Neuroscienze e crimine: svelare i segreti del cervello per un futuro più sicuro?

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  • Gli studi rivelano che la riduzione della materia grigia nel lobo prefrontale è legata a comportamenti antisociali.
  • Varianti genetiche MAOA associate a comportamenti aggressivi in individui con tale variante del gene.
  • KeyCrime a Milano riduce le rapine in farmacia individuando le «serie criminali».
  • Individui ad alto rischio di recidiva mostrano alterazioni nelle aree del cervello per il controllo degli impulsi.

La possibilità di prevedere un futuro crimine, un concetto che evoca scenari da fantascienza come quello dipinto in “Minority Report”, sta gradualmente uscendo dalla dimensione puramente speculativa per entrare nel campo della ricerca scientifica applicata. Al centro di questa trasformazione si colloca l’emergente disciplina della “neuroscienza predittiva” in ambito criminologico. Lo studio del comportamento criminale, tradizionalmente appannaggio di sociologia e psicologia, si arricchisce oggi degli apporti delle neuroscienze, cercando di individuare correlazioni tra specifici biomarcatori cerebrali e una maggiore propensione ad agire in maniera violenta o antisociale.
Le indagini in questo campo sono ancora in una fase embrionale e sollevano complesse questioni etiche e metodologiche, ma l’obiettivo è ambizioso: identificare pattern neurali o genetici che possano fungere da indicatori di rischio per lo sviluppo di condotte devianti. Alcune ricerche, infatti, suggeriscono che anomalie strutturali o funzionali in specifiche aree cerebrali, come l’amigdala (spesso associata alla regolazione delle emozioni, in particolare paura e aggressività) o la corteccia prefrontale (implicata nel controllo degli impulsi, nel ragionamento e nella decisione), potrebbero essere correlate a una maggiore impulsività o una ridotta capacità di empatia, fattori ipoteticamente legati a comportamenti violenti.

Studi recenti
Gli studi più recenti hanno rivelato che la riduzione della materia grigia in specifiche aree cerebrali, come il lobo prefrontale e temporale, è significativamente legata a comportamenti antisociali. In particolare, Hofhansel et al. (2020) osservano correlazioni tra le riduzioni della materia grigia e l’aggressività reattiva.

Allo stesso modo, studi genetici indagano l’influenza di varianti alleliche di geni coinvolti nel metabolismo dei neurotrasmettitori sull’aggressività e l’impulsività. Le ricerche hanno dimostrato che varianti genetiche riguardanti neurotrasmettitori come la MAOA (monoaminossidasi A) possono essere associate a comportamenti estremamente aggressivi e violenti in individui con tale variante del gene. Questi studi evidenziano una rilevante base genetica per la propensione a comportamenti impulsivo-aggressivi.
Tuttavia, è fondamentale sottolineare come queste indagini siano ancora in corso e presentino numerose complessità. La correlazione non implica causalità, e l’identificazione di specifici biomarcatori non significa in alcun modo determinare inevitabilmente un percorso criminale. Il comportamento umano è il risultato di una complessa interazione di fattori biologici, psicologici, sociali e ambientali. I traumi infantili, ad esempio, possono avere effetti duraturi sull’integrità cerebrale e sul controllo affettivo, aumentando il rischio di comportamenti aggressivi e reati. Anche lo stress è stato associato a disturbi psicopatologici che possono sfociare in comportamenti aggressivi. Pertanto, l’idea che un singolo biomarcatore o un insieme di essi possa prevedere con certezza un futuro reato è altamente riduttiva e, allo stato attuale delle conoscenze, scientificamente insostenibile.
Nonostante le sfide, l’interesse verso l’applicazione delle neuroscienze in criminologia è in crescita, soprattutto nel contesto della polizia predittiva. Diverse forze dell’ordine stanno esplorando l’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale per analizzare grandi quantità di dati storici sui crimini al fine di individuare “zone calde” o individuare potenziali “serie criminali”. Queste tecnologie, pur non basandosi direttamente su biomarcatori neurali, rappresentano un primo passo verso l’applicazione di approcci predittivi nella lotta al crimine.

Algoritmi predittivi e predictive policing: applicazioni e criticità

L’evoluzione delle tecnologie di analisi dei dati e dell’intelligenza artificiale sta rivoluzionando l’approccio delle forze dell’ordine alla prevenzione e al contrasto della criminalità. La “polizia predittiva” (predictive policing) si basa sull’idea che i crimini non siano eventi casuali, ma presentino pattern spazio-temporali che possono essere identificati e previsti attraverso l’analisi di dati storici. Le tecniche utilizzate in questo campo sono diverse, ma possono essere raggruppate in quattro categorie principali: tecniche di analisi statistica classiche, metodi semplici, applicazioni complesse (come i modelli near-repeat) e metodi personalizzati (adattati a scopi specifici).

Hot Spot Analysis
Tra le tecniche predittive più diffuse vi è la hot spot analysis, che si concentra sull’identificazione delle aree geografiche a maggior rischio di criminalità. Questi approcci sfruttano l’assunto che alcune caratteristiche ambientali o sociali rendano determinate aree più vulnerabili.

Esempi di tecniche di hot spot analysis includono la grid mapping, i covering ellipses e le stime di densità Kernel. In Italia, il software KeyCrime, sviluppato a Milano, ha dimostrato una notevole efficacia nel ridurre le rapine in farmacia, basandosi sull’assunto che i criminali abbiano comportamenti abituali prevedibili. A differenza del software statunitense PredPol, che si concentra sulla mappatura delle zone a rischio, KeyCrime mira a individuare le “serie criminali” collegando rapine con caratteristiche simili per predire la prossima mossa di un criminale già identificato.
Tuttavia, l’applicazione di algoritmi predittivi in ambito di sicurezza solleva importanti questioni etiche e sociali. Un rischio concreto è rappresentato dal fenomeno del “feedback loop” o “circuito di retroazione”, dove l’analisi dei dati storici, che potrebbero riflettere pregiudizi impliciti nella raccolta, porta gli algoritmi a segnalare continuamente le stesse zone come ad alto rischio. Questo può innescare un circolo vizioso, in cui un’intensificazione della sorveglianza in tali aree porta a un aumento del numero di reati registrati, confermando la previsione dell’algoritmo e perpetuando la “ghettizzazione” di determinate comunità. Negli Stati Uniti, alcuni software di predictive policing hanno mostrato problemi di bias, sollevando preoccupazioni riguardo alla profilazione razziale e alla discriminazione algoritmica.
Inoltre, l’accuratezza delle previsioni algoritmiche dipende in gran parte dalla qualità e dalla completezza dei dati inseriti. Dati incompleti, errati o manipolati possono portare a previsioni fuorvianti, con conseguenze negative sull’allocazione delle risorse di polizia e sul rischio di “falsi positivi”. Questo non solo spreca risorse, ma può anche alimentare la sfiducia della popolazione nei confronti delle forze dell’ordine. La sicurezza predittiva, pur offrendo potenziali benefici, necessita di una attenta valutazione dei rischi e di un quadro normativo e etico rigoroso per garantirne un utilizzo responsabile e non discriminatorio.

Cosa ne pensi?
  • Finalmente un articolo che fa chiarezza sui rischi e benefici......
  • Trovo pericoloso ridurre il comportamento umano a semplici biomarcatori......
  • E se invece usassimo queste scoperte per aiutare, e non per punire 🤔......

Le sfide etiche e legali delle neuroscienze applicate alla criminologia

L’applicazione delle neuroscienze e delle tecniche predittive in ambito criminologico, non solo a livello di analisi del fenomeno ma anche potenzialmente a livello individuale, apre un vaso di Pandora di questioni etiche e legali. Se in futuro fosse possibile identificare specifici biomarcatori cerebrali o genetici associati a una maggiore propensione alla violenza, sorge immediatamente la domanda: è etico o legale utilizzare queste informazioni per prevenire un crimine prima che accada? Questo scenario, che ricorda ancora una volta “Minority Report”, solleva dilemmi profondi sulla libertà individuale, il diritto alla privacy e il concetto stesso di responsabilità penale.
Uno dei timori principali riguarda il rischio di “profilazione predittiva” basata su caratteristiche biologiche o comportamentali. Se un individuo presentasse determinati biomarcatori considerati “a rischio”, potrebbe essere sottoposto a una sorveglianza speciale, a limitazioni della libertà o persino a interventi coercitivi basati su una potenziale futura condotta criminale. Questo violerebbe il principio fondamentale del diritto penale secondo cui la sanzione deve essere comminata per un reato commesso, non per una potenziale commissione di reato.

Identificazione delle recidive
È stato riscontrato che individui che hanno commesso crimini violenti e sono classificati come ad alto rischio di recidiva, mostrano alterazioni nelle aree cerebrali coinvolte nel controllo degli impulsi. Questi aspetti hanno profonde implicazioni etiche nell’accertamento della responsabilità.

Il concetto di “pericolosità sociale”, già dibattuto nel diritto attuale, acquisirebbe con l’introduzione di biomarcatori predittivi una dimensione completamente nuova e potenzialmente molto più invasiva.
Le implicazioni etiche si estendono anche alla potenziale manipolazione neuronale. Se fosse possibile identificare le basi neurali di comportamenti violenti, potrebbe emergere la tentazione di “correggere” o “modificare” tali caratteristiche attraverso interventi farmacologici o neurotecnologici. Questo solleva interrogativi fondamentali sul diritto all’integrità mentale e alla libertà di pensiero. La comunità scientifica e giuridica è chiamata a un confronto urgente e aperto su questi temi, definendo linee guida chiare e rigorose per l’applicazione delle neuroscienze in contesti legali e di sicurezza. La protezione dei “diritti neuronali”, come la privacy mentale e la libertà cognitiva, diventa un tema centrale nel dibattito etico e giuridico sull’avanzamento delle neurotecnologie.

Oltre la previsione: la complessità del comportamento e la necessità di approcci integrati

L’intenzione dichiarata d’introdurre una previsione riguardo al crimine mediante l’analisi dei biomarcatori cerebrali oppure tramite algoritmi predittivi si imbatte nella complicata natura intrinseca del comportamento umano. Fenomeni come la violenza, i comportamenti antisociali e le condotte criminali non dipendono da un singolo elemento isolato; essi scaturiscono invece dalla profonda interazione tra variabili biologiche, psicologiche, sociali ed ambientali. Evidentemente limitarsi all’individuazione esclusiva dei marcatori biologici o affidarsi semplicemente a schemi statistici rappresenta il rischio concreto dell’eccessiva semplificazione nel trattare tale fenomeno dalle mille sfaccettature.
Analizzando questo argomento dalla prospettiva della psicologia comportamentale emerge che il comportamento criminale può essere percepito come una serie articolata di risposte acquisite attraverso apprendimenti condizionati da rinforzi positivi o negativi offerti dall’ambiente sociale circostante. Esperienze traumatiche vissute nell’infanzia – subite in modi vari – così come esposizioni prolungate a contesti contrassegnati dalla violenza e lacune nei processi educativi hanno un forte impatto sulla formazione delle reazioni individuali; ciò accresce notevolmente la tendenza a compiere atti devianti o aggressivi.
In questo senso è imprescindibile riconoscere che gli ambiti medici legati alla salute mentale giocano un ruolo cruciale nell’interpretazione nonché nella prevenzione delle manifestazioni criminogene. Disturbi mentali non trattati, dipendenze e condizioni legate a traumi cerebrali (come il trauma cranico) possono essere fattori che contribuiscono allo sviluppo di comportamenti violenti. L’accesso a servizi di salute mentale adeguati e la promozione del benessere psicologico sono quindi elementi cruciali per una prevenzione efficace del crimine.

Prevenzione integrata
Prevenire il crimine in modo efficace richiede un approccio integrato che tenga conto della complessità del fenomeno. Investire in programmi sociali ed educativi, affrontare le cause profonde della marginalizzazione e della disuguaglianza, e promuovere il benessere psicologico sono passi fondamentali.


Mentre la neuroscienza predittiva e gli algoritmi possono offrire strumenti aggiuntivi per le forze dell’ordine, non possono e non devono sostituire la necessità di affrontare la criminalità attraverso un approccio olistico che consideri l’individuo nel suo contesto sociale e psicologico. Un approccio esclusivamente basato sulla previsione, che ignori la complessità del comportamento umano e le sue radici profonde nella psicologia e nell’ambiente sociale, rischierebbe di essere riduttivo, inefficace e potenzialmente dannoso, alimentando pregiudizi e violando diritti fondamentali. La vera sfida consiste nell’utilizzare le nuove conoscenze scientifiche e le tecnologie in modo etico e responsabile, al servizio di una società più sicura e giusta, senza cadere nella tentazione di soluzioni semplicistiche o deterministiche.

Glossario:
  • Biomarcatori cerebrali: Indicatori biologici che possono collegare le attività cerebrali e i comportamenti.
  • Profilazione predittiva: Tecnica che prevede crimini futuri attraverso analisi dei dati.
  • Neurocriminologia: Studio delle interazioni tra neuroscienze e comportamenti criminali.
  • Feedback loop: Ciclo di retroazione che può rinforzare comportamenti pregiudizievoli basati su dati.

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