale che mette a dura prova la capacità collettiva dell’intera popolazione.
In aggiunta ai nuovi casi emergenti ci sono attualmente circa 62.000 veterani impegnati nel percorso riabilitativo a causa delle lesioni subite in guerre passate; ciò evidenzia chiaramente la persistenza cronica delle suddette difficoltà nell’ambito israeliano.
La gravità della situazione è stata confermata anche da fonti non ufficiali, con un ex-comandante del Corpo settentrionale che ha rivelato la perdita di oltre 800 soldati, circa 12.000 feriti e migliaia che hanno subito uno shock dall’inizio della guerra. Non meno significativo è il fatto che almeno 1.500 soldati siano stati feriti due volte, dimostrando la pressione incessante a cui sono sottoposti.
Un medico delle forze armate ha anonimamente dichiarato che molti soldati non si fidano più del governo, una circostanza che rende ulteriormente difficile l’identificazione e il trattamento dei disturbi. Il quotidiano israeliano Haaretz ha riportato dieci suicidi tra il 7 ottobre e l’11 maggio, con un aumento complessivo del numero di suicidi che, secondo alcune fonti, ha raggiunto le 54 unità dall’inizio del conflitto. Questo dato evidenzia la profonda disperazione che può seguire l’esposizione al trauma bellico, aggravata dal senso di isolamento e dalla difficoltà di elaborare le esperienze vissute.
Un recente rapporto ha sottolineato come il 35% dei nuovi soldati allontanati dal fronte per cure si lamenti del proprio stato mentale, e il 27% manifesti una “reazione mentale o un disturbo da stress post-traumatico”, dati che confermano l’ampio spettro delle difficoltà psicologiche affrontate.

Strategie terapeutiche e sfide specifiche nel contesto israeliano
Di fronte a questa emergenza, il sistema sanitario israeliano sta implementando diverse strategie terapeutiche per affrontare il PTSD e altri disturbi mentali. Tra le metodologie più promettenti e ampiamente adottate vi è la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), in particolare quella centrata sul trauma, che mira a modificare i pensieri e i comportamenti disfunzionali associati all’esperienza traumatica. Un’altra terapia di provata efficacia è l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), che lavora sulla desensibilizzazione e la rielaborazione attraverso i movimenti oculari, facilitando l’integrazione delle memorie traumatiche e riducendo l’impatto emotivo degli eventi passati.
Allo stesso tempo, però, emerge uno scenario peculiare nel contesto israelo-palestinese dove le complicazioni relative alla gestione del disturbo post-traumatico da stress risultano amplificate dalle peculiarità sociali locali. La tensione sociopolitica esercita una pressione considerevole; nella società fortemente militarizzata d’Israele c’è una palpabile aspettativa verso la dimostrazione costante sia delle forze fisiche sia delle capacità resiliente da parte dei soldati stessi; ciò può ostacolare notevolmente la loro propensione ad accettare fragilità personali o a invocare supporto professionale.
Il carico psico-emotivo derivante da questo periodo operativo ha raggiunto livelli elevatissimi: non è raro assistere a situazioni in cui i soldati sono obbligati a prolungare le loro attività fino a toccare punte massime di dodici ore giornaliere. [Euronews]. La progressiva compromissione della salute mentale si traduce in un incremento delle conflittualità interne alle forze armate, rendendo ancor più complesso il processo di reclutamento e la retention degli uomini e delle donne in servizio.
Una ricerca condotta nell’ambito militare ha rivelato che alcuni membri del personale hanno presentato atteggiamenti autolesionistici quale espressione del forte stress accumulato.[CNN]. La complessità del trauma è aumentata dalla natura stessa delle esperienze vissute, con alcuni soldati che hanno dichiarato di essere stati testimoni di “orrori che il mondo esterno non potrà mai capire veramente”, indicando la necessità di approcci terapeutici altamente personalizzati e sensibili alla specificità delle loro esperienze.
Affrontare queste sfide richiede non solo investimenti in risorse umane e materiali per il sistema sanitario, ma anche una profonda revisione culturale che promuova la consapevolezza e riduca lo stigma legato alla salute mentale, incoraggiando i soldati a cercare il supporto di cui hanno bisogno senza timore di ripercussioni.
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L’impatto a lungo termine e le implicazioni sociali
L’aumento esponenziale dei casi accertati di PTSD insieme ai tassi elevatissimi dei suicidi tra i militari israeliani rappresenta una problematica ben più ampia rispetto alla mera dimensione della salute individuale; si manifestano invece notevoli sconvolgimenti sociali ed economici, che interessano l’intera nazione. Nel lungo periodo, il perdurante stato psicologico compromesso degli ex combattenti può dar vita a gravi complicazioni come disoccupazione endemica, senzatetto permanenti, dipendenze da sostanze stupefacenti e famiglie sfasciate.
Il Ministero della Difesa israeliano, attraverso il suo Dipartimento dedicato alla Riabilitazione, si trova attualmente ad affrontare la gestione integrata delle necessità sanitarie pubbliche per decine e decine di migliaia di ex soldati reduci da passate contese militari; secondo stime attendibili emerge anche la previsione inquietante circa un possibile incremento di ulteriori 100.000 soldati bisognosi d’assistenza psichica entro il 2030, una metà determinata ad affrontare condizioni traumatiche legate al loro servizio, che avrà inevitabili ripercussioni sui servizi assistenziali statali.
Le difficoltà riscontrabili richiamano immediatamente all’attenzione anche l’aspetto finanziario: vi è infatti generato un carico non indifferente costituito dai costi direttamente associabili –a terapie mediche, psicologiche e programmi riabilitativi – assieme ai costi indiretti correlabili alla diminuzione della capacità produttiva collettiva rispetto al lavoro e all’aumento dell’assistenza sociale.
Al netto degli aspetti puramente economici, tuttavia, rintracciamo senza dubbio anche uno strascico umano dal valore inconcepibile. Il fenomeno dei suicidi, con un bilancio che, secondo alcune fonti, ha raggiunto i 54 soldati dall’inizio del conflitto, evidenzia una tragedia che va oltre le statistiche. Ogni suicidio rappresenta una vita persa e un trauma per le famiglie e le comunità coinvolte, come nel caso di Eliran Mizrahi, un riservista di quarant’anni che si è tolto la vita dopo aver lottato con il PTSD.
La sua storia, come quella di altri, rivela come “Gaza non sia mai uscita da lui”, evidenziando la persistenza del trauma anche a distanza dal fronte. Prime testimonianze di soldati che hanno combattuto a Gaza parlano di aver visto “orrori che il mondo esterno non potrà mai capire veramente”, sottolineando l’intensità delle esperienze vissute e la necessità di un supporto psicologico adeguato e duraturo.
La rivelazione che più di un terzo dei soldati allontanati dal combattimento soffre di problemi di salute mentale, con una percentuale consistente che lamenta “reazioni mentali o disturbi da stress post-traumatico”, conferma l’entità del problema. La società israeliana dovrà affrontare la sfida di integrare questi reduci, fornendo loro gli strumenti e il supporto necessari per superare il trauma e ricostruire le proprie vite.
Ciò richiederà un impegno collettivo, che vada oltre i servizi di riabilitazione militari, includendo campagne di sensibilizzazione, programmi di supporto comunitario e politiche che favoriscano il reinserimento lavorativo e sociale dei veterani. Sebbene le autorità non forniscano cifre ufficiali sui suicidi e assicurino che il tasso sia “stabile”, il crescente allarme in merito suggerisce una realtà ben più complessa.
In questo contesto, è fondamentale che il dialogo sulla salute mentale dei soldati non venga silenziato, ma che diventi una priorità nazionale.
Il disturbo post-traumatico da stress: una prospettiva psicologica e sociale
Il Disturbo da Stress Post-Traumatico, o PTSD, è una condizione complessa che si manifesta a seguito dell’esposizione a eventi traumatici, che la psicologia cognitiva definisce come esperienze che minacciano la vita o l’integrità fisica e psicologica di un individuo o di altri. Nel contesto bellico, i soldati sono esposti a traumi ripetuti e prolungati, che possono alterare profondamente la loro percezione del mondo e di sé stessi.
A livello basilare, il cervello di una persona traumatizzata può rimanere “bloccato” in una modalità di “lotta, fuga o congelamento”, anche quando il pericolo è cessato. Questo persistente stato di allerta iperattiva, accompagnato da flashback intrusivi, incubi e forte ansia, è una manifestazione diretta di come l’evento traumatico abbia riorganizzato le reti neurali e le risposte emotive.
È cruciale comprendere che il trauma non è solo un ricordo, ma una riattivazione fisiologica e psicologica costante dell’evento terrificante. Approfondendo una nozione più avanzata, la psicologia comportamentale ci insegna che il PTSD può essere compreso anche attraverso il concetto di condizionamento della paura. Un trauma può trasformare stimoli precedentemente innocui – come suoni inattesi, profumi specifici o certi luoghi – in fattori scatenanti capaci di evocare intense reazioni di paura e ansia.
Il meccanismo alla base è fortemente influenzato dall’amigdala insieme alla disregolazione della corteccia prefrontale: ciò complica notevolmente la capacità dell’individuo di discernere tra minacce reali e immaginarie. Questo processo conduce spesso a comportamenti evasivi nei confronti di luoghi, individui o pensieri connessi al trauma. Sebbene tali strategie possano sembrare difensive temporaneamente efficaci, esse perpetuano cicli dannosi associati al PTSD nel lungo periodo. È qui che entra in gioco la terapia cognitivo-comportamentale: essa si propone appunto di spezzare queste associazioni negative mentre ristruttura modelli cognitivi distorti affinché il soldato possa affrontare gli effetti del trauma ed esercitare nuovamente controllo sulle proprie emozioni.
Nel contemplare questa tematica personale appare fondamentale riconoscere come i soldati tornati dalla guerra non trasportino soltanto ferite fisiche ma anche una pesante eredità psicologica derivante dalle esperienze drammatiche cui hanno assistito. La loro esperienza, spesso indicibile, li colloca in una posizione unica di sofferenza. Ciò ci invita a riflettere sulla responsabilità collettiva che abbiamo nel supportare questi individui. Non si tratta semplicemente di “curare” una malattia, ma di riconoscere l’immenso sacrificio e di fornire un ambiente in cui possano sentirsi al sicuro, compresi e valorizzati. Il reintegro di questi reduci nella società non è un gesto di carità, ma un imperativo etico e sociale, che ci impone di andare oltre l’indifferenza e di investire nella loro salute mentale con la stessa dedizione con cui investiamo nella loro formazione militare.
- Glossario:
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- PTSD: Disturbo da stress post-traumatico, una condizione mentale che può svilupparsi dopo aver vissuto esperienze traumatiche.
- CBT: Terapia cognitivo-comportamentale, terapia psicologica per modificare pensieri e comportamenti disfunzionali.
- EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing, una terapia che usa movimenti oculari per rielaborare memorie traumatiche.