- Oltre 50mila bambini a Gaza morti o feriti a causa dei bombardamenti.
- Il 40% dei giovani a Gaza soffre di disturbi dell'umore.
- Il 90% dei giovani a Gaza manifesta problemi legati allo stress.
Nel contesto di Gaza, dove il conflitto è una realtà quotidiana e ininterrotta, il trauma non è un evento post-traumatico bensì una condizione cronicamente presente, un assedio psicologico implacabile che si ripercuote sulla vita di milioni di individui. Gli studi recenti, focalizzati su popolazioni esposte a violenze prolungate, come i rifugiati siriani, hanno rivelato che le situazioni di forte stress e violenza, tipiche di un ambiente di guerra costante, imprimono un’etichetta molecolare sul DNA delle persone colpite. Questa alterazione genetica, sebbene non modifichi la sequenza del DNA stesso, influenza profondamente l’espressione genica e, cosa ancora più sorprendente, sembra essere trasmessa alle generazioni successive. Questa scoperta apre nuove frontiere nella comprensione del trauma, estendendone l’impatto ben oltre l’individuo direttamente esposto, fino ai figli e persino ai nipoti.
La Striscia di Gaza, in particolare negli ultimi 15 anni dal blocco imposto nel 2007, è un esempio emblematico di come la violenza diretta (bombardamenti e assalti militari) e la violenza indiretta (un assedio soffocante che limita la libertà di movimento e l’accesso a beni e servizi essenziali come cibo, elettricità, assistenza sanitaria e acqua potabile) abbiano devastato la salute mentale della popolazione, specialmente tra i bambini e i giovani. Le statistiche sono allarmanti: secondo Medici Senza Frontiere, il 40% dei giovani di Gaza soffre di disturbi dell’umore, il 60-70% di disturbo da stress post-traumatico (PTSD), e il 90% manifesta altri problemi legati allo stress. Si registra anche un preoccupante aumento dei tentativi di suicidio. Più di 1 milione di bambini, che rappresentano il 47,3% della popolazione, sono intrappolati in una realtà di “carcere a cielo aperto,” avendo vissuto diverse guerre e situazioni di estrema violenza.
Il rapporto di Save the Children del 2024, intitolato “Trapped”, ha evidenziato un incremento significativo nei bambini che si sentono spaventati (84% rispetto al 50% nel 2018), nervosi (80% rispetto al 55%), tristi o depressi (77% rispetto al 62%) e in lutto (78% rispetto al 55%). Inoltre, oltre la metà dei bambini di Gaza ha considerato il suicidio e tre su cinque presentano comportamenti autolesionistici. Per un quattordicenne di Gaza, la vita si è svolta all’ombra di cinque guerre e migliaia di vite perse, con un’esposizione alla violenza così intensa da lasciare segni traumatici a lungo termine. Un rapporto di Euro-Med Human Rights Monitor ha rivelato che nove bambini su dieci soffrono di una qualche forma di disturbo post-traumatico da stress legato al conflitto, sebbene a Gaza il trauma sia più propriamente definito “cronico e inarrestabile” piuttosto che “post-traumatico,” dato il suo carattere costante e ripetitivo.
L’epigenetica del trauma: meccanismi di trasmissione
L’epigenetica è un campo innovativo all’interno della biologia dedicato all’analisi dell’influenza esercitata dai fattori ambientali – tra cui esperienze traumatiche – sull’espressione genica senza compromettere la sequenza del DNA. Ciò implica che, nonostante rimanga invariato il codice genetico stesso, esistono variabili epigenetiche quali la metilazione del DNA insieme alle modificazioni degli istoni che possono variare significativamente durante lo sviluppo. Questi aggiustamenti hanno un impatto diretto sull’attività trascrizionale dei geni stessi ed influiscono sui livelli di ormoni e neurotrasmettitori legati principalmente alla reazione allo stress; uno di questi è sicuramente il cortisolo.
Ricerche approfondite in questo settore evidenziano come traumi psicologici possano causare modifiche epigenetiche con conseguenze sia immediate che durevoli sul funzionamento neuronale, oltre a incidere sulla plasticità cerebrale così come sugli adattamenti comportamentali rispetto allo stress. Prendendo ad esempio il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), si osserva chiaramente che le variazioni nella metilazione del DNA possano intrecciarsi in modi complessi sia con la predisposizione genetica individuale sia con l’esposizione diretta agli eventi traumatici. L’interdipendenza tra queste variabili incide sull’espressione genica relativa alla reazione agli eventi stressanti, al funzionamento dei neurotrasmettitori e alla modulazione immunitaria; esse giocano un ruolo determinante nel conferire vulnerabilità o resilienza all’individuo.
Un elemento chiave riguarda il periodo temporale dell’esperienza traumatica rispetto ai mutamenti epigenetici implicati nello sviluppo del PTSD. Traumi occorsi durante le prime fasi della vita risultano associati a alterazioni epigenetiche permanenti. Indagini effettuate su modelli animali evidenziano come lo stress possa attivare variazioni ereditabili nella metilazione del DNA: un esempio emblematico sono i topi sottoposti a stimolazioni condizionate da paura; questi animali hanno procreato discendenti i quali, sebbene privi di contatto diretto con il trauma originale, manifestavano sintomi d’ansia insieme a ipermetilazione in uno specifico gene olfattivo. Analogamente, episodi ricorrenti e imprevedibili di separazione materna in soggetti murini si traducono in comportamenti depressivi riscontrabili non soltanto nella generazione originaria ma anche nelle successive annate filiali. Tali scoperte suggeriscono l’esistenza di una reale memoria biologica, capace d’incidere profondamente sul nostro epigenoma attraverso le esperienze accumulate nel corso della vita.
La trasmissione intergenerazionale del trauma, concettualizzata inizialmente attraverso l’osservazione di problemi comportamentali e clinici nella prole dei sopravvissuti all’Olocausto, si è evoluta con l’introduzione della ricerca biologica. Studi sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), fondamentale per la gestione dello stress, hanno mostrato come la sua disregolazione possa essere “ereditata”, rendendo la prole più vulnerabile ad ansia, depressione e altre problematiche emotive, anche in assenza di un trauma diretto. È interessante notare come il sesso del genitore e lo stadio di sviluppo al momento dell’esposizione al trauma possano influenzare la natura dei cambiamenti epigenetici e dei loro effetti sulla prole. Per esempio, il PTSD materno è stato associato a livelli di cortisolo più bassi e a una maggiore sensibilità del recettore dei glucocorticoidi (GR) nella prole, mentre il PTSD paterno ha mostrato effetti diversi.
Tuttavia, è cruciale distinguere tra gli effetti del comportamento dei genitori e una vera e propria ereditarietà biologica. Sebbene entrambi possano associarsi a risultati epigenetici, i meccanismi epigenetici sono operativi per tutta la vita e altamente reattivi alle perturbazioni ambientali. Questo implica che i cambiamenti indotti dal trauma non sono necessariamente permanenti e possono essere modificati da interventi mirati. L’estensione dei concetti di trauma e resilienza alla trasmissione intergenerazionale, se da un lato evidenzia una maggiore vulnerabilità, dall’altro suggerisce la possibilità di sviluppare nuove capacità adattative e strategie di intervento per le generazioni future.
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Studi recenti sull’epigenetica del trauma
Nell’ambito della ricerca epigenetica, diversi studi hanno dimostrato come i traumi vissuti dai genitori possano influenzare l’espressione genica dei loro figli. Un esempio chiave è lo studio sui discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto, che ha rivelato modifiche epigenetiche legate allo stress e alla salute mentale nei loro discendenti.
Interventi e resilienza nel trauma intergenerazionale
La comprensione del trauma intergenerazionale, che vede le esperienze dolorose dei genitori e degli antenati ripercuotersi sui discendenti, invita a un approccio terapeutico che vada oltre il sintomo individuale per affrontare le radici più profonde del malessere. Le teorie sistemiche familiari, ad esempio, introducono il concetto di lealtà invisibili, ovvero legami emotivi impliciti che possono spingere i discendenti a “riparare” traumi non risolti delle generazioni precedenti. Queste lealtà si manifestano in veri e veri “copioni” familiari, portando a ripetere dinamiche disfunzionali e traumi ciclicamente. La “sindrome dell’anniversario,” descritta dalla psicoterapeuta Anne Ancelin Schützenberger, illustra come i traumi familiari possano ripresentarsi in date o fasi specifiche della vita.
All’interno di questo quadro, la prospettiva psicodinamica spiega come ciò che non è stato elaborato dai genitori possa essere trasmesso come eredità psichica. I traumi non risolti, trasformandosi in “fantasmi” o “non-detti”, influenzano profondamente la psiche familiare. I bambini possono assorbire questo “peso invisibile” attraverso segnali non verbali, sviluppando una vulnerabilità che si manifesta in sintomi e difficoltà relazionali, anche in assenza di un trauma diretto. Il concetto di “contenitore” emotivo di Wilfred Bion sottolinea l’importanza di genitori capaci di gestire le proprie emozioni per fornire un ambiente sicuro ai figli. Se questa capacità è compromessa da traumi irrisolti, il bambino è esposto a insicurezza e ansia.
Gaza, come abbiamo visto, è un caso emblematico di trauma cronico, e la resilienza in questo contesto assume un significato profondo, andando ben oltre la semplice sopravvivenza. Programmi come l’arteterapia, “Generation to Generation” e i campi estivi “Trauma to Hope” a Gaza, offrono percorsi per scoprire forza e speranza. Tuttavia, l’attuale sistema di supporto è spesso insufficiente. La salute mentale a Gaza richiede un approccio che vada oltre gli interventi terapeutici “stile occidentale” e abbracci un modello di salute pubblica basato sulla qualità della vita, che riconosca la sofferenza collettiva e la resilienza comunitaria. La maggior parte della popolazione di Gaza, infatti, preferisce discutere i propri problemi con famiglia e amici piuttosto che con professionisti esterni, evidenziando la necessità di interventi culturalmente sensibili.
Interventi attuali per la salute mentale a Gaza
- Supporto psico-sociale fornito da Medici del Mondo.
- Iniziative dell’UNESCO per offrire salute mentale e supporto psicologico ai bambini.
- Attività artistiche per la gestione dello stress e dell’ansia.
Per affrontare efficacemente le ferite intergenerazionali, esistono approcci terapeutici diversificati. L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) si è dimostrato significativo nell’elaborazione di traumi acuti e complessi. La psicoterapia transgenerazionale permette di esplorare le lealtà inconsce e i legami emotivi familiari, mentre la terapia familiare sistemica aiuta a “sciogliere” i nodi di lealtà invisibili e a riscrivere copioni intergenerazionali. Interventi come la Compassion Focused Therapy (CFT) e la Mindfulness relazionale si affermano come validi approcci per sviluppare consapevolezza emotiva, regolare le risposte allo stress e migliorare le relazioni. In particolare, la mindfulness favorisce la “disidentificazione” dai traumi non risolti, coltivando accettazione e consapevolezza.
L’importanza della resilienza emerge non solo come capacità individuale di riadattamento di fronte alle avversità, secondo la definizione dell’American Psychological Association (2020), ma anche come risorsa che può essere trasmessa transgenerazionalmente. Se i vissuti traumatici possono essere ereditati, così può esserlo anche la capacità di fronteggiare e superare il trauma. Questo significa che, nonostante le sfide profonde poste dal trauma intergenerazionale, esiste la possibilità di curare le “ferite invisibili” e di permettere alle nuove generazioni di vivere con maggiore equilibrio e autenticità, libere dal peso del passato.
La plasticità dell’epigenoma e il futuro
La ricerca nel dominio dell’epigenetica sta velocemente chiarendo il modo in cui le esposizioni ambientali possano provocare modifiche persistenti nell’attività del DNA; tali trasformazioni possono talvolta essere ereditarie attraverso le generazioni successive. Questo passaggio ereditario può avvenire tramite varie modalità: una delle più rilevanti consiste nell’impatto delle esperienze precoci vissute dalla progenie durante lo sviluppo embrionale o addirittura prenatale. Tali mutamenti sono frequentemente legati ai segni distintivi di eventuali traumi sofferti dalla madre. Inoltre, un aspetto fondamentale è costituito dall’eredità di traumi vissuti dai genitori prima della concezione; questi eventi influenzano direttamente le cellule germinali e quindi anche l’evoluzione fisica e comportamentale della loro discendenza. Quando consideriamo una progenie proveniente da genitori entrambi segnati da esperienze traumatiche simili, ci accorgiamo che tali meccanismi epigenetici possiedono alta probabilità d’interazione reciproca, rendendo difficile discriminare fra i molteplici fattori implicati nel fenotipo dei loro figli.
Nonostante i meccanismi epigenetici siano stati presentati come l’interpretazione più valida rispetto a quella tradizionale puramente genetica riguardo agli esiti intergenerazionali derivanti dal trauma vissuto nei cicli familiari precedenti, l’evidenza empirica derivante dagli studi su soggetti umani non ha ancora confermato con certezza la capacità diretta della trasmissione epigenetica degli impatti traumatici. Tuttavia, i risultati convincenti ottenuti nei modelli animali suggeriscono una forte possibilità che tali meccanismi operino anche nell’uomo. La ricerca futura richiederà studi prospettici, longitudinali e multigenerazionali, spesso affiancati da studi paralleli sugli animali (ad esempio, attraverso incroci e fecondazione in vitro), per chiarire in modo più rigoroso l’impatto di esperienze specifiche e i meccanismi epigenetici sottostanti. La complessità è ulteriormente aumentata dalla necessità di considerare il contributo dei fattori genetici alle alterazioni epigenetiche indotte dai traumi, nonché l’età o lo stadio di sviluppo dei genitori al momento dell’esposizione al trauma.
Inoltre, è fondamentale esplorare come maschi e femmine possano essere colpiti in modo diverso dal trauma materno e paterno. La scoperta che l’ambiente post-traumatico può invertire alcuni degli effetti epigenetici apre una prospettiva cruciale: i cambiamenti indotti dallo stress non sono immutabili e la plasticità dell’epigenoma implica che le modificazioni possono essere “resettate” quando le condizioni ambientali migliorano o quando l’individuo sviluppa nuove strategie per affrontare le sfide. L’idea centrale qui espressa rimarca come il passaggio di tratti influenzati dall’ambiente non implichi necessariamente esiti sfavorevoli nel lungo periodo. In effetti, l’efficacia e la persistenza di tali tratti sono condizionate dal particolare ambiente in cui si sviluppano le generazioni successive. La naturale capacità degli individui di adattarsi con agilità alle sollecitazioni esterne, fondamento stesso della resilienza umana, implica che anche nel caso si ereditino esperienze traumatiche ci sia sempre opportunità per l’evoluzione e lo sviluppo personale.
Oltre la biologia: comprendere e rispondere al trauma ereditato
Il viaggio attraverso gli effetti del trauma intergenerazionale e l’epigenetica ci porta a riflettere su quanto siamo profondamente intrecciati con le esperienze di chi ci ha preceduto. A un livello basilare della psicologia cognitiva e comportamentale, ciò che i nostri antenati hanno vissuto può modellare i nostri schemi mentali e le nostre reazioni. Immaginate che il cervello sia come una mappa complessa, e ogni esperienza traccia un nuovo sentiero. Per le generazioni esposte a traumi prolungati, come quelle di Gaza, alcune di queste “mappe” possono essere disegnate con percorsi di allerta e vulnerabilità già incisi, rendendo più probabile una reazione di paura o una risposta di stress anche in situazioni non direttamente minacciose. Questo non è un destino immutabile, ma una traccia, un’inclinazione che possiamo scegliere di comprendere e, con gli strumenti giusti, rimodellare. Comprendere che siamo, in parte, il risultato di questa eredità, ci dà il potere di non esserne schiavi, ma di diventare architetti del nostro presente e futuro.
A un livello più avanzato, la nozione di “plasticità epigenetica” è straordinariamente liberatoria. Pensate all’epigenoma come a un software che gestisce il nostro hardware genetico. Questo software non è fisso; può essere aggiornato e modificato in risposta a nuove esperienze. Anche se un trauma a lungo termine ha programmato il nostro “software” in un certo modo, la ricerca ci mostra che nuove esperienze e ambienti supportivi possono installare nuove versioni di quel software, promuovendo la resilienza e il benessere. Ciò significa che non siamo condannati a ripetere gli schemi di sofferenza dei nostri antenati. Al contrario, possiamo attivamente lavorare per “riprogrammare” queste predisposizioni, non solo per noi stessi ma anche per le generazioni future. Questa consapevolezza ci spinge a considerare quanto siamo responsabili, non solo delle nostre azioni e del nostro benessere immediato, ma anche dell’eredità biologica e psicologica che lasciamo a chi verrà dopo di noi, invitandoci a investire in percorsi di cura, resilienza e giustizia che possano spezzare i cicli del trauma e costruire un futuro più sano.
- epigenetica: branca della biologia che studia i cambiamenti nell’espressione genica senza alterare la sequenza del DNA.
- PTSD: Disturbo da Stress Post-Traumatico, che si manifesta in seguito a eventi traumatici.
- lealtà invisibili: legami emotivi impliciti che portano i discendenti a cercare di “riparare” i traumi non risolti delle generazioni precedenti.